Il teologo statunitense Brian P. Flanagan, a conclusione del suo lavoro Non guardare ai nostri peccati, scrive: «Auspico che questo tentativo di pensare di più alla peccaminosità della chiesa non incoraggi il pessimismo ecclesiale o lo scandalo, ma ci aiuti a pregare che “Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”, più chiaramente consapevoli che Dio non ha misericordia solo di te, di me o di loro, ma di noi, dell’amata chiesa peccatrice ma santa» (p. 242).
Flanagan non intende scrivere un’apologia sulla santità della chiesa bensì elaborare delle categorie teologiche che permettano di credere in una chiesa santa seppur peccatrice. Santità/indefettibilità e peccaminosità sono infatti due aspetti della realtà ecclesiale da tenere sempre insieme; «sono misteriose», «non sono direttamente opposte» (p. 188) ma coesistono nella stessa comunità cristiana concreta. Questo non è di solito facilmente comprensibile! La liturgia ce lo ricorda nella preghiera che precede il segno di pace: «Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli “Vi lascio la pace vi do la mia pace”, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa». L’A. si chiede: «Solo i peccati sono “nostri” o è “nostra” anche la fede?» (p. 25). L’interrogativo rimane sospeso al rapporto esistente tra la comunità concreta celebrante e ciò che viene creduto, ossia la fede in Colui che le dona unità e pace. Allo stesso modo quando pronunciamo le parole contenute nel Credo apostolico Credo […] sanctam Ecclesiam catholicam. È «un’affermazione piuttosto audace» (p. 6).
Si pensi alle esperienze di peccaminosità ecclesiale di ieri (tradimenti durante le persecuzioni, divisioni interne e fallimenti di una chiesa pellegrina e altro) e di oggi (abusi sessuali, complicità ecclesiale nel razzismo, ingiustizia sistemica nelle strutture e nelle istituzioni della chiesa come discriminatorie e nocive per le persone di colore in particolare negli Stati Uniti, per le donne, per le persone Lgbt). Nel corso della storia si è cercato di ricorrere a delle “strategie teologiche” per spiegare «il paradosso della loro coesistenza nella chiesa» (p. 191), pensando di dividere la chiesa in santa e peccatrice oppure attribuendo la santità alla chiesa e la peccaminosità ai peccatori. Tali “strategie teologiche” hanno prodotto un fraintendimento molto grave riguardante la natura della chiesa al punto tale da postularne un’entità idealizzata. In tal modo sono stati compiuti due errori (due trappole): da una parte quello di «preservare la santità della chiesa negando la sua peccaminosità», dall’altra quello di «rendere conto della reale peccaminosità della chiesa negando la sua santità» (p. 192).
Proprio per non rifugiarsi in una chiesa astratta che non esiste, Flanagan ha deciso di iniziare il suo lavoro partendo dalla chiesa come realtà storica concreta che si riunisce ogni domenica per la celebrazione eucaristica. Il primo capitolo Peccato e santità nella liturgia inizia con una breve narrazione di un’assemblea domenicale riunita per la liturgia definita come un corpo di cristiani «difettoso, dotato, limitato, peccaminoso e tuttavia spesso profondamente santo» nel quale «si incontra la presenza di Cristo attraverso, e non malgrado, questa compagine concreta di credenti» (p. 16). Tale assemblea potrebbe essere studiata da diversi punti di vista (sociologico, etnografico, narrativo), ma quello del metodo della teologia liturgica è il «punto di partenza principale» perché la prassi sacramentale e liturgica sono «l’espressione privilegiata della fede della chiesa» (p. 18). La chiesa cristiana infatti «è se stessa nel culto per cui ci si può aspettare che lì esprima chi è rispetto a Dio in modo determinante» (p. 20).
Con queste premesse l’A. apre la strada agli approfondimenti proposti nei successivi capitoli per giungere a quello conclusivo Definire la chiesa santa e peccatrice in cui traccia cinque “linee guida” per una teologia del peccato e della santità ecclesiali (pp. 227,239). Esse vengono espresse nell’ordo della liturgia che, secondo la cosiddetta “regola di Laszlo”, ci insegna a «parlare sempre della santità della chiesa e della peccaminosità della chiesa insieme» (p. 240). A tale riguardo sono molto utili le chiarificazioni dei concetti di “santità”, “peccato”, “chiesa” (cap. II) ripresi nei capitoli IV e V nelle loro declinazioni individuali, collettive e strutturali. Al termine del cap. V, in modo assai opportuno, si concentra sulle immagini di chiesa come “Madre”, come “sposa di Cristo” e come “casta meretrice” dicendo che si tratta di metafore ecclesiali da usare con cautela, evitando di interpretarle alla luce di una chiesa “ipostatizzata” (Congar ricorda che la chiesa non è un’ipostasi, p. 218), bensì riconducendole alla comunità concreta dei cristiani in relazione con Dio attraverso Cristo nello Spirito santo in cammino verso il Regno di Dio.
Il saggio di Flanagan ha il merito di aiutare a pensare la chiesa “santa e peccatrice” in modo concreto, e di offrire una pista di riflessione che renda ragione della loro coesistenza, così da essere più consapevoli di poter crescere, sebbene lentamente, nell’esperienza della santità della chiesa.
G. Zambon, in
Studia Patavina 2/2024, 360-362