15/05/2024
559. UNA CRISTOLOGIA DELL'EREDE PER TEMPI DI CRISI ECCLESIALE di Massimo Faggioli
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Proponiamo di seguito ampi stralci della Prefazione, firmata da Massimo Faggioli, all’edizione in lingua inglese dell’opera di Leonardo Paris, L’erede, fresca di stampa per i tipi di Brill.


 

Certi libri intercettano il proprio lettore mentre sta attraversando una situazione personale particolare e riescono così a comunicargli qualcosa capace di risuonare con forza, ben al di là di quanto ci si possa aspettare da un testo di teologia. Negli ultimi anni, per quanto mi riguarda – come uomo e membro della comunità ecclesiale, sociale e politica – sono passato dallo stato di sposo e padre, allo stato di figlio che deve anche prendersi cura dei genitori anziani, e ho trovato una guida illuminante in questo libro di cristologia, scritto dalla prospettiva dell’“erede”. Per questo motivo, sono particolarmente grato a Leonardo Paris per avermi chiesto di riflettere sul suo volume in questo periodo di prova.

[…]

Il libro di Paris, però, è importante per motivi che vanno ben al di là della mia situazione personale e che danno all’Erede la capacità di parlare in maniera potente. Esso, in particolare, fa luce, in maniera indiretta ma ineludibile, su almeno quattro questioni emergenti e urgenti che, ai miei occhi di ecclesiologo, sono cruciali sia nella chiesa sia nella società in generale.


1. Mettere il Figlio al centro

La prima questione è la tragedia degli abusi nella chiesa – quelli sessuali e l’abuso di autorità e di potere. Indirettamente, L’erede ci fornisce uno strumento importante per dispiegare la cristologia a fronte dalla più grave crisi della chiesa (non soltanto cattolica) a partire dal XVI secolo, perché corregge la tentazione di contare solo su misure legali e amministrative nei confronti di una crisi che non è solo disciplinare, ma anche teologica e spirituale. Scrive Paris: «Non c’è luogo così oscuro, così ferito, che non possa essere vissuto da figli e da fratelli. Per fare questo [Gesù] ha dovuto metterci del suo, ha dovuto esporsi, in quanto la realtà non diceva affatto parole di figliolanza e fratellanza. Non si è trattato di una constatazione, ma di una presa di posizione rispetto al reale. L’azione e la parola libere di Gesù si sono imposte sugli eventi, cambiandone la prospettiva. Più gli eventi sono precipitati e più si è fatta forte l’esigenza di dare e dire agli eventi un senso che immediatamente non avevano e non dicevano». L’apparente insignificanza degli abusi nella chiesa può condurre a un nuovo modo d’intendere la comunità ecclesiale; ma questo nuovo modo rimane sfuggente, senza una cristologia che eviti la tentazione di identificare le vittime di abusi con Gesù in quanto vittima. Ciò è fondamentale in un’epoca nella quale le narrazioni sulla chiesa corrono il rischio di essere soffocate in una sorta di dispositivo assolutizzante, in cui l’attenzione esclusiva sulle vittime visibili oscura gli oppressi – e con ciò, oscura la lotta e l’anelito di liberazione di tutti.

La tentazione di restare fermi alle ferite della vittima è una delle scorciatoie da cui L’erede ci mette in guardia, assieme alla tentazione di una teologia dell’infanzia che respinge i figli in uno stato di natura originario. Scrive Paris: «Rispetto all’Età del figlio-bambino si dovrebbe riconoscere la peculiarità dell’età infantile, senza trasformarla in un feticcio. Sia da un punto di vista educativo che religioso ci possono essere dei rischi. La passività assoluta dei bambini, oltre ad essere falsa, non può essere mitizzata come condizione ideale di fronte a Dio. Il Padre non desidera figli infanti e dormienti». L’apporto di una cristologia dell’erede ci aiuta ad affrontare una massiccia svolta socio-culturale rispetto a come le istituzioni (ecclesiali e non solo) trattano l’infanzia. «I nostri contemporanei, o meglio tutti noi, non siamo caduti in un baratro morale, stiamo semplicemente affrontando crisi e sfide tipiche dell’Età del Figlio, tipiche dei figli che diventano adulti. Quello che avrei voluto mostrare è come Gesù stesso abbia affrontato questo decisivo passaggio».

L’Erede ci aiuta a mettere il figlio al centro, in un momento in cui l’eredità della tradizione cristiana sembra a molti dei nostri contemporanei l’eredità di un sistema corrotto, con più perdite che guadagni. «La scelta della categoria di eredità voleva servire a mettere a fuoco questa condivisione reale del potere che mette al centro i figli. Se parlare di eredità significa parlare di un potere consegnato, la croce e la risurrezione ridefiniscono questi concetti perché dicono di un dono senza ritorno, e così ridefiniscono per sempre tanto il potere, quanto l’eredità».


2. Una cristologia del potere

Il secondo grande contributo offerto da L’erede è il discorso teologico ed ecclesiale su cristianesimo e potere – non limitatamente all’ambito ecclesiale. La prospettiva dell’eredità ci aiuta ad assegnare alle logiche meramente politiche del potere (la democrazia nella chiesa, la separazione dei poteri, pesi e contrappesi ecc.) il ruolo che si meritano, senza esporre la tradizione cristiana alle carenze e alle contraddizioni connaturate a qualsivoglia filosofia politica, comprese quelle che ispirano l’ordine costituzionale liberale.

Ciò ha delle ricadute immediate per il discorso sulla sinodalità nella chiesa, e questo contributo è ancor più importante perché ci troviamo a recuperare un’antica tradizione sinodale, ma siamo anche in una fase costitutiva del tutto inedita per quella stessa tradizione. Paris lo sottolinea con queste parole: «Non sarà possibile trovare un modo decente di vivere insieme a livello politico, senza riconoscere la natura condivisa del potere e individuare forme concrete per esercitarlo. Questo è particolarmente evidente all’interno della chiesa. Non è più possibile citare Paolo – “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28) – e appellarsi alla sinodalità, senza riconoscere che questo significa trovare forme storiche concrete affinché a ciascuno sia riconosciuto il potere che il Padre ha voluto affidargli. Parlare di sinodalità infatti, anche quando è il papa a farlo, non può essere la concessione di un potere assoluto. Non si tratta di un principio umanistico, ma teologico. Le differenze fra preti e laici, uomini e donne, giovani e vecchi, perfino fra cristiani e non cristiani, sono sempre sottomesse al fatto che tutti siamo figli di un Padre che ha voluto condividere con ciascuno il suo potere».

Paris ci introduce in una prospettiva cristologica sul potere che ha molto da dire non soltanto nei discorsi contemporanei intra-ecclesiali, ma anche a tutti coloro che assistono alla riconfigurazione e alla dislocazione del potere nelle comunità politiche: «Il Padre condivide il suo potere. Con tutti. E configura ogni potere come condiviso. Chi vuole esercitare il potere – e ognuno esercita potere, perché a ognuno Dio dà potere – è portato sul ciglio di questo riconoscimento. La sua origine è condivisa, perché ciascuno, come figlio, ha ricevuto da altri il proprio potere. […] Chiunque eserciti il potere lo fa pertanto di fronte a Dio, di fronte all’origine di ogni potere. Chi non sa, o non vuole, vivere il potere come condiviso, si troverà ad esercitarlo contro la sua origine». Questa cristologia del potere possiede il potenziale per aprirci gli occhi di fronte a una visione della sinodalità che tradisce un’ingenua infatuazione per le dinamiche mondane e, allo stesso tempo, di fronte alla spiritualizzazione del potere nella chiesa, che servono spesso da giustificazioni per lo status quo.


3. Una cristologia relazionale

Il terzo punto su cui L’erede getta una luce importante è sull’impatto delle “politiche identitarie” nella Chiesa e nella teologia. L’ottica dell’eredità si concentra sulla relazionalità, che è un contributo assai necessario per i discorsi teologici sull’identità – identità sessuale e di genere, uguaglianza, soggettività. Un primo concetto importante è quello di molteplicità e di interconnessione delle relazioni: «Il tratto forse più scandaloso sta nel fatto che Dio non si affida soltanto alla relazione, ma alle relazioni. Ovvero si affida a relazioni che non sono soltanto sue. Negli eventi della passione il nome del Padre non era legato solo alla relazione che Gesù aveva con lui, ma anche alle diverse relazioni che hanno coinvolto il Figlio». Questa cristologia relazionale (di una relazione non esclusiva con il Padre) ci libera dalla tentazione di concepire l’identità (sia individuale sia collettiva) come indipendente, assoluta e in contrapposizione: «Queste relazioni non sono concessioni, ma la conferma che l’identità di Dio è reciproca e genera identità reciproche».

Il discorso teologico contemporaneo sull’identità è allo stesso tempo un passo avanti verso il riconoscimento della dignità inviolabile dell’essere umano, ma soffre anche la perdita di connessioni che si accompagna, ed è conseguente, a delle opportunità tecnologiche di connessione senza precedenti. Questa attenzione alla relazione tra il Padre e l’Erede, nel contesto però di una più ampia capacità relazionale di quest’ultimo, ci fornisce un avvertimento: «Se non siamo capaci di vivere da fratelli sarebbe stato meglio che tutto questo non fosse stato. Sarebbe stato meglio essere figli di un servo, o meglio figli di nessuno, senza niente da dividere e niente da rischiare. Cosa decidono di fare uomini e donne è incerto, quello che è certo è cosa ha deciso di fare e di essere Dio».

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Allo stesso tempo, L’erede ci aiuta ad evitare la recrudescenza della metafisica teologica, che vede tutto come necessariamente inserito in un ordine gerarchico da replicare in un sistema religioso ed ecclesiale immutabile: «Ereditando il Regno ereditiamo uno spazio caratterizzato dalla benedizione, dall’autonomia nelle relazioni, dalla generatività. La metafisica cristiana disegna questo spazio aperto perché questo è il luogo in cui possono darsi figli e fratelli, il luogo della possibile realizzazione del desiderio paterno».


4. Una teologia della tradizione cristiana

La quarta questione, infine, sulla quale getta luce questo volume è sulla teologia della tradizione cristiana. Il collasso del senso della tradizione nel cristianesimo è più profondo di una interruzione nei meccanismi sociali e istituzionali di trasmissione e di rielaborazione di quanto si è ricevuto, e ha a che fare con una comprensione del sé che non è relazionale, o che lo è solo a certe condizioni. Così scrive Paris: «Per Gesù, un rapporto immediato con sé, che prescindesse dal Padre e dai fratelli, non sarebbe stato la realizzazione di un sogno, ma lo sprofondare in un incubo.La speranza di potersi generare da sé nell’immediatezza di sé è una cattiva speranza. Non si può nemmeno definire un miraggio, perché un miraggio rappresenta qualcosa di buono, seppur illusorio. Qui invece siamo di fronte a qualcosa di peggio: è l’oggetto stesso della speranza che è sbagliato. Non si è liberi nell’immediatezza di sé, si è soli. Non si ama davvero mirando all’immediatezza con l’altro, ma lo si divora o se ne è divorati».

Non c’è tradizione senza comunità e, in un senso più profondo, senza fraternità, che deve puntare alla fine della tradizione: «L’orizzonte escatologico della fraternità cristiana non è rappresentato da una massa di individui che amano solo il Figlio, ma da un insieme corale di relazioni reali, in cui l’identità e la libertà di ciascuno sono messe in gioco in relazioni singolari».

Anche questa dimensione relazionale del sé che emerge da una cristologia dell’Erede è molto importante nei nostri discorsi sul dialogo interculturale in una chiesa globalizzata. Questo libro, con la sua proposta cristologica, ci ricorda di comportarci da adulti nell’approcciarci alla tradizione in questo tempo di cambiamento e di transizione verso un cristianesimo multiculturale: «Questa responsabilità adulta comporta che l’eredità ricevuta sia a sua volta trasmessa. Le forme e le forze di questo processo sono affidate a noi, alla nostra libertà. Quello che abbiamo di fronte è uno spazio aperto, tanto per la nostra propria figliolanza, quanto per la possibilità dei figli di domani.Una teologia dell’eredità è una teologia della trasmissione, una teologia della tradizione. Qualcosa che è stato vita per noi deve diventare vita per altri. E vanno custodite le forme “tradizionali” che garantiscono la trasmissione della forza che rende figli. Solo l’adolescente pensa di poter inventare il futuro partendo da oggi – ed è scusabile perché in fondo è arrivato solo ieri. L’adulto avverte il peso di avere ricevuto delle forme che hanno permesso a lui di vivere da figlio e la responsabilità di trasmettere tutto questo in modo vitale».

Questo libro ha qualcosa di davvero importante da dirci. Da un lato, dobbiamo accettare il fatto che alcune parti della tradizione dottrinale e magisteriale della chiesa sono già state liquidate, e non semplicemente aggiornate o sviluppate. Dall’altro, qualunque percorso che voglia essere realistico e sostenibile verso uno sviluppo dottrinale, deve rifiutare le prospettive di una dissoluzione della tradizione, perché essa costituisce anche un’eredità.



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