15/02/2025
577. VITA E MORTE DI UN "EROE APPASSIONATO" Il caso Giordano Bruno di Jürgen Moltmann
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Il 17 febbraio 1600 moriva a Roma il pensatore Giordano Bruno. Giudicato dagli uomini del suo tempo come un eretico, appare oggi – in questa bella ricostruzione della sua vita e del suo pensiero, firmata da Jürgen Moltmann – quasi come un profeta, un antesignano del ‘paradigma’ post-moderno e pan-en-teista, quasi un annunciatore precoce di una nuova visione del mondo post-cristiana.

Lo ricordiamo nel nostro blog, attingendo al libro Scienza e sapienza (BTC 126). In queste riflessioni, dopo un excursus sulla vita e le vicende che portarono alla condanna di Giordano Bruno [1° puntata: Vita e morte di un ‘eroe appassionato’], il prof. Moltmann tenta per la prima volta un necessario confronto teologico con la cosmologia del domenicano partenopeo [2° puntata: In dialogo teologico con Bruno].



 

 

A Roma, in Campo dei Fiori, sull’antica piazza dove si svolgevano le esecuzioni capitali, ora sorge il monumento in ricordo di Giordano Bruno. In occasione dello scoprimento, il 9 giugno del 1889, il professor Bovio proclamava:

Qui lo hanno bruciato, e le sue ceneri non placano ancora il dogma. Qui egli si erge di nuovo, ma la religione degli spiriti liberi non chiede vendetta. Essa pretende invece tolleranza per tutti gli insegnamenti, per tutti i culti, specie per quello della giustizia. Invece delle preghiere in chiesa, lavoro. Invece di sola fede, ricerca. Invece di supina accettazione, dibattito. Gli articoli della nostra religione sono le scoperte della scienza, i suoi concordati sono i congressi internazionali e le mostre mondiali che esibiscono il comune lavoro. Questa fede non ha profeti, ma solo pensatori. E se ne cerchi il tempio lo troverai nell’universo, se cerchi il suo asilo lo avrai nella coscienza degli esseri umani... Nell’universo di Bruno non c’è posto per scomuniche, ed a questa comunità può accedere l’intero genere umano.

 

Profeta o eretico?

Mentre migliaia di persone confluivano sulla piazza per rendere onore al libero pensiero e mostrare la propria devozione all’universo, celebrando così la comune fede nel lavoro, nella scienza e nel progresso, papa Leone XIII trascorreva l’intera giornata in San Pietro, genuflesso davanti alla statua bronzea del principe degli apostoli, pregando, digiunando ed invocando salvezza per la chiesa cattolica romana e la fede beata. Ma nella circostanza anche lui aveva esternato il proprio pensiero. In tutte le chiese si era letta ai fedeli la lettera con la quale egli metteva in guardia dall’arcieretico ed eresiarca Giordano Bruno, persona moralmente abietta. Ecco uno stralcio:

Egli non ha prodotto nulla di scientificamente rilevante, né acquisito un qualche merito nel campo della promozione sociale. Si è comportato in modo insincero, menzognero, perfettamente egoistico, intollerante verso chi la pensava diversamente, manifestamente malvagio e da adulatore che non si fa scrupolo di distorcere la verità.

L’elenco di denigrazioni continuerà nel cattolico Lexikon für Theologie und Kirche, nella prima edizione del 1930. Vi si legge:

Girovago instancabile, patologicamente astioso e rissoso, sempre in viaggio tra Ginevra, Tolosa, Parigi, Londra, Wittenberg..., che non esita a cambiare confessione ed è sempre in cerca di risse. I nuovi spiriti, imbevuti di anticlericalismo, vedono in Bruno il loro grande eroe, cui erigere monumenti a Napoli e a Roma.

L’eccitazione sembra poi placarsi, se nella seconda edizione del Lexikon, nel 1958, le denigrazioni personali cedono il passo ad una disamina più obiettiva.

Possiamo finalmente giudicare Bruno in modo spassionato, instaurare un nuovo processo? O su Bruno gli animi dovranno continuare a dividersi: da un lato gli spiriti liberi interessati ad un mondo umano, dall’altro la fede della chiesa che fa memoria di quella barbara esecuzione? O gli eretici di allora sono i profeti di domani proprio perché dichiarati eretici? Giordano Bruno ha posto davvero il papato del tempo, la chiesa e il cristianesimo di allora in questione in modo così micidiale da costringere la chiesa, diciamo così, ad esercitare il proprio diritto di legittima difesa e quindi a toglierlo di mezzo? O non fu l’annunciatore precoce di una nuova visione del mondo, di una Weltanschauung post-cristiana, cosmica?

Nell’elenco accusatorio troviamo tutta una serie di errori, in parte desunti dalla sua cosmologia sviluppata attorno all’idea di un universo incommensurabile, in parte ricavati dalle sue satire contro il papa e la chiesa. Venne dunque condannato, ma resistette eroicamente alle terribili torture, senza mai ritrattare, «da impertinente e ostinato eretico», come si legge negli atti. La condanna fu sottoscritta dal celebre gesuita cardinal Bellarmino. Fu poi consegnato alla giurisdizione secolare di Roma perché venisse bruciato vivo. E non si bruciò soltanto l’uomo, ma pure – come recita la sentenza – «tutti i suoi libri e scritti, sui gradini di San Pietro».

Né durante il processo né dopo morte l’istanza di Bruno fu seriamente affrontata sul piano teologico. Per quanto io ne so, nessuno si è mai confrontato teologicamente con la sua cosmologia, e chi si è interessato in modo serio alla sua visione cosmologica non ha mostrato alcun interesse per le relative dimensioni teologiche. Se la sua concezione del mondo era così panteistica, materialistica e, in senso moderno, ‘atea’, perché mai egli parlava di Dio e riteneva che l’esperienza fondamentale di Dio avrebbe la sua ragion d’essere nell’incommensurabilità del cosmo? E se a costringerlo a parlare di Dio era questa sua visione cosmica, da dove egli ha poi ricavato il suo concetto di Dio ed in che rapporto sta questo concetto con il modo ebraico ed il modo cristiano d’intendere la presenza di Dio nel mondo?

Accenneremo ora alla biografia di Bruno e delineeremo a grandi tratti la sua visione del mondo e dell’uomo, per inaugurare quel dialogo di cui la riflessione teologica, dopo oltre 400 anni, rimane ancora debitrice. È il minimo che la teologia possa fare per restituire l’onore a questa vittima infelice del fanatismo di allora, e di un’intolleranza non ancora scomparsa nemmeno nella chiesa d’oggi.

 

 

Vita e morte di un ‘eroe appassionato’

Giordano Bruno (Filippo) nasce nella primavera del 1548 a Nola, ai piedi del monte Cicala, nei pressi di Napoli. Il 15 maggio del 1565 entra nel convento domenicano di S. Domenico Maggiore a Napoli. È il tempo in cui i domenicani perseguitavano gli eretici e processavano le streghe. Spregiativamente erano chiamati «cani del Signore» (Domini-cani), impegnati com’erano nell’Inquisizione. Nel convento di S. Domenico a Napoli aveva soggiornato ed insegnato anche Tommaso d’Aquino. Qui, nel 1572, Bruno viene ordinato sacerdote. Ed è in questo ambiente che viene formato nella filosofia della natura antica ed umanistica. Sappiamo che una spia dell’Inquisizione, un certo Montecalcini, lo coinvolse in una serie di controversie compromettenti, come risulta pure acquisito, dagli atti segreti a disposizione, che già nel 1576 l’Inquisizione aveva redatto contro il ventottenne domenicano un’accusa articolata «in 130 punti» e riguardante le sue incertezze in materia di fede e, come si legge nel Lexikon cattolico del 1930, la «sua propensione per la poesia lasciva».

Con la fuga Bruno scampò ad un processo che si sarebbe sicuramente concluso con la sua condanna. Ebbe così inizio quella che in letteratura andava sotto il nome di ‘vita errante’ e che nel suo caso non significa che egli sarebbe vissuto da errabondo e fuggiasco, se è vero che proprio quella fuga lo portò nei centri spirituali di maggior spicco nel mondo europeo del tempo. Nell’Italia settentrionale egli soggiornò a Venezia, Brescia, Bergamo. A Milano conobbe il celebre umanista inglese sir Philipp Sidney, e nel 1579 raggiunse Ginevra, asilo di profughi evangelici provenienti dall’intera Europa, quando Calvino era già morto e Serveto giustiziato da un quarto di secolo.

Ma in quella città era iniziata, con Teodoro di Beza, anche l’epoca dell’ortodossia riformata (aristotelica), con il fallimento del filosofo empirista Petrus Ramus, vittima della notte di S. Bartolomeo, a Parigi nel 1572. Qui Bruno dovrebbe essere entrato a far parte della comunità italiana dei riformati residenti a Ginevra. Il suo nome compare sia nell’elenco degli aderenti a quella comunità come anche nel registro dell’Accademia ginevrina. Il che tuttavia non comportava necessariamente un cambio di confessione religiosa: Bruno è stato un eretico del tardo Rinascimento, non un seguace della Riforma.

Ben presto il frate domenicano si trasferì a Lione e poi a Tolosa, che a quel tempo vantava, dopo Parigi, la seconda università più importante di Francia. Qui Bruno ottenne la venia legendi in teologia, con una tesi su Tommaso d’Aquino e Pietro Lombardo. E iniziò quell’attività didattica che lo renderà poi celebre. È di questo tempo il suo scritto Clavis magna, dove si tratta della mnemotecnica di Raimondo Lullo. L’ars memoriae lo affascinerà sempre, anzi possiamo supporre che egli stesso sia stato un mnemotecnico di grande livello. Una passione del genere si spiega con la convinzione che tutte le operazioni mnemoniche si svolgerebbero secondo le regole della matematica e che il cervello umano andrebbe usato come una sorta di macchina mentale che l’uomo deve conoscere e padroneggiare. 

Nel 1581 Bruno si trasferì a Parigi, dove insegnò al College de Chambrai e meritò grande considerazione per un’altra sua opera sull’arte della memoria: De umbris idearum, dedicata a Enrico III. In questo periodo egli produsse anche alcuni lavori di tipo letterario, come Il candelaio. Nell’aprile del 1583 Bruno si trasferì a Londra, dove trovò ospitalità a casa del console di Francia. Nell’estate del 1583, ad Oxford, il frate domenicano tenne dei corsi sulla cosmologia di Copernico.

Nell’atmosfera tollerante dell’Inghilterra elisabettiana e sotto la protezione di sir Philipp Sidney, proprio in quegli anni egli scriverà le sue opere cosmologiche: La cena delle ceneri, De l’infinito Universo et mondo, De la causa, principio et uno. Nello stile egli intendeva imitare i dialoghi di Platone, ma dialoghi veri e propri si trovano soltanto nei suoi poemi didascalici. Pubblicò pure alcuni scritti di retorica, come lo Spaccio de la bestia trionfante del 1584, a quel tempo considerato un attacco al papa ed alla chiesa, e in seguito causa della sua stessa condanna. Nell’anno successivo comparve De gli heroici furori, un inno che esalta l’uomo invasato da Dio.

In Francia, dov’era rientrato nel 1585, lo raggiunse l’invito della luterana Wittenberg, dove si trasferirà e, su raccomandazione di Gentili, per un biennio terrà dei corsi sugli scritti di Aristotele. In una sua Oratio valedictoria celebrerà con animo profondamente riconoscente la philosophica libertas dei tedeschi e la figura di Martin Lutero. Nel 1589 insegnò presso il celebre ateneo luterano di Helmstedt, dove scrisse anche le sue più importanti opere di cosmologia: De monade, numero et figura liber e De immenso et innumerabilibus seu de universo et mundis, del 1591. In quello stesso anno insegna nella Zurigo riformata, dove diventa una celebrità europea, un professore ospite di rango internazionale, come certi esuli dei giorni nostri.

Da Zurigo lo chiamò a Venezia Giovanni Mocenigo: offerta insidiosa che si rivelerà fatale. Ben presto infatti il Mocenigo lo denuncia all’Inquisizione veneziana, che nel 1592 lo arresta. Ha così inizio un calvario che durerà diversi anni. All’inizio del 1593 viene consegnato al nunzio pontificio, poi tradotto a Roma e quindi incarcerato nelle segrete del Sant’Uffizio. Il processo sarà lungo, durerà più di sette anni, a testimoniare un’abile difesa, ma anche le perplessità degli inquisitori.

Le accuse mossegli – ma in realtà soltanto sospetti – spaziavano negli ambiti più diversi: egli avrebbe negato la Trinità, identificato lo Spirito Santo con l’anima del mondo, negato la transustanziazione e la verginità della Madonna, sostenuto la pluralità dei mondi, vissuto come un ateo, deriso il papa e il culto dei santi, e molto altro ancora. La sua linea difensiva consisteva nel mostrare come egli intendesse argomentare non da teologo, ma da filosofo, cioè basandosi sull’intelletto naturale e non sulle ragioni della fede: una ‘dottrina dei due regni’ tanto averroistica quanto luterana.

Nel 1599 egli attaccò Paolo V, nientemeno che l’inquisitore generale C. Borghese, titolare del processo intentato a Bruno. L’istruttoria, che ora marcia spedita, viene conclusa dal Bellarmino. Nel 1600, anno del giubileo, Bruno è condannato a morte. La sua risposta ai giudici trasuda fierezza: «Nell’emettere questa sentenza contro di me forse voi avete più paura di quanta ne provi io nel subirla». Il seguito è davvero mostruoso, scandaloso. Con il corpo slogato e scarnificato dalle torture, all’alba del 17 febbraio del 1600 viene trascinato al luogo dell’esecuzione e poi arso vivo. Nelle sue ultime parole risuonano quelle del Plotino morente: «Io cerco di accogliere in me il Sublime e a Dio Vicino che l’Universo contiene». Morì con la tranquillità di Socrate e la superiorità dei martiri cristiani, convinto che «chi teme il dolore fisico non ha mai partecipato al Divino».





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