È parte integrante del nostro immaginario l’associazione fra il verbo “stare” e il sostantivo “madre”: e subito riprende forma, ai nostri occhi, la scena giovannea “sotto la croce”. Il celebre componimento del XIII secolo attribuito a Jacopone da Todi e fin da subito messo in musica, lo Stabat mater, appunto, non è che una delle testimonianze più note di questo sentire cristiano divenuto espressione culturale alta. Lo stesso verbo, però, può essere declinato secondo diverse prospettive, non solo… dolorose. E allora “stare” dice un capolavoro di resilienza, una grandissima dignità e fermezza sostenute da una fede che resta salda proprio quando viene messa a dura prova.
Partendo dal vissuto più concreto di una mamma che prepara alla vita, ci illustrano tutto questo le righe che seguono, estratte dal libro Gesù in relazione, scritto a quattro mani da Maria Teresa Zattoni e Giulio Michelini: fresco di stampa per i tipi di Queriniana. Buona lettura e tanti auguri a tutte le mamme!
Una nascita straordinaria
Era stata una nascita straordinaria, incomprensibile, inaspettata: lei, vergine, con un bambino in grembo. E un marito che diventa custode del bambino e gli dà il Nome. Forse si aspettava qualcosa di speciale da questo bambino, e invece lui impara a camminare e a parlare come tutti i bambini. Eppure lei stava ferma sull’Annuncio, non se lo era inventato lei. Quando qualcosa di straordinario accade nella nostra vita e poi tutto continua come prima, ci lasciamo seppellire nella quotidianità, nel grigiore; e dimentichiamo la Luce che pur avevamo visto. Lei, no. Lei tiene fermo l’Evento, non lo nasconde, non lo seppellisce. Stava.
Il bambino cresce, si fa adolescente, giovane adulto, come tutti. Impara il mestiere di suo padre. Come tutti. Forse lei si era abituata ad avere questo figlio “bello” in casa, così mite e tranquillo. Promettente. Forse diceva: «Non me lo ruba nessuno». Eppure teneva nel suo cuore l’Evento. Stava.
Gesù ormai è un adulto in piena maturità: esce di casa, si mette a predicare «Il Regno e qui», compie miracoli, la gente lo segue. Si crea dei nemici nell’establishment. Forse per un attimo è stata trascinata dai parenti a cercarlo: «Riportiamolo a casa, sembra impazzito… In che guai si è messo? Salviamolo!». Ma lui dice: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? […] Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 12,48-50). E lei non lo cerca più. Stare è fare la volontà di Dio.
Ma questo figlio è solo per le strade della sua terra. E lo accusano di essere dalla parte del demonio; hanno le pietre in mano. E lui è solo, sempre più solo: proclama di essere disceso dal cielo, di essere figlio di Dio. Le autorità religiose non gli credono, vogliono farlo fuori: è pericoloso. E lei, la madre, non si alza a difenderlo, non dice: «Lui ha ragione, lui è il figlio dell’Altissimo, vi dico io come sono andate le cose!». Non testimonia per lui, non lo “salva”, non corre in suo soccorso, non si butta a difenderlo. Forse è il suo momento più difficile, più tremendo: lasciare che il figlio faccia la sua strada, anche se non lo capisce. Ma perché questo figlio non usa il suo potere per far fuori quelli che lo accusano, lo disprezzano, tramano contro di lui? Eppure lei sapeva come stavano le cose! Ma non si intromette. Ha fiducia in lui anche quando lo vede fallire. E lo vede sempre più solo. Stava.
La via della croce
E il fallimento si delinea sempre di più come via della croce, la più ignominiosa. Forse lei sperava in quelli che lui aveva beneficato, sperava nei suoi amici: prenderanno le sue parti, lo difenderanno. E invece scappano, lo abbandonano: sono più interessati a salvarsi la pelle. Allora lei sta sotto la croce. È il momento in cui non può più fare niente per lui, il figlio. È assolutamente impotente, inutile. Per una madre essere inutile mentre il figlio soffre e la più grande delle prove. La madre sa che darebbe per lui il suo sangue, la sua vita. Pur di salvarlo. Pur di sottrarlo alla sofferenza atroce che sta subendo. Eppure non dice: «Non c’è niente da fare». Non se ne va. Sta.
E non le importa più di chi ha torto o ha ragione, non importa più se lei “capisce” o no: lei sa soltanto che il figlio soffre. E lei non può fare niente: è la prova più grande, per una madre. Non può nemmeno pensare che il suo stare lì sia in qualche modo di aiuto: lei sa soltanto che sta, impotente.
E si sente regalare un figlio: «Donna, ecco tuo figlio!» (Gv 19,26). Il Figlio sulla croce è così “spogliato” di tutto che regala persino sua madre. E lei sta con questo figlio. Di nuovo, non fugge, non si rinchiude nel suo innominabile dolore, nel fatto che ha diritto di piangere perché le è stato rubato il Figlio annunciato.
Nessuno dei quattro vangeli dice che il Risorto per primo si è mostrato a sua madre. Lei, nel suo stare, ha deposto tutti i suoi diritti. Ci sono altre donne in prima linea, quelle del gruppo dei discepoli che hanno trovato la tomba vuota. Forse ha sorriso a queste donne che annunciano l’incredibile: lo hanno visto! Lei ha deposto il suo primato: non reclama diritti, non si mette in prima fila, è felice dell’amore di cui gode il Figlio: stabat mater.
E infine sta con i nuovi figli, nella Pentecoste. Non rinfaccia nulla, non li rimprovera perché sono fuggiti, non l’hanno difeso, non l’hanno capito. C’è posto anche per loro nella sua maternità. Anzi, è a questa chiesa nascente che lei regala il mistero dell’Annuncio. E Luca ce lo racconta.
Una madre che sta
Maria ci insegna che il compito primario della maternità e lo stare. Non: esagitarsi, intromettersi, proclamare le proprie priorità, i propri crediti. E neppure sottrarsi, allontanarsi, prendere come scusa la propria impotenza e inutilità. Ogni figlio e ogni figlia hanno bisogno di una madre che sta – non fugge, non critica, non li difende a modo suo e, soprattutto, crede di capirli più degli altri. Una madre che sta è un capolavoro. Come Maria.
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