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«Non guardare ai nostri peccati»
Brian P. Flanagan

«Non guardare ai nostri peccati»

Pensare una Chiesa santa e peccatrice

Prezzo di copertina: Euro 28,00 Prezzo scontato: Euro 26,60
Collana: Giornale di teologia 447
ISBN: 978-88-399-3447-5
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 256
Titolo originale: Stumbling in Holiness. Sin and Sanctity in the Church
© 2022

In breve

«Il contributo specifico offerto da questo libro – che dovrebbe essere letto e studiato da storici, ecclesiologi, liturgisti e pastori della Chiesa – è confutare la falsa dicotomia secondo cui i figli e le figlie della Chiesa possono compiere passi falsi, senza che questo intacchi minimamente la santità della Chiesa stessa» (Christopher M. Bellitto, Kean University, New Jersey (USA)).

Descrizione

Che cosa significa per la Chiesa essere al tempo stesso santa e peccatrice? Quali tradizioni teologiche forniscono il contesto e il linguaggio migliori per comprendere il vissuto di una comunità che spesso arranca nel suo tendere alla santità?
Partendo da una prospettiva teologico-ligurgica anziché dalla consueta angolazione dogmatico-apologetica, Brian Flanagan affronta con perizia il modo in cui santità e peccato, errore e perdono condizionano il cammino della Chiesa. Ai lettori egli indica una Chiesa che, in atteggiamento di preghiera, confessa la propria indegnità e un continuo bisogno di purificazione, fiduciosa di poter partecipare – oggi e in futuro – alla vita di Dio.
Dopo una panoramica dei modi in cui i teologi del passato hanno cercato di spiegare la coesistenza di santità e peccato nella Chiesa, il saggio argomenta questa tesi: pur potendo essere certi che il Dio fedele santificherà pienamente la Chiesa nel Regno a venire, la nostra ecclesiologia deve sempre occuparsi sia della santità che già sperimentiamo sia del peccato che fa parte del nostro bagaglio nel cammino verso quel Regno.

Recensioni

Il teologo statunitense Brian P. Flanagan, a conclusione del suo lavoro Non guardare ai nostri peccati, scrive: «Auspico che questo tentativo di pensare di più alla peccaminosità della chiesa non incoraggi il pessimismo ecclesiale o lo scandalo, ma ci aiuti a pregare che “Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”, più chiaramente consapevoli che Dio non ha misericordia solo di te, di me o di loro, ma di noi, dell’amata chiesa peccatrice ma santa» (p. 242).

Flanagan non intende scrivere un’apologia sulla santità della chiesa bensì elaborare delle categorie teologiche che permettano di credere in una chiesa santa seppur peccatrice. Santità/indefettibilità e peccaminosità sono infatti due aspetti della realtà ecclesiale da tenere sempre insieme; «sono misteriose», «non sono direttamente opposte» (p. 188) ma coesistono nella stessa comunità cristiana concreta. Questo non è di solito facilmente comprensibile! La liturgia ce lo ricorda nella preghiera che precede il segno di pace: «Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli “Vi lascio la pace vi do la mia pace”, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa». L’A. si chiede: «Solo i peccati sono “nostri” o è “nostra” anche la fede?» (p. 25). L’interrogativo rimane sospeso al rapporto esistente tra la comunità concreta celebrante e ciò che viene creduto, ossia la fede in Colui che le dona unità e pace. Allo stesso modo quando pronunciamo le parole contenute nel Credo apostolico Credo […] sanctam Ecclesiam catholicam. È «un’affermazione piuttosto audace» (p. 6).

Si pensi alle esperienze di peccaminosità ecclesiale di ieri (tradimenti durante le persecuzioni, divisioni interne e fallimenti di una chiesa pellegrina e altro) e di oggi (abusi sessuali, complicità ecclesiale nel razzismo, ingiustizia sistemica nelle strutture e nelle istituzioni della chiesa come discriminatorie e nocive per le persone di colore in particolare negli Stati Uniti, per le donne, per le persone Lgbt). Nel corso della storia si è cercato di ricorrere a delle “strategie teologiche” per spiegare «il paradosso della loro coesistenza nella chiesa» (p. 191), pensando di dividere la chiesa in santa e peccatrice oppure attribuendo la santità alla chiesa e la peccaminosità ai peccatori. Tali “strategie teologiche” hanno prodotto un fraintendimento molto grave riguardante la natura della chiesa al punto tale da postularne un’entità idealizzata. In tal modo sono stati compiuti due errori (due trappole): da una parte quello di «preservare la santità della chiesa negando la sua peccaminosità», dall’altra quello di «rendere conto della reale peccaminosità della chiesa negando la sua santità» (p. 192).

Proprio per non rifugiarsi in una chiesa astratta che non esiste, Flanagan ha deciso di iniziare il suo lavoro partendo dalla chiesa come realtà storica concreta che si riunisce ogni domenica per la celebrazione eucaristica. Il primo capitolo Peccato e santità nella liturgia inizia con una breve narrazione di un’assemblea domenicale riunita per la liturgia definita come un corpo di cristiani «difettoso, dotato, limitato, peccaminoso e tuttavia spesso profondamente santo» nel quale «si incontra la presenza di Cristo attraverso, e non malgrado, questa compagine concreta di credenti» (p. 16). Tale assemblea potrebbe essere studiata da diversi punti di vista (sociologico, etnografico, narrativo), ma quello del metodo della teologia liturgica è il «punto di partenza principale» perché la prassi sacramentale e liturgica sono «l’espressione privilegiata della fede della chiesa» (p. 18). La chiesa cristiana infatti «è se stessa nel culto per cui ci si può aspettare che lì esprima chi è rispetto a Dio in modo determinante» (p. 20).

Con queste premesse l’A. apre la strada agli approfondimenti proposti nei successivi capitoli per giungere a quello conclusivo Definire la chiesa santa e peccatrice in cui traccia cinque “linee guida” per una teologia del peccato e della santità ecclesiali (pp. 227,239). Esse vengono espresse nell’ordo della liturgia che, secondo la cosiddetta “regola di Laszlo”, ci insegna a «parlare sempre della santità della chiesa e della peccaminosità della chiesa insieme» (p. 240). A tale riguardo sono molto utili le chiarificazioni dei concetti di “santità”, “peccato”, “chiesa” (cap. II) ripresi nei capitoli IV e V nelle loro declinazioni individuali, collettive e strutturali. Al termine del cap. V, in modo assai opportuno, si concentra sulle immagini di chiesa come “Madre”, come “sposa di Cristo” e come “casta meretrice” dicendo che si tratta di metafore ecclesiali da usare con cautela, evitando di interpretarle alla luce di una chiesa “ipostatizzata” (Congar ricorda che la chiesa non è un’ipostasi, p. 218), bensì riconducendole alla comunità concreta dei cristiani in relazione con Dio attraverso Cristo nello Spirito santo in cammino verso il Regno di Dio.

Il saggio di Flanagan ha il merito di aiutare a pensare la chiesa “santa e peccatrice” in modo concreto, e di offrire una pista di riflessione che renda ragione della loro coesistenza, così da essere più consapevoli di poter crescere, sebbene lentamente, nell’esperienza della santità della chiesa.


G. Zambon, in Studia Patavina 2/2024, 360-362

Le formule confessionali delle varie chiese invocano la fede nella chiesa «santa» (oltre che, e prima che, «una», «cattolica» e «apostolica»). In che senso? Come pensare la santità (che significa prossimità a Dio, trasparenza del suo regno tra noi, luogo d'incontro con la sua gloria, anticipo di divinità) quando vediamo ogni giorno la chiesa (e noi con lei) ferita da palesi indiscutibili tradimenti, abusi di potere, scismi, violenze non solo antiche (crociate, inquisizioni, schiavismi, olocausto), razzismi, imbarazzanti autoreferenzialità, malcelati clericalismi, e via dicendo? Come pensarsi ancora discepoli di Gesù risorto?

Qualcuno dirà: ecco la solita roba, buona solo per discutere inutilmente di verità già note e acquisite. Ma non è così se vogliamo uscire da quella palude teologica in cui ci siamo cacciati nel tentativo di rispondere alle drammatiche situazioni contemporanee (abusi, pandemie...): afasie più che altro o refrain poco convincenti.

Peccato e santità non vanno mai separati quando dobbiamo fare i conti con quello che siamo nella storia. La monotonia con cui ci barcameniamo nella nostra vita cadenzando grazie e peccato è proprio la stessa della chiesa che siamo. Incapaci noi di vivere come discepoli di Cristo e quindi incapace la chiesa a essere in pienezza la discepola fedele del Signore. Il guaio è che non riuscendo a vivere nel presente la tensione tra peccato e santità, spesso e volentieri ci viene facile compartimentare il bene (proprio della chiesa in sé attuale o quella futura poco importa) e il male (se c'è è proprio del battezzato singolo inetto, piccolo e fragile), la santità da una parte (nelle liturgie e quella decantata degli eroi della fede) e le miserie dall'altra (certo i peccati dei singoli, le solite mele marce, i cedimenti diabolici, la mala gestione del potere...).

Il potere: ne abbiamo parlato anche in questo fascicolo di «CredereOggi» come di una grossa tentazione della «chiesa» tutta, di uno scandalo non più avvertito tale. Questo libro di Flanagan (teologo USA cf. Twitter: @BrianPFlanagan)non indugia o tergiversa a spiegarci la «dottrina» della chiesa santa e peccatrice (nei capitoli centrali vi si dedica rileggendone le concezioni dentro la complessità del pensiero contemporaneo), ma ci addestra a tenere insieme le due realtà (che sono esperienze) della nostra fede per coniugarle al meglio nella nostra vita dentro la comunità ecclesiale.

Parte giustamente dalla liturgia, (negletta) fonte dell'autocomprensione della chiesa ed espressione del suo stile di vita (cap. 1) e dopo quattro tappe (capitoli) arriva a offrire nell'ultimo capitolo (il sesto) cinque «linee guida» (in forma di proposizioni) per l'avvio di discussioni e ulteriori approfondimenti.

Essenziale e chiara la sua proposta, che vede realizzata (realizzabile si direbbe, viste le difficoltà in cui si dibattono le nostre celebrazioni) e sperimentabile proprio nella celebrazione dell'eucaristia. Non è poi così ovvia e scontata come si può subito pensare. Anzi. La liturgia non è per nulla un pio affetto per anime belle, ma l'esperienza viva di come si possono coniugare ogni giorno proprio santità e peccato. Un'esperienza che impegna e compromette come singoli e come chiesa soprattutto oltre le celebrazioni.

Pertanto, questo è un testo da leggere perché potrebbe diventare un buon punto di partenza per un dibattito che dovrebbe finalmente porre fine a quella bislacca teologia che pensa la chiesa senza peccato (santa di default) e il peccato caso mai è solo un affare dei suoi poveri membri.


D. Passarin, in CredereOggi 256 (4/2023), 166-167