15/06/2012
224. VIE D'USCITA DALLA CRISI DELLA CHIESA Come mai prima d’ora, in epoca moderna, le comunità cristiane sono al momento scosse. Che cosa c’è da fare? Un esame di coscienza teologico di Wolfgang Beinert *
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Dove stanno le ragioni per lo stato disastroso del cristianesimo, delle chiese? I critici si volgono volentieri alla congestione dei problemi, che bloccherebbe ogni dinamismo. Ad esempio, per portare nuovo sangue alla religione ci sarebbe solo bisogno di contenere il centralismo della chiesa cattolica, di consentire più femminismo, di giudicare più liberamente in questioni etiche e morali, di interpretare meno rigidamente le leggi e di far prevalere maggiore democrazia. Per quanto tale visione possa apparire plausibile nel suo complesso e quindi giustificare alcune proposte per i singoli casi, questa diagnosi è troppo superficiale. In realtà, le difficoltà derivano dalla dualità, dalla bipolarità, che è impressa profondamente nella religione di Cristo. Questa tensione può agire come una dialettica feconda, ma anche degenerare in un dualismo pernicioso allorquando, dei due princìpi, l’uno rimuove, soggioga o si inimica l’altro.

La tensione teologica inizia già con il concetto di Dio. Secondo la fede cristiana Dio è il Tri-Uno. L’Unum, l’unità, è altrettanto essenziale, altrettanto decisiva e importante per la fede quanto il Trinum, la triunità. Tutta la storia dei dogmi mostra quanto problematico sia stato per ogni epoca pensare il momento dell’uno e quello dei molti considerati insieme in Dio e trasferirli nella realtà del Divino e quindi anche nella realtà della fede. Il momento dell’unità racchiude in sé in modo latente il rischio di un assolutismo autoritario, mentre la triunità sembra lasciare spazio alla pluralità illimitata in tutte le dimensioni.


Vera cattolicità

All’interno della cristologia, la dottrina di Cristo, esiste un altro duplice conflitto. Il ruolo e il significato di Cristo sono dovuti, in parte, al fatto che egli abbia istituito definitivamente nel suo nome il regno di Dio, attraverso un agire di redenzione nelle strutture del mondo, dominato dal peccato e dalla decadenza. Ciò che non è cristiano è sempre, in questa prospettiva, l’anticristiano, ciò che è nemico e che va escluso. In questo modo si incoraggia un pensiero che è barricato in se stesso. Dall’altra parte, il messaggio fondamentale della Bibbia sta nel Lógos che realizza la redenzione attraverso l’incarnazione, l’in-corporazione in quanto è terreno, mondano, umano, dunque mediante la solidarietà totale con l’intera realtà della creazione.

I Padri della chiesa hanno affermato la redenzione universale ad opera di Cristo. A loro parere, questa postula anche la ricezione di Cristo nelle profondità della creaturalità. Quod non assumptum, non sanatum: ciò che il Redentore non ha fatto proprio, non è riscattato. Ciò si traduce in un’apertura infinita del cristianesimo alla realtà non cristiana, una vera cattolicità che vuole espandersi a livello mondiale, che ha il suo limite nel male assoluto, nel peccato nudo e crudo.

Una tensione simile la ritroviamo nel concetto di creazione: il mondo in cui viviamo e in cui si sta svolgendo anche il destino della chiesa, non è solo buono. Anche nel Nuovo Testamento compare una duplice nozione di kósmos. L’evangelista Giovanni impiega in molti passi la parola “mondo”, di solito indicato come “questo mondo” (ho kósmos hutós), come sinonimo di ciò che è contrario al divino ed anticristiano. Il destino del Redentore è determinato dal fatto che «il mondo non lo ha riconosciuto» (cf. 1,10). Il suo trionfo consiste nell’aver vinto il principe di questo mondo (14,30) e con questi il mondo (16,33 ). Il distacco dal mondo è quindi un obiettivo fondamentale della vita cristiana (cf. 1 Gv 2,15).


Capo senza membra?

D’altra parte, il mondo è opera di Dio, cioè della bontà fondamentale. Lo stesso vangelo di Giovanni, che è conosciuto per il suo disprezzo del mondo, riconosce anche che «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (3,16). L’azione salvifica di Cristo può quindi essere descritta come la creazione di un nuovo cielo e di una nuova terra (cf. Ap 21). Il cristiano ha un rapporto con il mondo che va quindi criticamente soppesato: egli può accogliere il mondo come se fosse un regalo, usufruendone e dandogli un’impronta ma senza cedere ad esso. Egli deve essere ben certo di dare spazio al “mondo nuovo”. Il pensiero cristiano è infatti orientato escatologicamente alla venuta finale e definitiva di Cristo. La misura del rapportarsi al mondo è il discernimento degli spiriti (cf. 1 Cor 12,10; 1 Gv 3), che presuppone a sua volta una plausibile dottrina dello Spirito Santo (pneumatologia).

Infine rimangono le tensioni inconciliabili nell’insegnamento sulla chiesa (ecclesiologia). Teologicamente è estremamente difficile descrivere una struttura così complessa come quella della chiesa. Partendo dal Nuovo Testamento e restando orientati ad esso si sono affermati numerosi concetti di chiesa che non sono facilmente scambiabili, ma esprimono diversi punti di vista. Anche un singolo modello ecclesiologico concettuale può essere in sé polivalente. In modo particolarmente energico si è imposta l’immagine della chiesa come Corpo di Cristo. Paolo la usa nel suo senso originario per trarre il senso dei diversi doni della grazia (carismi) e del loro uguale valore per la chiesa. Come un corpo ha molte membra, che ricoprono un significato indispensabile per il corpo, così anche il singolo dono della grazia è essenziale per il Corpo di Cristo. A questa idea è congiunta la visione della comunità di fede come communio, come comunità di soggetti fondamentalmente uguali.

Si può, tuttavia, rivolgere l’attenzione solo sul membro del corpo più importante, il capo, che è Cristo. Se qualcuno domanda specificamente dove e come opera il capo, è a partire dal Medioevo che con questo si fa riferimento al papa, a cui viene riconosciuto in esclusiva il titolo in origine attribuito a tutti i sacerdoti di “rappresentante di Cristo" (vicarius Christi) e, dal 1983, espresso anche nel diritto canonico. L’idea di communio non si riferisce più in primo luogo alla comunità come insieme, ma al capo: la comunione è concepita esclusivamente dal punto di vista gerarchico, come unione e comunione con il papa. Da queste duplici categorie citate ad esempio, cariche di tensione, troppo spesso sono derivati nella storia della chiesa solo dualismi, cioè princìpi ostili tra loro e reciprocamente escludentisi. Un polo è stato unilateralmente enfatizzato a scapito dell’altro. Strutture feudali condizionate dal tempo hanno codeterminato dove teologicamente gli accenti sono posti: sull’unità di Dio, sull’unicità di Cristo, sulla negatività del peccato, sul centralismo nel governo della chiesa. La crisi attuale della chiesa consiste esattamente in questo: che sotto l’influsso dello spirito democratico della società contemporanea le unilateralità della chiesa hanno un effetto pregiudizievole. Ma le singole polarizzazioni, ciascun dualismo non possono più funzionare. Questo costituisce la svolta epocale degli universi di concetto che si rafforza nella comunità di fede. Il futuro della chiesa, il suo destino dipendono da come essa gestirà e verrà a capo della questione. Dopo la ellenizzazione, la missione ai popoli germanici e l’illuminismo, l’intera vita cristiana e della chiesa è posta di fronte alla decisione di quale direzione prendere e questo ha un significato epocale.


Giovanni XXIII al posto dello spirito antimoderno

La vera causa della difficile situazione è la profonda inattualità dell’essere-chiesa. La modernità fu una parola che suscitò l’orrore per tutti quei sintomi reali e presunti di degrado, che si cercava e si cerca di combattere con rigide misure antimodernistiche. Per il sociologo, Franz-Xaver Kaufmann la ragione principale della perdita di influenza da parte della chiesa sono «i cambiamenti di rapporto tra gli aspetti culturali, organizzativi e degli ambiti di vita di quello che fino ad allora era chiamato semplicemente “cristianesimo”, o a volte “religione”, o “chiesa”. Dagli anni Settanta del secolo scorso il senso di questi tre aspetti si è andato sviluppando sempre più separatamente».

Si può anche dire che la colpa è la mancanza di pensiero storico dei molti che reggono le sorti della chiesa. Il presente non è inteso come l’oggi della chiesa nel cammino lungo il tempo, che sta come tutte le altre ore della storia della chiesa sotto la protezione di Dio, ma come un’epoca di declino radicale, inclusivo e irreversibile. Significativamente, i gruppi marginali tradizionalisti considerati con favore dalla direzione della chiesa hanno proprio questa visione apocalittica. Il sentimento fondamentale nei riguardi dell’atteggiamento della loro vita e della loro fede è la fluttuante angoscia di fronte al presente, che a sua volta diventa terreno fertile per un aperto o strisciante fondamentalismo. A volte non si va molto più in là della simpatia per i gruppi politicamente di destra. Tuttavia, se si cerca una parola che caratterizzi le generazioni precedenti, che non si sono sottratte all’incontro con il mondo, allora questa è “rinascimento” (Renaissance). Con il riferimento della memoria alle origini e non con truci pensieri di distruzione e di fine del mondo sono state affrontate le crisi. L’obiettivo era il rinnovamento a partire dallo spirito della rivelazione originaria. La chiesa dovette nascere di nuovo e dare prova nella nuova situazione della forza viva e immutata di Dio.

Anche nella chiesa dell’epoca moderna ci furono simili movimenti dinamici. Con una geniale illuminazione Giovanni XXIII volle superare la fatale posticipazione temporale tra mondo e chiesa attraverso un concilio di cui venne proclamato il programma come aggiornamento, l’introduzione della chiesa nell’oggi. L’inizio di questo evento mondiale si colloca esattamente a mezzo secolo di distanza da noi. Il bilancio fu comunque variegato. Certamente il concilio fece proprie molte conoscenze a partire dal pensiero illuminista: l’atteggiamento di fondo verso il progresso, la scienza, la democrazia, l’autonomia delle realtà terrene fu positivo. Le conoscenze teologiche trovarono il loro posto nella forma del riconoscimento dei diritti umani, compresa la libertà di religione e di coscienza. Il rapporto con l’ebraismo fu posto su nuove basi; il concilio inoltre affrontò la questione della Riforma. Come esempi basti citare il primato della Scrittura, la lingua nazionale nella liturgia, la riforma della pietà popolare. Il centralismo del papa, sovrastimato dal concilio Vaticano I, divenne un contrappeso della valorizzazione del ministero episcopale e dell’accento posto sulla chiesa locale.


Cinquant’anni non risolti

Di fondamentale importanza fu la profonda riflessione pastorale e storica dell’assemblea conciliare, che è evidente in tutti i documenti. Sorprendentemente si manifesta nella costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla chiesa nel mondo attuale, dove la conclusione suona: «Quanto viene proposto da questo santo sinodo fa parte del tesoro dottrinale della chiesa e intende aiutare tutti gli uomini del nostro tempo – sia quelli che credono in Dio, sia quelli che esplicitamente non lo riconoscono – affinché, percependo più chiaramente la pienezza della loro vocazione, rendano il mondo più conforme all’eminente dignità dell’uomo, aspirino a una fratellanza universale poggiata su fondamenti più profondi, e possano rispondere, sotto l’impulso dell’amore, con uno sforzo generoso e congiunto agli appelli più pressanti della nostra epoca. Certo dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha volutamente, in numerosi punti, che un carattere del tutto generale; anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, l'insegnamento presentato qui dovrà essere continuato ed ampliato» (n. 91).

Il concilio sapeva che il rischio della asincronia o, positivamente posto, la necessità dell’aggiornamento è un dato costante per tutto il tempo di questo mondo. Purtroppo i padri conciliari non furono autorizzati, per lo meno, a discutere tutte le questioni che urgevano in quel momento. Queste domande sono identiche ai problemi che oggi – sempre e di nuovo – figurano tra gli interrogativi più urgenti e di prim’ordine: per esempio, il celibato del clero latino, il rapporto con i divorziati risposati, l’atteggiamento verso la sessualità e il controllo delle nascite in particolare, la natura della nomina dei vescovi e la riforma della curia. Ma il farne dei tabù non ha portato a niente di nuovo. I quesiti non hanno trovato risposta, ma si sono fatti acuti. Nel frattempo non si può evitare l’impressione che il punto di partenza conciliare avrebbe dovuto avvenire con cautela ed essere svolto con riflessione. Ma ciò avrebbe portato a che la crisi della chiesa raggiungesse proporzioni di rischio allarmanti.


La forza ha bisogno dello spirito

Che cosa si può fare? che cosa deve fare d’altro la chiesa – là dove per chiesa non possiamo intendere “Roma”, ma l’intero corpo di Cristo, il popolo di Dio indiviso, compresi anche noi? Qui non si può creare alcun programma di riforma globale. Si possono tirare solo poche linee teologiche.

In primo luogo, la Bibbia conosce una grande tradizione di libertà, secondo cui il Padre è il Dio dell’esodo, il Figlio è il Redentore, lo Spirito è lo strumento di salvezza. Da qui il cristianesimo ha formato il concetto di persona, che a sua volta costituisce la base dei diritti umani. In questa tradizione di libertà si deve procedere oltre. Per la chiesa ciò comporta la necessità della solidarietà totale con l’umanità.

In secondo luogo, va approfondita la dottrina sullo Spirito Santo (pneumatologia). Secondo il vangelo di Giovanni la chiesa non è mai proprietaria della verità nel mercato del mondo, ma è discepola dello Spirito Santo, che la introduce incessantemente alla verità (16,13). Questo porta con sé il dovere che Paolo invita ad osservare: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male» (1 Tessalonicesi 5,19-21). Il concilio Vaticano II ha parlato in questo senso dei “segni dei tempi”, che sarebbero da «interpretare alla luce del vangelo» (Gaudium et spes 4) (cf. Lc 12,56).

In terzo luogo, la figura escatologica del cristianesimo, il suo essere rivolto al compimento eterno, va presa sul serio. La dottrina del ritorno del Signore Gesù Cristo (parusia) appartiene alle tradizioni primitive della religione cristiana. Nel Credo preghiamo e confessiamo che egli verrà a giudicare i vivi e i morti. Ma prendiamo poco seriamente la cosa. Noi posponiamo il ritorno ad un momento che sta in una lontananza nebbiosa. Ma non si realizza costantemente – nella morte dei singoli individui, nell’estinguersi delle generazioni con le loro culture? Così è di tutto ciò che ci raggiunge – il nuovo – già quale evento del ritorno: chi si difende fondamentalmente dal tempo, si difende dall’éschaton, dalla salvezza che viene. Egli perde l’appuntamento dello “sposo”, come fanno nel racconto biblico le sfortunate giovani. L’escatologia è, come insegna questa storia (Matteo 25,1-13), il presente.

In quarto luogo, dobbiamo ripensare la caratteristica essenziale di servizio della chiesa, senza negare la forma e la struttura fondamentalmente gerarchiche della chiesa di Cristo. Questa struttura non deve essere vista come fine a se stessa o addirittura come una descrizione perfetta della chiesa, ma solo come un momento accanto ad altri che rende visibile la costituzione di base della comunità di fede. Il concilio Vaticano II ha descritto la chiesa molto felicemente come sacramento, come «il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium 1). In nessun momento la chiesa è fine, ma sempre è mezzo. Ciò ha conseguenze enormi: chi si comprende come fine, deve perseguire una politica di potere e, una volta acquisitolo, ha da difenderlo con le unghie e con i pugni. Chi serve, è in grado di donare tutto, compreso se stesso.

In quinto luogo, la struttura della chiesa va decentralizzata. Uno dei maggiori problemi di pensiero e di governo – non solo nella chiesa, ma dell’umanità in generale – è il rapporto tra unità e pluralità. Entrambi devono essere tenuti in equilibrio e in reciproco pareggio. L’unità come uniformità non sarebbe solo un fraintendimento del cristianesimo, ma – come contraltare della molteplicità disintegrantesi – la sua distruzione. «L’unità va trovata mentre le persone imparano più profondamente e sostengono tra loro la pluralità e la diversità del loro essere. L’unità così raggiunta vive del riconoscimento reciproco come suo principio unificante» scrive il teologo di Essen, Ralf Miggelbrink.
Nei rapporti costitutivi della chiesa questa idea significa un decentramento, un rafforzamento delle conferenze episcopali regionali, la copartecipazione dei soggetti interessati, un ambito di progettazione delle chiese locali. Il secolo del movimento ecumenico, ad esempio, ha reso evidente che l’unità della chiesa di Cristo non può aver luogo sottolineando un’unità formale, superficiale, ma soltanto attraverso una morfogenesi della cattolicità nel segno di una totalità universale.

In sesto luogo, chi si è interessato di più del messaggio del cristianesimo, lo troverà affascinante, promotore di vita, che spalanca gli orizzonti. Questa è un’esperienza che fanno molti/molte cristiani. Purtroppo è anche vero che, ad esempio, il modello di predicazione del vangelo di Cristo in molti casi rende più difficile e impedisce questa esperienza. La proclamazione ufficiale da parte della chiesa per mezzo di documenti nelle lingue latina o nazionali non di rado usa un linguaggi alto, incomprensibile. Lo stesso linguaggio delle prediche e del catechismo presuppone un livello crescente di termini tecnici e di espressioni che non vengono più capiti. Se – cosa che purtroppo accade raramente – si discute e non si afferma solo, gli argomenti sembrano spesso incomprensibili. La scomparsa della cultura cristiana lascia dei buchi. Tutti i responsabili devono quindi fare una seria riflessione per sapere come il cristianesimo in parole e opere venga ragionevolmente comunicato oggi e qui.


La tradizione indica la via

In tutto questo si dovrebbe sempre essere consapevoli del fatto che i temi elencati stanno tra loro secondo una chiara gerarchia. Indubbiamente le questioni che riguardano la costituzione della chiesa occupano di fronte alla crisi il primo posto dei dibattiti interni attuali. Nella tematica generale della fede cristiana, tuttavia, queste questioni si trovano molto più in basso nell’ordine delle precedenze. La chiesa è uno strumento per il fine. Non ci si può nemmeno aspettare che attiri molto la chiesa che nell’annuncio giri sempre intorno alle proprie preoccupazioni.

La chiesa è la comunione dei seguaci e delle seguaci di Gesù. Essa indica la via annullandosi. La chiesa non cade dal cielo ogni paio di generazioni, ma si muove secondo la legge che ha assunto una volta. È la tradizione. Se si tiene salda, rinuncia al tradizionalismo. Se facilmente si nasconde, questo è il fondamentalismo. Ma il tradizionalismo porta, e lo vediamo sempre più chiaramente, alla demolizione gigantesca della tradizione stessa. Ne consegue che solo se la chiesa procede nel cammino lungo il tempo incontra le persone e in esse il suo Signore e Redentore Gesù Cristo.


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Wolfgang Beinert (1933), divenuto sacerdote nel 1959, dopo aver insegnato dogmatica a Bochum (Germania), dal 1978 fino al termine della sua attività accademica nel 1998 è stato ordinario di dogmatica e storia dei dogmi all’università di Regensburg, dove è stato collega di Joseph Ratzinger.
Presso la Queriniana ha diretto il Lessico di teologia sistematica (1990), è autore di Il Cristianesimo. Respiro di libertà (2003) e di Avrei una domanda… Informazione sulla fede dei cristiani (2004).

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Traduzione dal tedesco della Redazione Queriniana
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