01/07/2024
562. UNA QUESTIONE DI SPORT di Lincoln Harvey
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Mentre si svolgono gli Europei di calcio in questa estate 2024, con le olimpiadi di Parigi ormai prossime ad iniziare, proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori una riflessione sullo sport e sul suo valore e significato nella vita cristiana. Il testo è tratto dall’Introduzione all’opera Breve teologia dello sport di L. Harvey (Gdt 377).

 

 

 

Calcio, ti adoro!

 

Adoro quando l’Arsenal gioca in casa! Sabato scorso non ha fatto eccezione. Prima mi sono trovato con i miei amici in un pub della zona. Abbiamo discusso della formazione iniziale della squadra, passato in rassegna gli avversari e accolto fiduciosamente le allettanti previsioni di vittoria. Poi, abbastanza in anticipo sull’orario, come atomi agitati nel vortice di un ciclone abbiamo lasciato il pub per unirci agli altri sessantamila tifosi che si stavano incamminando verso il campo da gioco. In mezzo ad un mare di cappelli, sciarpe e di magliette con gli stessi colori di quelle dei giocatori, abbiamo marciato sotto un tunnel ferroviario – mentre tutta la colonna ripeteva “Armata rossa, Armata rossa”, cadenzando e facendo riecheggiare le parole – e abbiamo oltrepassato venditori di locandine da collezione, di pubblicazioni per i tifosi e di ogni sorta di mercanzie, prima di raggiungere infine la strettoia, strapiena da scoppiare: uomini della sicurezza, steward, lenti tornelli dal sordo rumore metallico. E poi, finalmente, dentro: il terreno di gioco rilucente e brillante, il frastuono titanico, i giocatori che escono dagli spogliatoi, il volume che aumenta, il fischio dell’arbitro, il calcio d’inizio della partita. Football, ti adoro!

 

Ad essere onesti, la partita non è stata niente di speciale. Una strenua resistenza della squadra avversaria ha tentato di schiacciare la nostra creatività per proteggere il pareggio a reti inviolate, adottando una tattica sistematica di sterile rallentamento del gioco, di continui falli e di perdita strategica di tempo prezioso. Ciononostante, la partita ha sprigionato ugualmente la sua magia. Il tempo e lo spazio si sono trasformati in puro divertimento, l’intensità della vita – compressa in qualche modo dentro quei 90 minuti – si è dispiegata lungo il campo di smeraldo, mentre mi ritrovavo sospeso in momenti di ansia e di tensione, a mille miglia dalle mie preoccupazioni, a mille miglia dalle cose che mi stanno più a cuore: l’immediatezza del gioco in qualche modo mi afferrava e mi assorbiva con tutti quei continui colpi di scena, con i movimenti veloci e guizzanti e con i passaggi ingegnosi e rapidi che amalgamano e aprono il gioco, liberi e non del tutto calcolati... Ah, il calcio: non c’è proprio niente come il calcio!

 

La partita è finita poco dopo e sono stato trasportato di nuovo, in un vagone della metropolitana stipato fino all’inverosimile, nello spazio compresso della vita quotidiana. Ma, mentre i ventidue giocatori si cambiavano negli spogliatoi, vestendo abiti firmati prima di salire in splendide auto per raggiungere magnifiche ville, mi sono ritrovato a chiedermi di che cosa fossi stato testimone. Non era stato prodotto alcunché, non era stato mietuto nulla. La partita era semplicemente iniziata ed era semplicemente finita: un evento fugace che non lasciava alcun segno nel mondo in cui viviamo. Ovviamente, grazie alla vittoria l’Arsenal si ritrovava adesso tre punti in più in classifica. Ma quei tre punti – da celebrare comunque – non avevano alcun valore reale al di là dell’universo fine a se stesso costituito dal campionato in cui giochiamo. Sapevo anche che i giocatori erano diventati più ricchi, mentre i miei amici ed io eravamo diventati un po’ più poveri, ma le finanze distorte del gioco professionistico non sono lo scopo del gioco stesso: il denaro è secondario, al massimo è un fattore ausiliario.

 

Ed è stato così che, pigiato in quel vagone, un’ondata di nichilismo mi ha pervaso: le partite sono senza senso, non portano a niente, non hanno alcuno scopo. Eppure, per una qualche strana ragione, questa consapevolezza non mi disturbava; anzi, mi faceva sentire ancora meglio.

[…] Il calcio è lo sport più popolare al mondo, come si dimostra ogni quattro anni quando si svolgono i Mondiali, la Coppa del mondo targata FIFA. Più di duecento paesi competono per un posto in questo torneo, che dura un mese e che culmina nella finale della Coppa del mondo, dove due squadre gareggiano per il celebre trofeo d’oro. Questa particolare partita viene trasmessa dal vivo in più di duecento paesi, con più di un miliardo di persone che la guardano in televisione. Si valuta che in più del 90% delle case dotate di televisore ci si sintonizzi su questa finale. Ciò mostra che la popolarità del calcio è globale. Ma cos’è che rende così popolare questo particolare gioco?

 

Quando ci si riflette, la risposta non è ovvia. Spogliata dello strombazzamento pubblicitario, degli investimenti e del sovreccitamento emotivo che la attorniano – ridotta alle sue parti essenziali, per così dire – la finale dei Mondiali è poco più di ventidue uomini impegnati, di concerto con alcuni e in competizione con altri, a cercare di far avanzare un oggetto sferico dai colori brillanti (storicamente si trattava nientepopodimeno che di una vescica di maiale), lungo un curatissimo prato, spingendolo al di là di una sottile striscia bianca segnata a terra fra due pali verticali, chiusi all’estremità superiore da una sbarra, a cui è appesa una rete. Tutto qua. Nient’altro.

 

 

Perché la gente ama lo sport?

 

E allora perché un miliardo di persone si dovrebbe sintonizzare su questa manifestazione sportiva? E non c’è solo il calcio. Potremmo parlare altrettanto facilmente di un sacco di altri sport. […] Ma la domanda rimane: perché la gente ama lo sport? 

 

Proprio come l’agricoltura, l’edilizia e la sanità sono connesse alla sopravvivenza, che non lo sia magari anche lo sport? L’ardimento fisico, per esempio, potrebbe essere collegato alla nostra preparazione alla battaglia, a significare – come disse una volta George Orwell – che lo sport moderno è semplicemente «una guerra senza i fucili», qualcosa che soddisfa la violenza rimossa che è ancora latente in tutti noi. Oppure potremmo vedere le cose in un altro modo, avvertendo che lo sport è un residuo fossile di qualche antico rituale in cui i nostri antenati avanzavano richieste agli dèi, impetrando le loro benedizioni nel corso dell’esistenza così da poter sopravvivere fra minacce e paure. Per parafrasare Orwell in un altro contesto, forse lo sport è semplicemente «una religione senza i sacrifici»? Ma unire in qualcuna di queste maniere i puntini del disegno nascosto sarebbe un errore. Per quanto entrambe le risposte – la guerra e la religione – siano vicine all’aver ragione, sono anche estremamente sbagliate. In effetti puntano il dito sull’oggetto giusto, ma nella maniera sbagliata.

 

Lo sport ha a che fare in tutto e per tutto con la nostra identità più profonda, ma è un’identità molto più fondamentale del corrotto desiderio di sopravvivenza vuoi attraverso la violenta battaglia vuoi mediante la contrattazione religiosa. Lo sport è avere a che fare con la nostra autentica natura, è avere a che fare con ciò che siamo davvero: è una questione legata al nostro essere creature.

 

[Si tratta dunque di] comprendere il nostro amore per lo sport attraverso un esame della nostra identità più fondamentale come creature, come esseri creati. L’esame che qui offriremo – come qualsiasi spiegazione – ci richiederà di guardare allo sport da un’angolazione particolare. Questo non per dire che si tratta di argomentazioni scritte dal punto di vista di un tifoso dell’Arsenal, anche se questo è vero. È casomai per riconoscere che il libro è scritto dalla prospettiva di un cristiano.






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