È un denso e impegnativo libro l’ultima fatica editoriale di Dario Cornati, sacerdote milanese e docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, che mette a tema una questione che sta da diverso tempo a cuore la teologia: l’amore o, per meglio usare il termine usato nell’opera, l’affezione.
A partire da un’intuizione lanciata diverso tempo fa da un grande teologo come Hans Urs von Balthasar, per il quale «l’amore è più ampio dell’essere, è il trascendentale in assoluto che riassume la realtà dell’essere, della verità e della bontà» (Solo l’amore è credibile), il teologo opera un itinerario nella storia della filosofia che punto dritto ad un ricostruzione «di una metafisica della verità e della giustizia dell’amore, finalmente apprezzato come il nome stesso dell’essere, o se preferite: come il senso più affidabile e il fondamento più solido di tutto ciò che è» (p. 13).
Questo spiega e motiva non solo la lunghezza e l’ampiezza dell’opera, ma la ricerca, probabilmente durata anni, che vi sta dietro. Molto apprezzabile, infatti, risulta essere nel suo complesso, al di là del linguaggio che talvolta può sembrare ostico per chi non è “addetto ai lavori”, la profondità e l’acutezza di un logos che sa andare oltre certe consolidate ricezioni di alcune figure, giustificato sempre con un’abbondanza di dettagli bibliografici che risultano mai banali, mai scontati. Il risultato è davvero positivo anche perché la teologia si è talmente concentrata su questioni di carattere metafisico nel tentativo di accreditarsi come scienza da svuotare l’essere da ogni riferimento affettivo. Inoltre il discorso sull’amore sconfina in retorica al tal punto che sembra perso ogni legame con la verità e giustizia degli affetti.
Presentare l’affezione, pertanto, per come essa è nella sua realtà e si dimostra nella persona di Gesù diventa, un’impresa non facile. In primis perché essa non sembra degna di un logos e, dunque, incapace di generare un sapere. Paolo nel suo celebre inno alla carità afferma: «Se conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, ma non avessi agape, non sono nulla». Pertanto l’amore “supera” la scienza, di esso noi viviamo e possiamo parlarne. In secondo luogo perché l’affezione nell’attuale contesto è presentata con caratteri troppo languidi e pallidi, per non dire mielosi, da non essere più in grado di dire quel mistero che è, allo stesso tempo, all’origine e destino dell’uomo.
Ovviamente il percorso teoretico di Cornati non va alla ricerca di quanto nel corso di più di duemila anni è stato detto/scritto sull’amore, ma va alla ricerca di quegli elementi che permettono di offrirne il tratto realistico. Non stupisce, sotto questo profilo, di leggere pagine sulla filosofia pre-platonica. Infatti lì troviamo quelle correnti di pensiero, quegli schemi ‒ orfismo/pitagorismo da un lato, gnosticismo d’altro ‒ che a lungo hanno influenzato e influenzano implicitamente il cristianesimo. Inoltre nella filosofia greca, a scanso di equivoci, vi è un intreccio di logos, dike e pathos che la rende unica: davvero essa cerca di restituire la realtà in termini intelligibili e non, come avverrà a partire dalla modernità, solo una parte di essa. Soffermarsi su Platone, poi, non è una mossa sbagliata, anzi: egli è l’“ideatore” del discorso sull’amore. Tuttavia spesso ci si dimentica che egli ha “incaricato” nel Simposio Diotima, sacerdotessa, di proferire un logos che, a ben vedere, è un mito, come a dire che su eros può essere detto qualcosa che sembra incompleto, non de-finisce proprio come eros che, stando al mito, è mancante, sempre alla ricerca. Ma è Agostino ad in-formare l’Occidente e, forse a dire parole che rendono giustizia e verità all’affezione. Essa non è solo un ordo, ma ancor più e meglio è un pondus amoris. Dunque nel filosofo di Tagaste non vi è solo un legame con gli affetti (la giustizia di agape), ma vi è la più sincera espressione di pensare alla consistenza dell’agape.
Il tema nel Medioevo non si spegne affatto, anzi si “accende”. Bernardo parla dei gradi dell’amore. Tommaso d’Aquino e Bonaventura, per strade diverse, «fissano l’apice della conoscenza empirica, e non soltanto della scienza divina, nell’amoris laetitia: la forma affettiva della relazione coinvolta. La conoscenza vera per entrambi è un giudizio: è un rapporto; e, quindi, un sapere per quandam naturalitatem, che comporta un evento inconfuso di reciproca assimilazione» (p.85). Inoltre il tema si salda in quella “dottrina” che esprime la cifra di una sensibilità per i legami, ovvero la “dottrina” dei cinque sensi spirituali. «L’umano emerge in quanto evento dell’affezione. Spicca cioè una passività-attiva di un sentire, grazie al quale l’esistenza può porsi il problema del giusto senso» (p. 95). D’altronde se l’amore è il segno di giustizia e di verità per i legami, esso non può che avere una sua radice nella sensibilità dell’uomo, lì dove ogni uomo percepisce il vero, il bello e il buono di ciò che vive. Tuttavia la questione diventa problematica negli scritti dell’amore cortese: «Tristano ama follemente il fuoco dell’amore e ama di sentirsi amato, ben più di quanto non ami l’affascinante Isotta […]. [Entrambi] non vivono mai l’altro, così com’è realmente: voglio dire nella sua effettiva presenza. Sopravvivono piuttosto alla sua assenza, rivestendola con la pellicola della loro smisurata immaginazione» (p. 113-114). L’amore, potremmo dire, diventerà poco a poco un sentimento. Inoltre «al crollo delle mura medievali e all’uscita dal castello feudale, [esso] entra nell’epoca moderna, mutando quasi interamente pelle tanto che da cortese e sublime qual era, si rende via via sempre più intimo e privato» (p.127).
L’affezione non viene del tutto disancorata dalla sensibilità, ma in epoca moderna essa perde la sua intrinseca venatura spirituale. I sensi, per di più, non perdono il senso, ma esso non va oltre lo studio dei fenomeni naturali in consonanza con lo sviluppo della scienza. Se, come mostra Cornati, in Cartesio siamo in uno stato ancora del tutto embrionale ‒ un retaggio “medievale” in lui è presente ‒, in Kant ‒ nel Kant della Critica della ragion pura ‒ la mossa è ormai compiuta e porta i suoi frutti. L’“altra modernità”, ossia Spinoza e il suo progetto di un’ontologia etica fondata sugli affetti, non viene perseguita: il peso dell’etichetta di panteista farà sentire la sua gravità su tutto il progetto teoretico del filosofo ebreo. Ci proverà anche Malebranche ad insidiare il calcagno a Cartesio, ma non ci riuscirà benché egli appartenga al «novero di quegli intellettuali ‒ scienziati, filosofi o teologi di professione ‒ che hanno saputo cogliere con entusiasmo, persino, il secco vantaggio dell’impostazione cartesiana. E lo hanno colto nell’ambito delle sue possibili ricadute in termini di esaltazione della dimensione spirituale» (p. 172). L’estetico, a mano a mano che si procede con la modernità va alla deriva. Neppure Hamann, in piena epoca illuministica, riesce a “correggere il tiro”. Per non parlare di Schelling e dello stimmung di Schleiermacher, come argomenta Cornati.
E in epoca contemporanea? In campo cattolico il tentativo è portato avanti da Blondel «a cui va dato il merito di aver coniato un nuovo paradigma del nesso esistente fra cristianesimo e pensiero del fondamento, sulla base di un ripensamento critico della giusta logica dell’esistere» (p.286). Ben nota, tuttavia, è la sua vicenda. Fuori dalcristianesimo, un varco è aperto da Husserl e dalla svolta fenomenologica che riesce a mostrare la passività della coscienza. Quanto basta per dar modo oggi a Marc Richir, filosofo purtroppo poco noto in Italia e recentemente scomparso, di irrobustire quel progetto. Egli, infatti, «pone al centro del suo programma vigoroso, accanto all’impreteribile riscatto di Husserl dalla metafisica fenomenologica di Heidegger, il ritrovato sodalizio fra il piano trascendentale e la genesi sensibile della coscienza» (p. 327). E in teologia? Solo Balthasar nel Novecento riscopre le inaudite profondità, dalle vaste conseguenze, del sovra-trascendentale dell’amore. Egli ci lascia un compito: «Restituire all’amore l’evidenza del suo logos, secondo l’ordo del suo nomos, strappandolo dal vizio romantico della sua irriducibile contrapposizione alla ragione, costituisce il distintivo della rivelazione biblica, delle civiltà dello spirito e dell’umanesimo cristiano, attorno al quale sarebbe urgente risistemare la delicata questione della generazione e della trasmissione dei significati del vivere» (p. 354).
Il libro di Cornati, concludendo il suo itinerario proprio sul teologo di Lucerna, si apprezza perché mostra quel filo rosso che lega autori di epoche diverse, mostrando come la nostra ragione, divenuta tecnologica e scientifica, non possa rinunciare a pensare ciò che sostanzia la vita: «Ma più grande è l’amore», appunto!
F. Cittadini, in
Firmana 2/2019, 144-147