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«Ma più grande è l’amore»
Dario Cornati

«Ma più grande è l’amore»

Verità e giustizia di agápe

Prezzo di copertina: Euro 33,00 Prezzo scontato: Euro 31,35
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 195
ISBN: 978-88-399-0495-9
Formato: 16 x 23 cm
Pagine: 432
© 2019

In breve

Postfazione di Pierangelo Sequeri

«Di senso non si parla più oggi. Si parla di benessere, di sicurezza, di futuro, di pace, ma del senso spirituale del mondo che abitiamo si tace. Qui, invece, per tutta risposta, noi faremo spazio pensosamente a quell’assoluto che è l’amore» (Dario Cornati).

Descrizione

Il lavoro di Dario Cornati ha per oggetto l’unità di metafisica e amore. Si presenta come viaggio nella cultura antica e moderna, medievale e romantica: un lungo viaggio alla ricerca della sapienza d’amore.
Come ogni viaggio, non potendo toccare tutte le terre bagnate dal lógos, ne privilegia alcune (Platone, Agostino, Bonaventura di Bagnoregio, Spinoza, Blondel, Balthasar, fra le altre), in grado restituire la parola, altrimenti tanto spensierata e maltrattata di agápe. Ne restituisce lo splendore della verità e lo spessore della giustizia, andando controcorrente rispetto alle mode contemporanee dei neo-razionalismi e dei fideismi del credere.
Al termine di questa audace navigazione, ciò che spunta all’orizzonte è il contesto, reso di nuovo abitabile, di una città dell’uomo, edificata dall’éthos laborioso dell’amore che ne rigenera la speranza. Certo, riacciuffare persino nelle filosofie di Cartesio, di Spinoza, di Kant, di Hegel una riflessione sull’essere amabile e il rendersi amabile dell’umana creatura pare un’impresa; come lo è, del resto, l’impegno condiviso a plasmare la realtà nell’ordine ritrovato dei nostri affetti più sacri. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di mettere in campo non soltanto l’aspirazione della ragione e lo slancio del sentire, bensì – in aggiunta – un’etica della dedizione e del sacrificio, della resistenza ostinata e della resa fiduciosa. Una passione per il “corpo a corpo” del vivere, insomma, che il cristianesimo, rimesso finalmente in strada, sembra oggi riscoprire.

Commento

«Questo saggio di Dario Cornati mette cuore intelligenza in questa sfida, elaborare una metafisica della verità e della giustizia di agápe, lavorando il solco in profondità. Se si seguono le giuste tracce dell’esperienza e del pensiero, e non ci si lascia distrarre da una certa aria di sufficienza dell’accademismo teologico e dell’ingegneria pastorale, la ricerca seria e appassionata è in grado di scoprire nell’inascoltato della tradizione voci belle e forti per l’allestimento del nuovo paradigma. Qui, per tutti, testimone d’elezione è Hans Urs von Balthasar, con le sue due splendide pagine ispiratrici, nelle quali l’obiettivo e la sfida sono disegnati con la perfezione dell’icona» (dalla Postfazione di Pierangelo Sequeri).

Recensioni

Il lavoro di Dario Cornati, noto docente di Filosofia della religione e Teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e l’ISSR di Milano, s’inserisce in modo provvidenziale in uno dei dibattiti più complessi, disputati sull’insidioso terreno di confine tra riflessione filosofica ed elaborazione teologica. La posta in gioco non è semplicemente quella della pensabilità filosofica dell’amore, né della dicibilità teologico-sistematica di agápe. Non si tratta neppure della semplicistica, quantunque ardua, esigenza di portare a riconciliazione la secolare riflessione onto-teologica sull’essere divino, nella sua sovra-ontologica identità trinitaria, con il dato biblico delle passiones Dei e il difficile cristologico della passio Dei, né di mediare tra la pro­spettiva di concettualizzazione metafisico-sistematica del Verbum Dei e la con­creta dinamica storica del suo essere pro nobis, nel suo comunicarsi/rivelarsi ad homines. L’obiettivo della ricerca è piuttosto quello di reperire materiali per gettare le fondamenta di un sapere teologico dell’amore sulla base di un’antro­pologia connotata esteticamente, radicata nel delicato terreno del sentimento e dell’affetto. Si tratta dunque di entrare nel mistero di agápe, attraverso la chiave estetica di una grammatica delle emozioni e degli affetti, per cogliere la para­dossalità della sua immanenza alla più intima struttura dell’umano e insieme della sua capacità di trascendere ogni trascendentale, sfuggendo alle maglie concettuali dell’ontologia.

Il titolo del volume, con il richiamo al testo paolino di 1 Cor 13, riportato per esteso all’inizio e ripreso in conclusione, mette a fuoco l’oggetto della ricerca: che mistero è mai quello di agápe, più grande di ogni cosa, eppure così nascosta da eludere le stesse categorie nelle quali si declina la realtà più semplice e generale, cioè il mistero dell’essere con i suoi trascendentali di unità, verità e bontà? La riflessione si muove nel solco tracciato da Balthasar con la sua estetica teologica. I due testi del teologo svizzero, riportati, dopo 1 Cor 13, all’i­nizio del volume, tratti da Teologica 2. Verità di Dio e da Solo l’amore è credibile, come manifesto del suo pensiero, sono la lente attraverso la quale Cornati si propone di rileggere l’icona paolina di agápe. Punto attrattivo di molte correnti che hanno attraversato la riflessione filosofico-teologica del ’900, nei ripetuti tentativi di superare le secche dell’alternativa tra il movimento discendente di una deduttività metafisico-concettuale e quello ascendente di una prospet­tiva storico-induttiva, e di colmare il fossato scavato da una visione estrin­secista del soprannaturale, tra il terreno dell’antropologia filosofica e quello dell’antropologia teologica, l’imponente opera balthasariana è anche impulso a un nuovo orientamento degli approcci filosofici e teologici al delicato tema dell’antropologia, nel comune denominatore di un approccio “estetico”.

Grazie anche al contributo di Balthasar, il tema di agápe si è fatto strada nel ripensamento generale dell’antropologia. Il suo rilancio filosofico, dalle lon­tane intuizioni di Rosmini, attraverso la fenomenologia dell’amore di Scheler, è approdato alla metafisica della carità di Marion e alla filosofia della carne di Henry. La sua riscoperta teologica si è sviluppata dalla tematizzazione delle passiones Dei in Moltmann alla teologia dell’amore di Jeanrond, con il contri­buto anche italiano della facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, particolar­mente di Lorizio. In tale ricco e complesso dibattito s’inserisce, già da tempo e in modo del tutto originale, la riflessione della scuola milanese, nel suo ten­tativo di far fruttificare l’eredità balthasariana non solo in direzione di una più compiuta teoria estetico-teologica, ma nella prospettiva di un’effettività “estetica” dell’esperienza di fede, quale fonte di una provveduta antropologia teologico-sistematica riflessa.

La ricerca di Cornati, nell’ambito della scuola milanese, fa particolare riferi­mento all’opera di Pierangelo Sequeri, autore, tra l’altro, di una postfazione al volume. Nelle sue pubblicazioni, da Il Dio affidabile fino a Il sensibile e l’inatteso, il teologo milanese percorre tenacemente la strada di un’elaborazione teolo­gica radicata in un’antropologia estetica, capace di assumere in recto l’ordine degli affetti. Oggi, infatti, – come afferma Sequeri nella postfazione – «l’unità di metafisica e amore, appresa dal cristianesimo, è diventata difficile da pen­sare. Di più, su quella unità è stato posto un interdetto – ieri a favore della me­tafisica, oggi a vantaggio dell’amore» (393). Se in passato, e non solo, la “teo-logia metafisica” ha ignorato la particolare “ontologia agapica”, negli ultimi tempi si è spesso tentata una riflessione teologica sull’amore, sia in termini biblici e storico-salvifici sia in categorie sistematico-concettuali, prescindendo tuttavia dall’effettività dell’esperienza dell’amore, cioè da quell’ordine degli affectus che ne è la porta di accesso antropologica. Se Sequeri ha cercato di gettare una luce sulla particolare chora dei sentimenti e degli affetti, con l’au­silio dell’indagine fenomenologica di Marc Richir, nel suo ritorno critico alle intuizioni husserliane, Cornati si è adoperato, invece, a portare l’acqua di mol­teplici testimonianze dell’oltre bimillenario patrimonio filosofico e teologico, al mulino di tali intuizioni, in buona parte ancora da sviluppare, in vista di una loro compiutezza teologica e coerenza sistematica.

La scoperta di uno specifico ordo affectuum, già dotato di una sua architet­tura pre-critica e pre-concettuale, e di un suo particolare logos pre-razionale, a fondamento del misterioso nomos pre-logico della verità e della giustizia dell’umano, quale guadagno della fenomenologia di Richir, ha orientato le ri­cerche dei teologi milanesi a radicare la riflessione teologica su agápe proprio nell’effettività dell’impatto affettivo dell’esperienza diretta dell’amore di Dio, riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito, donato da Gesù. Il ricono­scimento dell’autenticità di tale esperienza affettivo-teologale, che solo in se­conda battuta diventa oggettivazione teologico-sistematica, risiede nella sua capacità di gratuità generativa di vita filiale.

Dario Cornati, nel suo pregevole lavoro, ha scandagliato l’intera tradizione filosofica e teologica, dal pensiero greco antico alla fenomenologia contem­poranea, dalla teologia patristica e scolastica all’estetica teologica balthasa­riana. Dalle figure dell’eros nel Simposio platonico al pondus amoris di Agostino, dall’affectio in Bernardo e nel Medioevo monastico, fino alle riflessioni scola­stiche sulla ratio diligendi in Tommaso e l’apex affectus in Bonaventura. Nella se­conda parte del volume la riflessione prosegue a esaminare le grandi figure del pensiero moderno e contemporaneo: Cartesio e Spinoza, Malebranche e Kant, Hamann e Schelling, Schleiermacher e Blondel, fino a Husserl e Richir. Come per i filosofi greci e i teologi antichi e medievali, così per i pensatori moderni e contemporanei, Cornati scandaglia l’epistemologia impiegata, andando a ravvisare, caso per caso, come una sorta di comune radice gnoseologica affon­dasse proprio nel terreno misterioso degli affetti, espressi con il diversificato vocabolario delle affectiones, delle aisthéseis e delle Stimmungen, fino a culmi­nare nel sentimento del sublime kantiano, nella trascendenza affettiva delle sintesi passive husserliane e nell’originario affettivo della phantasia richiriana.

Il lavoro di Cornati porta dunque innumerevoli prove di carattere storico-epistemologico a suffragare il primato affettivo di una teologia (e di un pen­siero in generale) generata dall’effettività dell’esperienza di fede, nella sua porta d’accesso estetica allo spazio antropologico. La sua accurata esposi­zione inizia e si conclude con l’estetica teologica di Balthasar, quasi a indicare il punto di approdo, di fatto ancora insuperato, di una simile impostazione. L’invito implicito è tuttavia ad andare oltre nella ricerca della «verità e della giustizia di agápe», tenendo fisso lo sguardo all’inno paolino alla carità e utiliz­zando l’impianto fenomenologico di Richir. Le testimonianze accuratamente investigate nei rispettivi capitoli del volume sono miniera di preziose indica­zioni per ampliare l’orizzonte, e il metodo impiegato per la loro analisi può costituire un valido orientamento per l’efficacia e la coerenza di una successiva indagine, che abbia un obiettivo compiutamente sistematico.


L. Badetti, in Teresianum 71 (2020/2), 456-459

È sufficiente oggi utilizzare il registro dell’“amore”, al fine di mostrare il rilievo e la presa della fede cristiana per la vita degli esseri umani contemporanei? Il testo di Cornati parte dall’ambiguità del termine in questione e dalla pervasività del suo uso, « indubbiamente oggi una parola fuoricontrollo » (p. 15), per ristabilire l’unità tra metafisica e agápe, individuata come la via per conferire alla categoria di amore una portata fondativa. L’A. si prefigge, infatti, di elaborare una « metafisica della verità e della giustizia dell’amore, finalmente apprezzato come il nome stesso dell’essere » (p. 13).

Di fronte alla « religione dell’assoluto dell’innamoramento » (p. 17) si invita a una piú approfondita riflessione, per evitare facili giudizi che riconoscano in questa « specie di ecumenismo sovra-territoriale » (p. 16) dell’amore una sorta di inculturazione del vangelo condivisa universalmente. Invece, l’amore cieco assunto come paradigma dei legami e come chiave interpretativa dei testi evangelici conduce soltanto a vicoli ciechi, fino al risentimento e alla negazione dell’altro e all’indicibilità del kerygma. Di conseguenza, l’A. cerca di « restituire all’amore l’evidenza del suo logos, strappandolo al vizio romantico della sua irriducibile contrapposizione alla ragione » (p. 354), convinto che in questo consista « il distintivo della rivelazione biblica, delle civiltà dello spirito e dell’umanesimo cristiano ».

Una delle domande centrali del testo, evidenziata anche nella post-fazione di P. Sequeri, consiste nel chiedersi come mai si sia giunti a mettere da parte tale rilievo dell’amore e a ridurre « il piano della realtà al dato fisico e biologico » (p. 13) e si sia arrivati a contraddistinguere la « città secolare dei moderni » con un accumulo di « un patrimonio sociale d’inettitudine e d’incompetenza nei confronti delle nervature vitali e delle giunture forti di agápe » (p. 390).

Al fine di restituire all’amore il suo logós, il testo offre una panoramica di alcuni pensatori occidentali, con l’obiettivo di reperire in essi il contributo specifico alla riflessione fondamentale sull’amore: dalla filosofia greca e da Platone, in particolare, al contributo specifico di Agostino sull’amore come pondus, dagli autori medievali alla visione di amore delle corti e dei monasteri, fino ad autori moderni, tra cui Cartesio e Schelling, e del XX secolo, come Husserl e Richir. La disamina offerta lungo i secoli mostra in tali autori profili inaspettati sul tema dell’amore. Su questa linea, nell’affondo offerto sulla filosofia greca viene messo in luce come il cristianesimo sia stato affascinato e segnato non tanto dal dualismo platonico, che il testo scompone nelle due componenti orfica e pitagorica, quanto piuttosto dal principio di distacco del mondo proprio dello gnosticismo.

Nella lettura del Simposio di Platone, inoltre, non manca di mettere in rilievo l’importanza della figura femminile, Diotima, la parola sull’amore da lei affidata. Nel contempo, viene messo in luce come sia iniziato un percorso che porterà a un profilo privatistico dell’amore. Già nelle corti, secondo l’A., inizia tale prospettiva, come si evince dal fatto che « Tristano ama follemente il fuoco dell’amore e ama di sentirsi amato, ben piú di quanto non ami l’affascinante Isotta »; essi « non vivono mai l’altro, cosí com’è realmente: voglio dire nella sua effettiva presenza. Sopravvivono piuttosto alla sua assenza, rivestendola con la pellicola della loro smisurata immaginazione » (pp. 113-114). Con la fine del medioevo, « da cortese e sublime qual era, [l’amore] si rende via via sempre piú intimo e privato » (p. 127).

La prospettiva dichiarata su cui si muove l’A. è la proposta di von Balthasar, racchiusa nell’ultimo capitolo ma già anticipata nelle pagine introduttive (l’impostazione e molte espressioni significative di una pagina di quel capitolo [pp. 381-382] si ritrovano anche in precedenza [p. 15]). È a partire dalla riflessione del teologo svizzero enunciata in Solo l’amore è credibile che Cornati afferma che « non basta pronunciare la parola dell’amore per ottenere magicamente una metafisica o un’etica migliore » (pp. 381-382). Si tratta, invece, di fare un affondo sull’amore di generazione, che è il nome stesso dell’essere. Lo sguardo alla Trinità, infatti, permette di cogliere l’amore come il trascendentale in assoluto: « Dio non è mai stato qualcosa prima della generazione. […] Il fondo senza fondo, il cominciamento si chiama, essenzialmente, generazione » (p. 363). L’agápe è sovra-trascendentale poiché spiega « perché dovrebbe esistere qualcosa oltre: oltre l’assoluto divino » (p. 362): a motivo dell’amore come perdere-se-stessi e come reciproca dedizione, che rende possibile anche la stessa differenza delle persone nell’unica essenza divina. Pertanto, « Dio è unico, ci mancherebbe! Ma, sembra aggiungere [Balthasar], non è mai stato solo: non è mai stato semplicemente una sostanza » (p. 363), dal momento che è amore di generazione.

Il testo rivela un’ampia conoscenza degli autori presi in considerazione, capace di offrire linee interpretative non comuni al lettore non particolarmente esperto di questo tipo di frequentazioni. Nel far questo, utilizza linguaggio evocativo, che coinvolge e lascia spazio alla riflessione del lettore, che a volte può dubitare di non aver colto fino in fondo la direzione verso la quale ci si è incamminati. Non manca, all’interno di un periodare decisamente preciso e di qualità, nonché impegnativo, l’uso di un lessico piú colloquiale, che contribuisce a cogliere maggiormente la portata e l’attualità delle questioni affrontate.

Sullo sfondo l’inno alla carità di san Paolo, posto all’inizio del volume, presenta il tentativo dell’apostolo di Tarso di annunciare all’interno della cultura di sophía il primato dell’agápe e la parallela proposta dell’A. di coniugare metafisica e amore, per superare cosí sia la deriva oggettivistica della verità dell’essere che la riduzione sentimentalista dell’amore. Disseminate in vari punti del testo si trovano interpretazioni non comuni di testi biblici, probabilmente rese possibili dal dialogo instaurato con gli autori e dalla partenza eminentemente pratica della ricerca: la promessa di vita dischiusa nella generazione di un figlio (cf. p. 11).


F. Pesce, in Studia Patavina 67 (2020) 3, 587-589

L’opera di Dario Cornati originale e interessante, alla ricerca di «nuovi» itinerari dell’essere oltre l’egemone riduzionismo razionalista, si presenta incorniciata da 1Cor 13,1-13 – motivo di fondo dell’opera –, a significare che il mondo dei fenomeni e dell’esperienza sensibile è avvolto da un ordo agapico. Lo studio, aperto da «Il manifesto di Balthasar», nel capitolo 20 illustra il felice esito.

Nel «preludio» s’invita il lettore a compiere un viaggio alla ricerca «di una metafisica migliore», «capace di contrastare “nel nome dell’amore”, la malinconica deriva della ragione naturalistica dell’essere e della sostanza», per rispondere, nello scenario sociale che ha rimosso «la cifra del senso» e «della qualità etica e affettiva dell’originario metafisico», se possa darsi «una svolta affettiva della metafisica?».

Considerata la «totale dissoluzione del carattere edificante e sapienziale della filosofia stessa», il «divorzio moderno fra l’ordine degli affetti e la sfera del ragionamento» e la rimozione del vincolo «che unisce sensibilmente l’uomo al cosmo» (cap. 1), Cornati scorge nello «”abbecedario” della filosofia antica, nelle sue origini greche», il dispositivo capace di ricostruire «il canone della coscienza» e «il codice dell’esperienza», che l’antica filosofia riconduceva a «tre parole-chiave: quella del lógos, della díke e del páthos», generatrici di una grammatica e di una sintassi convergenti con il «nostro legame originario al reale», che permettano l’allargamento del lógos, nella prospettiva del nómos e dell’éthos, alla ricerca di un’alleanza tra forme, forze e sé soggettivo (cap. 2).

Analizzando la parola amore, nel senso contemporaneo di éros, l’autore ha individuato un «magis» che è il suo senso più autentico, che, coincidente con la capacità di «generare nella bellezza sul piano del corpo e dell’anima», rende possibile la restituzione ontologica dell’amore (cap. 3), e conferma la fattibilità del viaggio, che inizia esplorando i paesaggi dell’agápe cristiana della giovane chiesa patristica: gli itinerari agostiniani ricchi di lessico intimo e interiore del cuore e del pondus (cap. 4); la via affectiva di Bernardo di Chiaravalle (cap. 5), fondata sull’idea che il desiderio di unità deriva dall’esperienza primordiale di «essere amati da Dio»; l’esperienza monastica medievale (cap. 6), in cui l’unitario sentiero si sdoppiò tra concezione fisico/naturale ed estatica; la dottrina dei sensi spirituali di san Bonaventura da Bagnoreggio (cap. 7), dall’autore definita «estetica fondamentale».

Gli itinerari del medioevo cristiano, dotati di grande forza generativa, scaturivano dall’originale sintesi spirituale, che il deleterio dualismo posteriore ha frantumato, separando tragicamente spirito e corpo, trascendenza e imminenza, esteriorità e interiorità, esperienza e razionalità. Sintesi spirituale indebolita dallo psicologizzato amore cortese (cap. 8), che privò l’amore della dimensione storica, definitivamente frantumata dalla «Conversione filosofica dello spirito monastico» (cap. 9), che ponendo al centro «il concetto d’identità», «inguaribilmente ambiguo», considerava, per il tramite della coscienza, «l’amore di sé, ma non più nella versione anselmiana e tomista». Qui sta la discontinuità tra il prima del medioevo e il dopo del moderno, anche se «la prima anima del moderno non è il cruccio epistemologico, ma l’assillo etico e spirituale». Infatti, la questione del moderno è dovuta a quei molti, che dopo Descartes, hanno continuato a «trasportare tutto su un piano esclusivamente mentale», ignorando l’«altro moderno» in cui «la frattura fra la ragione e l’esperienza, non è ancora un evento di fatto consumato».

Eppure un inedito altro moderno si trova anche in Cartesio, il cui dubbio metodico e agitato dalla domanda: «Chi sono chiamato a essere?», il cui centro è la generosità, definita «una specie di voce interiore che non si stanca mai di ripetere all’io la grazia del suo essere libero», che manifesta l’umano universale un grembo generativo, differente dalla pura ragione incapace di generare qualcosa di diverso e altro da sé (cap. 10).

Sorprendono gli itinerari spinoziani dell’affezione (cap. 11) che rivelano panorami dell’essere mozzafiato: essi manifestano al «sé» la necessità di esporsi per conoscersi realmente nel «legame che tutto, ma proprio tutto, intrattiene con l’Assoluto affettivo»; meraviglia l’«ontologismo cristiano» di Malebranche (cap. 12), che nella «riabilitazione estetica dell’immaginazione» attesta «l’esistenza di un intrinseco legame fra l’esteriorità e l’interiorità della coscienza»; disorienta Kant, che nella terza critica svela insospettati paesaggi che mostrano la natura «opera incantevole di uno spirito creatore», come «rimorso kantiano per la deriva dell’estetico».

Hamann manifesta il linguaggio umano (cap. 14) come vero luogo di comunicazione, essendo le cose create «parole semplici e lingua ospitale di Dio, ascoltando le quali si sente Dio stesso che parla». Il viaggio prosegue attraverso l’ontologia realista di Schelling (cap. 15), lo stimmung di Schleiermacher (cap. 16), la logica dell’Azione di Blondel (cap. 17).

Si giunge ad ammirare i paesaggi dell’inconscio fenomenologico di Husserl (cap. 18), ascritto nell’orizzonte della passività e che orienta «la nostra predisposizione a vivere della verità di un legame giusto». Fenomenologia che l’autore considera un cantiere aperto, come per l’ontologia di Marc Richir (cap. 19), cui si deve la scoperta dello spazio interiore in relazione vincolata allo spazio esteriore del mondo dato.

Il viaggio termina con von Balthasar e il suo sentiero ad alta quota, che ha restituito «all’amore l’evidenza del suo lógos, secondo l’ordo del suo nómos, strappandolo al vizio romantico della sua irriducibile contrapposizione alla ragione», individuando nell’amore agapico il «trascendentale assoluto», abitato nel suo nucleo dalla differenza fondamentale e costitutiva, che il principio d’identità domandava di chiarire. L’atto intimo della generazione intradivina e la maternità terrena rivelano che la differenza, che solo l’amore può spiegare, costituisce il fondo dell’essere. Afferma l’autore: «L’unità della vita divina e la promessa di riscatto, inscritta nella creazione, non si riducono, infatti, alla pura differenza […]. Si tratta, invece, di verità dell’amore, che accade secondo la sua giustizia e che in se stesso ha già superato, trasceso e riposizionato, la polarità d’identità e differenza, restituendola nella sua limpida positività come frutto puro d’amore».

Si resta affascinati e grati verso Cornati per la fatica sobbarcatosi alla scoperta di una mappa alternativa dell’essere, che le piccole e poche sbavature ortografiche nel testo non scalfiscono. Si apprezza la bibliografia organizzata per capitoli, stimolo per i lettori a esplorare singoli paesaggi tematici alla scoperta dell’altro moderno, con l’intento di edificare un altro contemporaneo nella rinnovata alleanza di lógos, díke e páthos nell’Essere-Agápe.


M. Cardamone, in Gregorianum vol. 101 (4/2020), 976-978

«Oggi la filosofia non dice più nulla dell’amore, o molto poco» (J.L. Marion, Il fenomeno erotico). Nel diffuso silenzio filosofico sull’amore, questo nuovo volume di Dario Cornati suona come una riscossa. Con lucida intenzione, determinata volontà e trasparente passione, egli persegue una «metafisica dell’amore» che ha nell’agápē cristiana, celebrata dall’apostolo Paolo nell’inno di 1Cor 13,1-13, la sua verità e giustizia.

L’elaborazione di una metafisica dell’amore deve scontare il divorzio tra metafisica e amore, derivato dal riesame moderno della storia del pensiero occidentale, che ha consegnato la metafisica alla logica razionalista e inteso l’amore come sentimento irrazionale. Lo scorporo tra lόgos e páthos auspica «una svolta affettiva della metafisica», alla quale Cornati intende contribuire impegnandosi in una «restituzione ontologica dell’amore». La sfida affrontata dal filosofo lecchese – «appassionato alpinista», informa la nota biografica di copertina – è paragonabile a un’ambiziosa e ardua scalata, i cui passaggi esigono acutezza di sguardo e abilità di movimento. Nell’impossibilità di riferire analiticamente i ventiquattro passaggi in cui si articola lo studio, limitiamoci a indicare gli orizzonti che esso attraversa, passando per i crocevia più decisivi del pensiero occidentale.

L’attacco è individuato nella filosofia greca, già fin dai suoi primordi mitologici e misterici. Criticando il principio razionalista, che ha dissolto l’originario carattere edificante ed espunto l’elemento estetico-mistico, la filosofia antica viene apprezzata nella sua qualità di «esercizio spirituale» in vista di uno stile di vita civile e politico.

Il legame originario dell’uomo alla realtà della vita è quindi scandagliato rivisitando tre parole-cardine dell’éthos greco: lόgos, díkē e páthos, il cui circolo virtuoso permette di meglio apprezzare il racconto fondatore del sentimento d’amore nella cultura occidentale, rappresentato dall’elogio di Eros tessuto nel Simposio di Platone.

L’orizzonte della cultura greca tramuta in quella latina mediante lo studio del pensiero di Agostino, che informa l’Occidente fornendo la concezione di un’ordo amoris elaborato sulla base di una antropologia del cuore e il principio del pondus amoris.

L’onda lunga dell’agostinismo solca l’orizzonte patristico e valica il primo millennio dell’Occidente cristiano. Nel medioevo monastico, la restituzione ontologica dell’amore è rinvenuta nell’antropologia dell’affetto, del desiderio e dei gradi dell’amore di Bernardo di Chiaravalle, nella concezione fisica-naturale dell’amore di Tommaso d’Aquino, nella visione eversiva-estatica di Riccardo di S. Vittore, nella dottrina estetica dei cinque sensi spirituali di Bonaventura di Bagnoregio. La perlustrazione non si limita alla spiritualità monastica a alla riflessione teologica, tendendo l’orecchio anche all’amor cortese cantato nelle corti medioevali.

Entrando poi nell’orizzonte dell’epoca moderna, la ricerca si fa attenta a raccogliere ed evidenziare le tracce di un pensiero che ancora mantiene il legame tra la ragione e gli affetti. Sottraendosi al dogmatismo imperante che recensisce tutta la storia della modernità all’insegna della logica razionale e dell’individualismo soggettivista, Cornati mostra come molti degli autori ovviamente iscritti all’albo dei razionalisti, in realtà mostrino l’irriducibilità dell’esperienza umana alla logica razionale. Ecco allora gli affondi dedicati alla coscienza affettiva ed effettiva in Montaigne, alla struttura sensibile del cogito in Cartesio, al ruolo dell’affezione nell’ontologia generale e nella metafisica fondamentale di Spinoza, alla teoria dell’immaginazione di Malebranche.

Il momento cruciale in cui la filosofia moderna rinuncia al legame della ragione con l’affezione, promuovendo una visione procedurale della ragione e sentimentale dell’affezione, è individuato da Cornati nel pensiero trascendentale di Immanuel Kant. Per la verità, il filosofo di Könisberg, nella terza Critica del giudizio prova a ricucire lo strappo tra sensibilità e conoscenza operato nelle prime due Critiche della ragione pura e pratica. Il congedo definitivo dal sensibile è piuttosto operato da Hegel, per il quale il lόgos spirituale più non necessita di un pathos affettivo.

La restituzione ontologica dell’amore sospinge comunque Cornati controcorrente anche rispetto al mainstream dell’interpretazione dell’illuminismo e dell’idealismo. Egli, infatti, s’impegna a riacquisire parti interamente rimosse del pensiero filosofico moderno, quali quelle relative all’origine sensibile dell’umano nell’opera di J.G. Hamann, all’affezione nel fondo divino in F.W. Schelling, alla relazione interiormente sentita al mondo donato in F. Schleiermacher.

Di notevole rilievo in ordine al coordinamento della metafisica filosofica con l’ontologia dell’amore è l’affondo dedicato all’opera prima di M. Blondel, L’Action (1893), nonché i due strategici affondi riguardanti la fenomenologia della coscienza di E. Husserl e la rifondazione ontologica della fenomenologia promossa da M. Richir.

L’ultimo interlocutore prescelto da Cornati per solcare l’intera storia del pensiero occidentale relativo all’ontologia dell’amore è H. U. von Balthasar. Già apparso come ispiratore in apertura al suo testo, l’eminente teologo è la guida alla quale Cornati si affida per raggiungere la «guglia tagliente del sovratrascendentale agapico» (p. 356). La meta fissata subito all’inizio dell’impervia ascesa e continuamente tenuta in vista nell’acrobatica salita appare infine criticamente conquistata: «L’amore è in tal modo più ampio dello stesso essere; è il trascendentale in assoluto, che riassume la realtà dell’essere, della verità e della bontà; l’amore è la profondità dell’essere buono, in cui abbraccia l’esistenza come l’essere vero» (H.U. von Balthasar).

Il libro di Cornati è ad alto quoziente di difficoltà. Lo è anzitutto per il contenuto, ascrivibile alla speculazione metafisica, notoriamente ardua. Lo è inoltre per il metodo, che, prevedendo un fitto dialogo con autori, antichi e moderni, filosofi e teologi, richiede un’adeguata conoscenza di tutta la storia del pensiero filosofico e teologico occidentale. Lo è anche per la forma linguistica, gravida di metafore e trapuntata di espressioni scolpite e al tempo stesso dense. Lo è soprattutto perché percorre un sentiero inconsueto tra gli stessi filosofi di mestiere, prospettando un’insolita metafisica dell’amore. Lo è, insomma, come la scalata di una parete pressoché inviolata. Ma la sua difficoltà è direttamente proporzionale al suo valore: quello di aprire vie considerate impraticabili e dischiudere orizzonti ritenuti inaccessibili.


A. Fumagalli, in La Scuola Cattolica dicembre 2020

È un denso e impegnativo libro l’ultima fatica editoriale di Dario Cornati, sacerdote milanese e docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, che mette a tema una questione che sta da diverso tempo a cuore la teologia: l’amore o, per meglio usare il termine usato nell’opera, l’affezione.

A partire da un’intuizione lanciata diverso tempo fa da un grande teologo come Hans Urs von Balthasar, per il quale «l’amore è più ampio dell’essere, è il trascendentale in assoluto che riassume la realtà dell’essere, della verità e della bontà» (Solo l’amore è credibile), il teologo opera un itinerario nella storia della filosofia che punto dritto ad un ricostruzione «di una metafisica della verità e della giustizia dell’amore, finalmente apprezzato come il nome stesso dell’essere, o se preferite: come il senso più affidabile e il fondamento più solido di tutto ciò che è» (p. 13).

Questo spiega e motiva non solo la lunghezza e l’ampiezza dell’opera, ma la ricerca, probabilmente durata anni, che vi sta dietro. Molto apprezzabile, infatti, risulta essere nel suo complesso, al di là del linguaggio che talvolta può sembrare ostico per chi non è “addetto ai lavori”, la profondità e l’acutezza di un logos che sa andare oltre certe consolidate ricezioni di alcune figure, giustificato sempre con un’abbondanza di dettagli bibliografici che risultano mai banali, mai scontati. Il risultato è davvero positivo anche perché la teologia si è talmente concentrata su questioni di carattere metafisico nel tentativo di accreditarsi come scienza da svuotare l’essere da ogni riferimento affettivo. Inoltre il discorso sull’amore sconfina in retorica al tal punto che sembra perso ogni legame con la verità e giustizia degli affetti.

Presentare l’affezione, pertanto, per come essa è nella sua realtà e si dimostra nella persona di Gesù diventa, un’impresa non facile. In primis perché essa non sembra degna di un logos e, dunque, incapace di generare un sapere. Paolo nel suo celebre inno alla carità afferma: «Se conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, ma non avessi agape, non sono nulla». Pertanto l’amore “supera” la scienza, di esso noi viviamo e possiamo parlarne. In secondo luogo perché l’affezione nell’attuale contesto è presentata con caratteri troppo languidi e pallidi, per non dire mielosi, da non essere più in grado di dire quel mistero che è, allo stesso tempo, all’origine e destino dell’uomo.

Ovviamente il percorso teoretico di Cornati non va alla ricerca di quanto nel corso di più di duemila anni è stato detto/scritto sull’amore, ma va alla ricerca di quegli elementi che permettono di offrirne il tratto realistico. Non stupisce, sotto questo profilo, di leggere pagine sulla filosofia pre-platonica. Infatti lì troviamo quelle correnti di pensiero, quegli schemi ‒ orfismo/pitagorismo da un lato, gnosticismo d’altro ‒ che a lungo hanno influenzato e influenzano implicitamente il cristianesimo. Inoltre nella filosofia greca, a scanso di equivoci, vi è un intreccio di logos, dike e pathos che la rende unica: davvero essa cerca di restituire la realtà in termini intelligibili e non, come avverrà a partire dalla modernità, solo una parte di essa. Soffermarsi su Platone, poi, non è una mossa sbagliata, anzi: egli è l’“ideatore” del discorso sull’amore. Tuttavia spesso ci si dimentica che egli ha “incaricato” nel Simposio Diotima, sacerdotessa, di proferire un logos che, a ben vedere, è un mito, come a dire che su eros può essere detto qualcosa che sembra incompleto, non de-finisce proprio come eros che, stando al mito, è mancante, sempre alla ricerca. Ma è Agostino ad in-formare l’Occidente e, forse a dire parole che rendono giustizia e verità all’affezione. Essa non è solo un ordo, ma ancor più e meglio è un pondus amoris. Dunque nel filosofo di Tagaste non vi è solo un legame con gli affetti (la giustizia di agape), ma vi è la più sincera espressione di pensare alla consistenza dell’agape.

Il tema nel Medioevo non si spegne affatto, anzi si “accende”. Bernardo parla dei gradi dell’amore. Tommaso d’Aquino e Bonaventura, per strade diverse, «fissano l’apice della conoscenza empirica, e non soltanto della scienza divina, nell’amoris laetitia: la forma affettiva della relazione coinvolta. La conoscenza vera per entrambi è un giudizio: è un rapporto; e, quindi, un sapere per quandam naturalitatem, che comporta un evento inconfuso di reciproca assimilazione» (p.85). Inoltre il tema si salda in quella “dottrina” che esprime la cifra di una sensibilità per i legami, ovvero la “dottrina” dei cinque sensi spirituali. «L’umano emerge in quanto evento dell’affezione. Spicca cioè una passività-attiva di un sentire, grazie al quale l’esistenza può porsi il problema del giusto senso» (p. 95). D’altronde se l’amore è il segno di giustizia e di verità per i legami, esso non può che avere una sua radice nella sensibilità dell’uomo, lì dove ogni uomo percepisce il vero, il bello e il buono di ciò che vive. Tuttavia la questione diventa problematica negli scritti dell’amore cortese: «Tristano ama follemente il fuoco dell’amore e ama di sentirsi amato, ben più di quanto non ami l’affascinante Isotta […]. [Entrambi] non vivono mai l’altro, così com’è realmente: voglio dire nella sua effettiva presenza. Sopravvivono piuttosto alla sua assenza, rivestendola con la pellicola della loro smisurata immaginazione» (p. 113-114). L’amore, potremmo dire, diventerà poco a poco un sentimento. Inoltre «al crollo delle mura medievali e all’uscita dal castello feudale, [esso] entra nell’epoca moderna, mutando quasi interamente pelle tanto che da cortese e sublime qual era, si rende via via sempre più intimo e privato» (p.127).

L’affezione non viene del tutto disancorata dalla sensibilità, ma in epoca moderna essa perde la sua intrinseca venatura spirituale. I sensi, per di più, non perdono il senso, ma esso non va oltre lo studio dei fenomeni naturali in consonanza con lo sviluppo della scienza. Se, come mostra Cornati, in Cartesio siamo in uno stato ancora del tutto embrionale ‒ un retaggio “medievale” in lui è presente ‒, in Kant ‒ nel Kant della Critica della ragion pura ‒ la mossa è ormai compiuta e porta i suoi frutti. L’“altra modernità”, ossia Spinoza e il suo progetto di un’ontologia etica fondata sugli affetti, non viene perseguita: il peso dell’etichetta di panteista farà sentire la sua gravità su tutto il progetto teoretico del filosofo ebreo. Ci proverà anche Malebranche ad insidiare il calcagno a Cartesio, ma non ci riuscirà benché egli appartenga al «novero di quegli intellettuali ‒ scienziati, filosofi o teologi di professione ‒ che hanno saputo cogliere con entusiasmo, persino, il secco vantaggio dell’impostazione cartesiana. E lo hanno colto nell’ambito delle sue possibili ricadute in termini di esaltazione della dimensione spirituale» (p. 172). L’estetico, a mano a mano che si procede con la modernità va alla deriva. Neppure Hamann, in piena epoca illuministica, riesce a “correggere il tiro”. Per non parlare di Schelling e dello stimmung di Schleiermacher, come argomenta Cornati.

E in epoca contemporanea? In campo cattolico il tentativo è portato avanti da Blondel «a cui va dato il merito di aver coniato un nuovo paradigma del nesso esistente fra cristianesimo e pensiero del fondamento, sulla base di un ripensamento critico della giusta logica dell’esistere» (p.286). Ben nota, tuttavia, è la sua vicenda. Fuori dalcristianesimo, un varco è aperto da Husserl e dalla svolta fenomenologica che riesce a mostrare la passività della coscienza. Quanto basta per dar modo oggi a Marc Richir, filosofo purtroppo poco noto in Italia e recentemente scomparso, di irrobustire quel progetto. Egli, infatti, «pone al centro del suo programma vigoroso, accanto all’impreteribile riscatto di Husserl dalla metafisica fenomenologica di Heidegger, il ritrovato sodalizio fra il piano trascendentale e la genesi sensibile della coscienza» (p. 327). E in teologia? Solo Balthasar nel Novecento riscopre le inaudite profondità, dalle vaste conseguenze, del sovra-trascendentale dell’amore. Egli ci lascia un compito: «Restituire all’amore l’evidenza del suo logos, secondo l’ordo del suo nomos, strappandolo dal vizio romantico della sua irriducibile contrapposizione alla ragione, costituisce il distintivo della rivelazione biblica, delle civiltà dello spirito e dell’umanesimo cristiano, attorno al quale sarebbe urgente risistemare la delicata questione della generazione e della trasmissione dei significati del vivere» (p. 354).

Il libro di Cornati, concludendo il suo itinerario proprio sul teologo di Lucerna, si apprezza perché mostra quel filo rosso che lega autori di epoche diverse, mostrando come la nostra ragione, divenuta tecnologica e scientifica, non possa rinunciare a pensare ciò che sostanzia la vita: «Ma più grande è l’amore», appunto!


F. Cittadini, in Firmana 2/2019, 144-147

Nel titolo del “manifesto” del pontificato di Francesco — Evangelii gaudium — vibra un affetto, gaudium, appunto. “Affettive” sono le intestazioni di altri suoi importanti documenti: Amoris letitia, Veritatis gaudium, Gaudete et exsultate. Tale insistenza “emozionale” non è certo un cedimento al gusto corrente. Oggi infatti si cerca di compensare col calore dei sentimenti il freddo del nihilismo, vale a dire il pugno di mosche ereditato dall’Occidente dando retta ai proclami di emancipazione dai “grandi racconti” di un tempo; fossero essi filosofici, religiosi, artistici. Si aspettava la libertà ed è arrivata la noia. Si sono tolti di mezzo ingombranti santi, grandi pensatori, artisti ed eroi, riempiendo il vuoto con l’emozionata convinzione di essere tutti santi, tutti grandi pensatori, tutti artisti e tutti eroi. Magari contentandosi di santità “all’acqua di rose”, di pensieri e arte che durano un giorno e di eroismi scadenti, come non farsi scappare l’ultimo modello di telefonino.

Ma riducendo gli affetti a caloriferi sentimentali se ne ammutolisce il desiderio di pensare e agire “in grande”, perciò si vendicano, trasformandosi in risentimento o animosità euforiche e depressive per nulla; anzi per il nulla. Un affetto nasce solo con grandi aspettative; non stando alla sua altezza lo si mortifica e diventa mortifero. Gli affetti non intendono promuovere animosità dal fiato corto, ma donne e uomini longanimi, magnanimi, dai desideri, immaginazioni, azioni di ampio respiro. Insomma, gli affetti tendono a un’ontologia, vale a dire a una visione complessiva della realtà, della sua origine e del suo destino; non si accontentano di meno, non reggono la grettezza e l’angustia di chi è affascinato dal nulla. Un bimbo appena nato, ricambiando per la prima volta lo sguardo e il sorriso della mamma, avverte affettivamente l’accensione della sua anima, la messa in moto del suo “Io” e del suo mondo, come qualcosa di bello e buono, di giusto e vero. La scintilla affettiva che scocca tra un uomo e una donna reclama una parola sul loro passato, presente e futuro, sulla loro nascita e sulla morte; anzi perfino oltre la morte, giacché, al suo sorgere, un sentimento ha questa pretesa: durare “per sempre”. Perciò aiuta a immaginare perfino quanto ci si aspetta dopo la fine. La recente incapacità di immaginare il Paradiso e l’inferno è sintomo di insufficienza affettiva. Sono le lune della volontà e i calcoli della ragione a costringere gli affetti nei confini dell’“adesso”, e del “subito”. Insomma: staccare gli affetti dalla visione della realtà significa amputare la forza dell’ontologia, inclinandola verso l’attrazione per il nulla. Separare gli affetti da un’ariosa visione del reale, dall’ontologia, comporta privarli del luogo e delle forme che li mantengono amici della vita, non energie inerti e tristi. Affetti e giusta visione della realtà nascono insieme. L’uomo non separi ciò che Dio ha unito.

Proprio di questa originaria unità e dei molteplici, variegati divorzi a essa imposti parla il bel libro di Dario Cornati «Ma più grande è l’amore». Verità e giustizia di agápe (Queriniana, Brescia 2019, pagine 432, euro 33). Teologo milanese che ha perfezionato i propri studi alla Gregoriana e sotto la guida di un maestro del calibro di Pierangelo Sequeri (davvero magistrale la sua postfazione al libro), Cornati apporta al panorama filosofico e teologico qualcosa di nuovo, qualcosa che mancava. Grazie a una scrittura raffinata, accessibile e bella (in alcune pagine sembra di trovarsi in un romanzo), l’autore ricompone con perizia e leggerezza tutta la vicenda storica dell’infelice separazione tra affetto e pensiero, tra affetto e libertà, tra le forze del sentimento e le forme della ragione e della morale. Come è risaputo, perfino nei divorzi più rispettosi e consensuali entrambi i coniugi vanno in sofferenza; entrambi irrimediabilmente perdono qualcosa. E così è stato sia per le forze sia per le forme, anche se non sono mancati promettenti e generosi tentativi di ricongiungimento. La ricomposizione di una relazione è possibile solo grazie alla rivisitazione serena e onesta della sua storia, dal miracoloso inizio che ha visto i due legati tra loro prima ancora di essersi scelti, fino alle vicende che li hanno esposti alla separazione. Il merito di Cornati è proprio questo: ricostruire la storia di questo vincolo, nella speranza che oggi sia il momento opportuno della rinnovata unità, dove, in maniera inconfusa e indivisa, gaudium ed evangelium staranno insieme.


G.C. Pagazzi, in L’Osservatore Romano 7 novembre 2019

Dario Cornati insegna metafisica dell’amore presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e quello appena uscito per i tipi della Queriniana è il suo nuovo libro di testo. Si tratta di una storia della filosofia centrata sulla realtà fondante dell’amore, anziché su volontà, essere o ragione, come siamo abituati a incontrare nella maggioranza delle riflessioni del genere. Il semplice elenco degli autori presi in considerazioni evidenzia un percorso che va dai miti orfici e Pitagora fino a Hans Urs von Balthasar, passando da Platone, Agostino, Cartesio e Spinoza, Blondel, Husserl e molti altri. Il senso dell’opera sta nella volontà di realizzare una centratura diversa della riflessione filosofica, che sposti l’attenzione dalla ragione all’agàpe, un amore assoluto, fedele e fondato sulla consapevolezza. In particolare la critica di Cornati si rivolge al dualismo, che egli individua alla radice dell’esperienza del sapere occidentale. Una impostazione definita rozza e comoda, schematica, non in grado di cogliere la realtà di un amore che crea e fa vivere “senza nulla riscuotere”.
S. Valzania, in Radio InBlu 2 novembre 2019

L’ambiguità e il conseguente rischio di una banalizzazione della parola «amore» è stata denunciata a più riprese. Basti ricordare, per esempio, le lucide considerazioni di Josef Pieper in uno dei suoi aurei libretti dedicato, appunto, all’amore o la provocatoria proposta di Paul Tillich che avrebbe desiderato bandire il termine in ambito teologico preferendogli quello ben più univoco e consistente di agape. In tale linea anche la Deus caritas est di Benedetto XVI inizia proprio col notare il problema semantico intorno al significato di amore per poi proporre una sua risoluzione con i concetti «polari» di eros e agape.

Una tale cautela induce Dario Cornati – docente presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale – a ripercorrere con rigore la storia dello spirito occidentale sul tema dell’amore: dal pensiero e dall’ethos greco (tra tutti il Simposio platonico) fino al medioevo cristiano, passando per il crocevia del pensiero agostiniano; dalla stagione moderna (da Cartesio al romanticismo fino a Husserl) alla figura di von Balthasar, vero e proprio punto di fuga di questo testo, al contempo impegnativo e appassionante, dedicato a «verità e giustizia di agápe».

Non si tratta, ovviamente, di un’indagine esaustiva, con una assoluta pretesa di completezza (mancano alcuni autori imprescindibili sul tema, tra tutti il Kierkegaard degli Atti dell’amore), ma di un itinerario che intende comprendere le ragioni di quella che l’autore definisce come «rimozione della qualità etica e affettiva dell’originario metafisico» (p. 14), a profitto di una declinazione razionalistica dell’essere e del divino. È proprio il superamento di una tale riduzione nominalistica che induce ad accostare due termini a prima vista confliggenti come «metafisica» e «amore». Solo il loro reciproco rimando consente infatti di cogliere fino in fondo la verità dell’essere (contro ogni depotenziamento sostanzialistico) e dell’amore (contro ogni deriva sentimentalistica). Insomma, si tratta di proporre – con rigore di pensiero e coraggio profetico – una «metafisica della verità e della giustizia dell’amore, finalmente apprezzato come il nome stesso dell’essere» (p. 13).

Il maestro di Cornati, in questo arduo esercizio di pensiero credente, non può che essere Hans Urs von Balthasar: non solo, ovviamente, il testo del 1963 Solo l’amore è credibile, in cui vi è quasi il compendio del suo pensiero, ma anche il secondo volume di Teologica e una straordinaria meditazione, conclusa poco prima della morte, sulla teologia dell’infanzia (Se non diventerete come questo bambino). Persuaso che l’amore è il «trascendentale in assoluto», il teologo svizzero ci offre le chiavi per pensare in modo unitario una teologia convintamente trinitaria, un’ontologia del dono e della generazione, un’etica della relazione e degli affetti, un’antropologia dei legami, una metafisica della vita che – come afferma Pierangelo Sequeri nella sua postfazione – «attinge alla giustizia della libera destinazione dell’amore divino, che fa-essere nel voler-bene. E qui sta la smisurata misura di ogni senso dell’essere e del bene, in cui verità e giustizia sono conciliate. Solo quando sono conciliate, l’essere è come deve e il bene vi corrisponde realmente» (p. 394).

L’itinerario è senza dubbio impegnativo, a tratti persino ostico. Approda, però, con la guida di von Balthasar, alla figura del bambino: «Nella sua indigenza, il bambino ha sacro diritto all’assistenza, che tuttavia può venir soddisfatto essenzialmente soltanto dall’amore. Il bimbo dunque ha diritto a qualcosa che sovrasta il piano giuridico e che può essere ottenuto soltanto con una dedizione libera, con un dono» (cit. p. 381). Il bambino, potremmo dire, è l’archetipo di un felice ricongiungimento – o meglio di una originaria co-implicazione – di essere e dono, di logos e agape, di identità e generazione. Nel volto di ogni bambino si coglie, a ben vedere, la bontà della creazione e l’affidabilità del Dio che ama fino alla fine.


S. Zamboni, in SettimanaNews.it 2 settembre 2019

Collocato in uno spazio ove si incontrano vita e fede, filosofia e teologia, arte e scienza, il tema dell’amore occupa da secoli una posizione centrale nella storia dell’umanità e della cultura. Con l’ampio e denso volume «Ma più grande è l’amore». Verità e giustizia di agápe (Queriniana, pp. 432, euro 33), il sacerdote lecchese Dario Cornati, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, offre al lettore la possibilità di conoscere le tappe fondamentali del cammino che il pensiero umano ha compiuto riflettendo su questo tema.

Dopo una prima parte opportunamente dedicata alla grecità, l’autore si sofferma su alcuni maestri cristiani (Agostino, Bernardo, Tommaso, Bonaventura), per poi passare a discutere le dottrine della modernità, da Cartesio fino a Kant, e infine concludere con un’ampia disamina delle tesi di Hamann, Schelling, Schleiermacher, Blondel, Husserl, Richir e von Balthasar.

Quello di Cornati si presenta come «un lungo viaggio alla ricerca della sapienza d’amore», caratterizzato dalla convinzione che metafisica e amore costituiscono un’inscindibile unità e dalla speranza che meditare su eros e agápe rappresenti un passo importante verso la realizzazione di «un’etica della dedizione e del sacrificio, della resistenza ostinata e della resa fiduciosa».


M. Schoepflin, in Toscana Oggi 30 giugno 2019