Ho incontrato personalmente il p. Congar per la prima volta nell’ottobre del 1965, verso la fine del concilio Vaticano II, a Roma, e precisamente nella sala delle conferenze del Centro pro Unione, che durante il concilio funzionava da
agorà dei periti conciliari e dei teologi presenti nell’urbe, in occasione dell’assemblea generale della rivista internazionale di teologia
Concilium, che aveva iniziato le sue pubblicazioni nel gennaio del 1965.
L’assemblea di
Concilium era a numero chiuso, e dunque vi partecipavano solo gli addetti ai lavori. Voglio qui ricordare solo alcune presenze di quel giorno d’autunno di quarant’anni fa: Benoit per le scienze bibliche, Aubert per la storia della chiesa, Schillebeeckx per la dogmatica, Rahner per la teologia pratica, Metz per la teologia fondamentale, Böckle per la morale, Duquoc per la spiritualità, Congar e Küng per l’ecumenismo. Dirigeva la discussione il giovane Küng, di cui si ammirava il talento linguistico, ma la conclusione di quell’incontro internazionale, che si sarebbe ripetuto ogni anno fino all’ultima assemblea finora celebrata, a Budapest nel gennaio di quest’anno, 2004, fu tenuta da Congar: un Congar sessantenne, elegante nell’abito domenicano anche se già appoggiato ad un bastone di sostegno, splendido nel suo francese, intenso nella sua espressività. Nella sua allocuzione conclusiva Congar invitava tutti (non erano presenti donne teologhe, mentre nell’attuale Direttivo di
Concilium esse rappresentano circa la metà) a trasmettere la «grazia del concilio» (
la grâce du concile). Quest’espressione mi ha colpito, in quanto essa dava il senso, teologico e spirituale, dell’evento in corso. Poi si sarebbe parlato di «svolta» operata dal concilio, di «interruzione» e di «nuovo inizio» nella storia della chiesa cattolica; si è pure parlato, da fronti opposti, di «tradimento» del concilio; ma la categoria di «grazia» del concilio introdotta da Congar in quell’occasione ne evidenzia la dimensione spirituale e il personale intenso coinvolgimento del teologo francese, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita (13 aprile 1904). E, del resto, tra i grandi periti conciliari presenti a Roma, Congar era il più sintonizzato, biograficamente culturalmente e spiritualmente, sul tema del concilio, che era focalizzato sulla Chiesa (è celebre la domanda di Paolo VI che sintetizza la tematica conciliare: «Chiesa, che cosa dici di te stessa?»).
Credo che Congar avesse presagito il concilio. Nella prefazione alla riedizione nel 1968 del sospetto libro del 1950,
Vera e falsa riforma nella Chiesa, il teologo domenicano scriveva: «Giovanni XXIII, in meno di qualche settimana, e in seguito il concilio, hanno creato un clima ecclesiale nuovo. L’apertura maggiore è venuta dall’alto. Di colpo, delle forze di rinnovamento che stentavano a manifestarsi apertamente, hanno potuto svilupparsi». E, con riferimento alle innovazioni portate dal concilio, scrive: «Ma i due grandi fatti che incidono già e incideranno sempre più sul clima della vita ecclesiale sono: una ecclesiologia del popolo di Dio e l’ecumenismo». Nel grande discorso di Strasburgo – la città che lo ha accolto «dopo gli esili di Gerusalemme, Roma e Cambridge che lo hanno profondamente scoraggiato» (Tillard) – del 23 gennaio 1979, in occasione del 20° anniversario dell’indizione del concilio, il p. Congar partecipava ancora l’emozione dell’evento conciliare. In quel discorso egli ricorreva ad una formulazione incisiva: il concilio aveva operato «un decentramento dell’
Urbs sull’
Orbis, in quanto l’Orbis prendeva possesso dell’Urbs» (è una formulazione convergente con quella di Karl Rahner, che nel discorso commemorativo della stessa data, introduceva la categoria di
Weltkirche, chiesa mondiale).
Ha scritto il suo discepolo Jean-Pierre Jossua nel profilo che ha dedicato alla teologia di Congar (1967): «Volentieri definirebbe se stesso come “servitore dottrinale del popolo di Dio”». La categoria centrale dell’ecclesiologia di Congar è quella di «popolo di Dio», e a questo tema dedica un articolo di largo respiro – che segue ad un importante saggio ecclesiologico del 1961 – apparso sul primo numero della rivista
Concilium nel gennaio del 1965 (e del quale si è scritto che avrebbe convinto definitivamente il papa Paolo VI della viabilità ecclesiologica di questo concetto). Congar mostra il molteplice valore di questa categoria: il valore
storico, in quanto sottolinea la continuità della chiesa con Israele e introduce un elemento dinamico nella comprensione della chiesa, che è vista come un popolo che ha una vita ed è in cammino verso un termine fissato da Dio. Il valore
antropologico: la chiesa non è una unità astratta che passa sulle nostre teste, ma è fatta dagli uomini che si convertono al vangelo; il valore di
storicità: se il concetto di riforma non è facilmente applicabile alla chiesa istituzionale, è invece applicabile alla chiesa come popolo di Dio; il valore
ecumenico e missionario, in quanto permette il dialogo, soprattutto con le chiese della Riforma, che diffidano sia dell’istituzionalismo, sia del romanticismo della concezione biologica del corpo di Cristo; il valore
dialogico in quanto permette il confronto con le teologie della storia. Ma l’ecclesiologo francese è pure consapevole dei limiti della categoria di popolo di Dio, che deve essere completata con quella di corpo di Cristo: «sotto la nuova alleanza, quella delle promesse realizzate dall’incarnazione del Figlio e dal dono dello Spirito, il popolo di Dio riceve un suo statuto che non si può esprimere se non nella categoria del corpo di Cristo». Nel primo fascicolo di
Concilium del 1965, al quale collaborò anche Congar con l’articolo già citato,
La Chiesa come popolo di Dio, collaborava anche un altro teologo domenicano, Edward Schillebeeckx, con l’articolo
Chiesa e Umanità: questi due articoli nella loro tematica, evidenziano i diversi profili dei due grandi teologi domenicani del XX secolo.
Nel settembre del 1970, a cinque anni dalla conclusione del concilio, la rivista internazionale di teologia
Concilium celebrava nel Palazzo dei Congressi di Bruxelles un congresso internazionale sul tema
L’avvenire della Chiesa. Congar era presente, anche se non era tra i relatori. Era presente anche uno sconosciuto (a me, e a molti) Gustavo Gutiérrez, che era venuto da Lima come uditore (così come era presente come uditore anche Harvey Cox, allora molto noto per il suo libro
La città secolare del 1965). Congar, indicandoci Gutiérrez, ce lo segnalò come un acuto interprete dei fenomeni ecclesiali e sociali in corso in America Latina. Il suo libro
Teologia della liberazione apparirà a Lima, solo un anno dopo Bruxelles, nel dicembre del 1971. Da qui i contatti con Gutiérrez, da cui la Queriniana ha poi ricevuto nell’estate del 1971 il manoscritto: il libro epocale del teologo peruviano apparirà in una pronta edizione italiana nel marzo del 1972 nella “Biblioteca di teologia contemporanea”. Congar, nel suo libro
Un popolo messianico (1975), dove mostra come la chiesa, come popolo messianico, è germe di unità e di speranza per tutto il genere umano e deve avere anche una sua efficacia storica, fa riferimento nell’introduzione alla teologia militante latino-americana con queste partecipi parole: «Io invidio coloro che – come un Gustavo Gutiérrez, un Joseph Comblin e tanti altri – tentano la stessa sintesi partendo da un impegno oneroso, effettivo e concreto nei movimenti di liberazione. Ciascuno ha la sua vocazione e la sua sorte! Le mie sono quelle che sono, appesantite in più dalla malattia. [...] Io vivo in tutta libertà, abito la chiesa, ma voglio che effettivamente sia il segno dell’amore liberatore di Dio nell’itinerario così spesso drammatico degli uomini».
Nella settimana di pentecoste del 1975 si tenne alla katholische Akademie di Monaco di Baviera una settimana teologica, che si concluse con un’affollatissima conferenza stampa. Sul podio tre teologi: Congar, Küng e Metz, intervistati da due noti giornalisti della televisione tedesca. Al termine della lunga e articolata intervista, il giornalista intervistante pose – a sorpresa – un’ultima pertinente domanda: «Perché siamo sulla terra?». È la domanda classica del
Catechismo Romano, che nella edizione italiana suona: «Per quale fine Dio ci ha creato?», e che in lingua tedesca suona più discreta: «Per quale fine siamo sulla terra?». Ciascun teologo era chiamato a dare una breve e puntuale risposta. Congar rispose, citando la risposta del Catechismo Romano: «Siamo sulla terra per conoscere, amare e servire Dio sulla terra, per goderlo poi in cielo». Ma, soggiunse, la risposta è ancora vera ma incompleta. E la completò con tre osservazioni: a) Alla risposta classica manca il riferimento agli altri, e così è caratterizzata da un certo
individualismo; b) La risposta classica soffre di un certo
dualismo, che contrappone terra e cielo; c) La risposta classica si mantiene sul terreno di una teologia naturale e le manca il riferimento cristologico e pneumatologico. La risposta articolata di Congar alla domanda dell’intervistatore fu l’occasione di un numero della rivista
Concilium dal titolo:
Per quale fine siamo stati creati?, edito nel 1977/8 a cura dei Walter Kasper e Hans Küng.
Questa discussione del 1975–1977 sulla risposta alla domanda classica del
Catechismo Romano mi porta a un altro testo del p. Congar, alle sue
Conversazioni d’autunno, del 1987, raccolte dall’amico Bernard Lauret, allora direttore letterario delle Éditions du Cerf, intervista che abbiamo concordato insieme. Il p. Congar, che era ospedalizzato dal 9 ottobre 1984, così si esprime in quelle
Conversazioni: «Ritirato dalla vita attiva, sono unito al corpo mistico del Signore Gesù di cui ho parlato tante volte. Lo sono, di giorno e di notte, con la preghiera di un uomo che ha anche la sua parte di sofferenza. Ho una coscienza acuta delle immense dimensioni del corpo mistico. Con e nello Spirito santo sono presente ai vari membri conosciuti (da me) o sconosciuti. L’ecumenismo vi ha evidentemente la sua parte. È intercessione, consolazione, azione di grazie, finché il Signore vorrà». E, ancora, e qui c’è un’eco del dibattito teologico segnalato, sulla incompletezza della risposta del
Catechismo Romano: «La mia visione di Dio è sempre stata biblica. È il Dio vivente: colui al quale si può dire “Mio Dio”, ma non in un senso individualista, perché l’io dei Salmi non è quello di un individuo isolato, è un io rappresentativo del popolo di Dio che ciascuno realizza in una certa maniera. È il Dio vivente che ha un disegno sul mondo. Sono convinto che le nostre vite sono guidate, cioè che noi dobbiamo discernere una chiamata, una occasione. Penso spesso anche alla vita eterna. Credo di averla già fin d’ora. Ciò è ripetuto in tutte le lettere in s. Giovanni. Ma io lo penso in modo esistenziale, reale». Abbiamo qui le linee di una spiritualità che attende ancora di essere esplorata in tutte le sue sfaccettature.
Opere di Yves Congar -
Un popolo messianico. La chiesa sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione, Queriniana, Brescia 1976, 1982
3 -
Credo nello Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1998, 1999
2 -
La crisi nella Chiesa e Mons. Lefebvre, Queriniana, Brescia 1976
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Spirito dell'uomo, Spirito di Dio. Breve trattato sullo Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1987, 2000
2-
Conversazioni d'autunno, Queriniana, Brescia 1987
-
Ecco la Chiesa che amo!, Queriniana, Brescia 1969, 1970
2-
Una Chiesa contestata, Queriniana, Brescia 1969
-
Ai miei fratelli, Queriniana, Brescia 1969
-
La risposta dei teologi, Queriniana, Brescia 1969
-
La Pentecoste, Queriniana, Brescia 1973, 1989
3 -
Una visitatrice scomoda. Riflessioni sulla malattia, Queriniana, Brescia 1993
-
L'esperienza dello Spirito. In onore di Edward Schillebeeckx, Queriniana, Brescia 1974
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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)"