Paulo Suess è un testimone eccezionale, uno che opera “in prima linea”. Dopo il dottorato in teologia fondamentale conseguito all’Università di Münster (è di origine tedesca: il suo nome di battesimo è Paul Günther Süss), dal 1966 vive e lavora nella pastorale in terra d’Amazzonia (nella porzione brasiliana della foresta fluviale tropicale), divenendo un esperto di teologia inculturata. Uno come lui, che è stato anche segretario generale del Consiglio indigenista missionario (CIMI), non poteva non essere incluso tra i cinque periti in vista del sinodo speciale, voluto da papa Francesco, sulla regione panamazzonica. E figura anche nell’elenco ufficiale dei collaboratori del segretario speciale del sinodo.
Nel prossimo numero della rivista Concilium Suess si esprime sulla logica di un sinodo tanto straordinario e perfino eccentrico agli occhi di noi cristiani occidentali. Riportiamo qui di seguito alcuni stralci tratti da quell’articolo, scritto a quattro mani con José Agnaldo Gomes.
Costruire «nuovi cammini»
Nella logica della speranza e della solidarietà, e avendo consapevolezza dell’«importanza dell’Amazzonia per tutta l’umanità» (Documento di Aparecida, n. 475), papa Francesco ha convocato un’assemblea speciale del sinodo dei vescovi per la regione panamazzonica. Il tema di questo sinodo, che si tiene nell’ottobre 2019 a Roma, è: «Amazzonia: nuovi cammini per la chiesa e per una ecologia integrale».
Quando nel 2018 si è riunito con i popoli indigeni a Puerto Maldonado (Perù), papa Francesco ha spiegato l’obiettivo di questi «nuovi cammini»:
Aiutate i vostri vescovi, aiutate i vostri missionari e le vostre missionarie affinché si uniscano a voi e, in questo modo, dialogando con tutti, possano plasmare una chiesa con un volto amazzonico e una chiesa con un volto indigeno.
Sono gli stessi abitanti battezzati di ogni regione che devono plasmare il volto della loro chiesa locale, così come essa si esprime nella pratica sacramentale, nella struttura ministeriale e nella riflessione teologica. La comprensione della cattolicità come universalità, culturalmente cristallizzata e, di conseguenza, essenzialmente monoculturale, supportata dal diritto canonico all’interno di una tradizione patriarcale e autoritaria, ha impedito, fino ad oggi, la retta comprensione della storicità del cammino ecclesiale e ha reso impossibile la svolta decoloniale preconizzata dai «nuovi cammini» che il sinodo deve proporre.
Nella preparazione di questi «nuovi cammini» non si tratta di invenzioni arbitrarie, ma di «collaborare con il Creatore» (LS 80) «nella costruzione della nostra casa comune» (LS 13). I «nuovi cammini» seguiranno le tracce del «pensiero di Dio» (LS 65) permeato dall’ordine della creazione. «La ragione fondamentale di tutta la creazione» è «l’amore di Dio» (LS 77), che ci ha creato e ci ama nella nostra diversità, che «non si perde in un caos disperante» (LS 65) o in «cicli che si ripetono senza senso» (LS 65). Accettiamo – chiede Francesco – «con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore» (LS 155). Nella grandezza delle creature e nella bellezza delle sue culture «per analogia si contempla il loro Creatore» (Sap 13,5; LS 12).
Ciò che vale per ogni essere umano, vale anche per le culture, le quali sono progetti di vita che riflettono l’evoluzione di «un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio» (LS 69). Dio «ha voluto limitare se stesso creando un mondo bisognoso di sviluppo, dove molte cose che noi consideriamo mali, pericoli o fonti di sofferenza, fanno parte in realtà dei dolori del parto, che ci stimolano a collaborare con il Creatore» (LS 80) e a sperimentare «una continua rivelazione del divino» (LS 85), nella pluralità delle persone e delle culture. La bontà di Dio «non può essere adeguatamente rappresentata da una sola creatura» (LS 86) o da una sola cultura. Secondo Tommaso d’Aquino c’è una rimozione reciproca delle lacune tra le culture e le persone (cf. LS 86). L’interdipendenza e la complementarietà di tutto quello che è stato creato e inserito nella storia naturale falsificano e delegittimano qualsiasi proposta di una universalità monoculturale.
Per una chiesa dal volto amazzonico
Nell’impegnarsi per la scoperta di una chiesa dal volto amazzonico, il sinodo si porrà a «riflettere sul nostro stile di vita e i nostri ideali, per contemplare il Creatore, che vive tra di noi e in ciò che ci circonda» (LS 225). La sua «presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata» (EG 71) e accolta con fiducia. Plasmare, in nome dell’unità e dell’universalità, una chiesa senza un volto locale nella sua pratica sacramentale, nella struttura ministeriale e nella riflessione teologica, significherebbe nuovamente perdere il kairós per la costruzione di una chiesa postcoloniale. Una teologia della creazione sarà sempre una teologia di soggetti e cause emergenti, capace di decostruire la colonialità teologica delle loro rispettive chiese. La chiesa universale non è un’entità virtuale che incombe sopra le chiese locali: la chiesa universale si manifesta nel coordinamento delle chiese e delle cause locali, fatto questo che non pregiudica l’unità della fede vissuta nella sua diversità culturale. Il concetto di universalità teologico-ecclesiale è trasversale e, a partire da differenti cause dell’umanità, è radicato nelle teologie specifiche e regionali (teologie indigene, afro-americane, femministe; teologie della terra e dell’acqua, riletture bibliche).
Il Documento preparatorio del sinodo, che ha alla base l’enciclica Laudato si’, ci indica come possiamo collaborare alla rottura delle mentalità tipiche della colonizzazione: con una conversione integrale che prepara un’ecologia integrale (LS 137-162). «L’ecologia integrale è più che la mera connessione tra l’elemento sociale e quello ambientale» (Documento preparatorio, 9), tra adattamenti di pratiche religiose delle chiese con politiche degli stati: esige casomai di «riconoscere i propri errori, peccati, vizi» (LS 218) e gli interessi fondamentalisti, e di approfondire una svolta decolonizzatrice. La rottura della logica coloniale – che in origine era la proposta della Modernità e che anche oggi è adottata da settori significativi delle chiese – rivela la memoria della sofferenza storica dei soggetti emergenti quali prototipi e protagonisti di un altro progetto di vita. Questa azione di rottura condivide le lotte per la preservazione della vita e la riduzione della sofferenza insieme ai movimenti, ai cristianesimi e alle religioni contrari alle egemonie.
All’origine della chiesa dal «volto amazzonico» e della «ecologia integrale» (LS 137-162) ci sono le grida dei colonizzati, delle loro vite mutilate e delle loro storie silenziate, ma anche le grida della natura che Dio ci vuol far udire: «Tra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che “geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22)» (LS 2). La chiesa postcoloniale dal «volto amazzonico» cercherà nelle stesse radici dei popoli aborigeni le soluzioni per il suo futuro, collegando l’emancipazione politica con l’identità culturale. Il sinodo per l’Amazzonia avrà l’opportunità di colmare la distanza pastorale e geografica dei suoi ministri consacrati, che è una delle cause della continuità della “ragione coloniale” con i suoi fenotipi – quelli dell’autoritarismo, del fondamentalismo, dell’etnocentrismo e dell’universalismo monoculturale. La pastorale e l’ecclesiologia postcoloniali saranno ispirate da teologie specifiche e regionali. Ellenizzazione e romanizzazione della chiesa possono essere considerate interculturazioni di buon successo a livello regionale, ma alienanti quando vengono imposte al resto del mondo. La metamorfosi del volto romano della chiesa in volto amazzonico e indigeno, attraverso l’ascolto, la decentralizzazione e l’inculturazione, permetterà una maggiore presenza locale e un miglior riconoscimento dell’alterità e della diversità nella sua organizzazione strutturale, nelle sue opzioni ministeriali e nelle celebrazioni sacramentali.
La lotta dei popoli indigeni per i loro progetti di vita include una nuova razionalità di speranza nel mistero della vita: una razionalità evangelica collegata con la semplicità, la sobrietà, la veracità e la solidarietà. Nelle loro utopie culturali che si aggiungono ai progetti di vita di altri gruppi sociali, i popoli indigeni invitano l’umanità a sospendere la marcia verso l’abisso ecologico e ad abbandonare la prigione delle necessità alienanti che emergono dal piacere dell’accumulazione e dell’accelerazione. I popoli indigeni dell’Amazzonia invitano tutti quelli che parlano in nome del vangelo di Gesù, a trasformare i sogni di libertà, prossimità e fraternità in «nuovi cammini» della loro pratica cristiana. «Nulla può essere salvato senza essere trasformato, nulla che non abbia ancora attraversato il portale della sua morte» (T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004). I popoli indigeni ci aiutano ad accompagnare «il sistema che uccide» e la nostra stessa ragione coloniale e neocoloniale al «portale della loro morte». Possiamo intendere la presenza indigena nelle nostre società come la presenza degli ospiti nella tenda di Abramo, dove annunciano la nascita del figlio che nascerà dal ventre sterile di Sara (cf. Gen 18).
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