È ora disponibile nelle librerie l’ultimo volume uscito nella prestigiosa collana «Biblioteca di teologia contemporanea», il 211. Ha per tema il processo di riforma della chiesa cattolica. Propone con coraggio e convinzione di interpretarlo in chiave prettamente sinodale. In effetti, sulla scorta degli impulsi che vengono da papa Francesco, la chiesa sta recuperando la sinodalità come elemento essenziale della sua identità. Ne va di una conversione che è richiesta a tutte le istanze, per favorire una maggiore sinergia e costruire un consenso pastorale e teologico in forma sempre più partecipativa. Ora, la sinodalità è un principio importantissimo, ma esiste il rischio di ridurla a un tema teologico per congressi e studi accademici: è quanto mai necessario, invece, implementarla in realizzazioni ed esperienze concrete e visibili. Ecco perché proponiamo un estratto dal cap. 15 dell’opera fresca di stampa, nel quale il vescovo di La Guaira racconta una esperienza sinodale riuscita, svoltasi nell’arco di sei anni: il concilio plenario del Venezuela. L’autore, mentre evidenzia i frutti raccolti grazie alla celebrazione di quel processo sinodale nella chiesa locale, fornisce importanti stimoli e un incoraggiamento sia per il sinodo dei vescovi a livello di chiesa cattolica universale, sia per il sinodo della chiesa che è in Italia.
La chiesa cattolica sta recuperando la sinodalità come elemento essenziale della sua identità. Papa Francesco ci invita a una conversione sinodale di tutte le istanze in direzione di una maggiore sinergia, a trovare nuove strade che il Signore apre alla chiesa, a costruire un consenso pastorale e teologico. Uno dei rischi che corriamo è quello di ridurre la sinodalità a un tema teologico per congressi e studi accademici: è invece necessario esprimere la comunione teologica in realizzazioni ed esperienze concrete e visibili. In questo senso, l’obiettivo di questo contributo è quello di condividere una buona esperienza sinodale: il concilio plenario del Venezuela, svoltosi nell’arco di sei anni.
La sinodalità è uno spirito e una spiritualità. Come spirito deve incarnarsi in strutture visibili e verificarsi in esperienze pastorali concrete. Una delle migliori espressioni sono i concili plenari, perché mirano a decisioni normative per l’insieme delle chiese particolari di una conferenza episcopale nazionale[1]. Un sinodo diocesano o universale, nella legislazione attuale, si conclude in propositiones che aiutano il vescovo o il papa con dei consigli; un concilio prende invece delle decisioni. In altre parole, in un sinodo c’è un solo legislatore, mentre un concilio particolare «ha potestà di governo, soprattutto legislativa, così da poter decidere […] ciò che risulta opportuno per l’incremento della fede, per ordinare l’attività pastorale comune» (can. 445).
Condivido allora le esperienze vissute nel concilio plenario del Venezuela perché i risultati conseguiti, compresi i difetti e gli errori in cui siamo incorsi, possono aiutare altre conferenze episcopali che vogliano arrischiare il rinnovamento pastorale attraverso questa grande istanza che sono i concili provinciali e, soprattutto, i concili plenari. Questo può permetterci di superare la tentazione dell’atomizzazione pastorale, della chiusura in una chiesa particolare che si impoverisce non confrontandosi con altre chiese sorelle e seguendo solo i criteri di un vescovo particolare, nell’assolutizzazione del particolare. Lo Spirito del Signore risorto che fa nuove tutte le cose ci chiede una conversione delle mentalità, un rinnovamento delle istanze, una riforma delle strutture, a partire da una spiritualità di comunione missionaria e sinodale.
1. Perché un concilio plenario in Venezuela?
L’iniziativa di tenere un concilio plenario ha cominciato a prendere forma nel 1994 come «una riaffermazione della nostra fede, un esame delle sfide che più ci riguardano, una pastorale di grande incoraggiamento»[2]. Durante una visita ad limina apostolorum, il presidente della conferenza episcopale venezuelana, Ramón Ovidio Pérez Morales, espose questa idea a papa Giovanni Paolo II come preparazione della chiesa venezuelana ai cinquecento anni dall’inizio della sua evangelizzazione e al grande giubileo dell’incarnazione[3]. Infine, nel luglio 1996, la conferenza episcopale venezuelana approvò la celebrazione del concilio e ne elesse presidente lo stesso vescovo Pérez Morales, affiancato dal vescovo Mariano Parra come segretario generale. L’approvazione canonica da parte della Sede Apostolica trasformò il concilio in una missione affidata alla chiesa in Venezuela dal successore di Pietro.
Il 10 gennaio 1998 la conferenza episcopale venezuelana, pubblicando la lettera pastorale collettiva Guiados por el Espíritu santo [Guidati dallo Spirito santo], ha convocato il primo concilio plenario della chiesa in Venezuela. Dopo un’introduzione, la lettera spiega cos’è un concilio plenario, ne definisce il significato e l’obiettivo, delinea le fasi del processo conciliare, invita alla partecipazione, confessa che il concilio è opera dello Spirito santo e termina invocando Maria di Coromoto come Stella della nuova evangelizzazione[4].
Erano previste due fasi preliminari: la fase antepreparatoria (1996-1998), che consisteva in una campagna di informazione e motivazione; la fase preparatoria (1998-2000), in cui si analizzavano i problemi o i temi più importanti per la vita e la missione della chiesa in Venezuela. Un’importante pietra miliare in questa fase è stata l’eucaristia celebrata presso la croce di S. Clemente nel 1998, nella città di S. Ana de Coro, alla presenza di tutti i vescovi, come ricordo dei cinquecento anni dall’arrivo del cristianesimo nelle terre venezuelane. Quella croce ha una storia secolare, poiché ha segnato l’inizio dell’evangelizzazione del popolo indigeno caquetío: alla sua ombra fu celebrata la prima messa, il 26 luglio 1527, a Coro, che sarebbe poi diventata la prima diocesi del Venezuela nel 1531.
La fase celebrativa del concilio è iniziata il 26 novembre 2000, solennità di Cristo Re, alla presenza del card. Jorge Medina Estévez, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, inviato speciale del santo padre per la celebrazione inaugurale. Non è stato deciso quanto sarebbe durato il concilio: lo Spirito santo avrebbe man mano illuminato il cammino. Alla fine, ci sono state sei sessioni annuali, dal 2000 al 2005, e la chiusura è avvenuta il 7 ottobre 2006, festa di Nostra Signora del Rosario, dopo aver ricevuto la recognitio dal santo padre come segno di comunione con la chiesa universale. Quindi dieci anni di concilio, di apprendimento sinodale, di esperienze spirituali, il cui significato vorrei condividere nelle pagine seguenti.
2. Esperienze sinodali nel concilio venezuelano
Vorrei dedicare questa sezione a descrivere le esperienze sinodali che abbiamo avuto durante il concilio plenario del Venezuela.
2.1. Chiesa cattolica: assemblea di tutti
La prima esperienza che abbiamo fatto è stata l’universalità: la nostra chiesaè cattolica perché è prima di tutto un’assemblea di tutti. Molte persone hanno partecipato alle sei sessioni del concilio. Alla prima sessione hanno partecipato per esempio 56 vescovi, 96 sacerdoti del clero diocesano e 39 sacerdoti religiosi, 2 diaconi permanenti, 2 fratelli religiosi, 24 religiose, 71 laici (di cui 27 donne e 44 uomini); erano altresì presenti 9 periti conciliari, 21 esperti e 13 osservatori. I numeri sono rimasti regolari, anche se solo alla prima e all’ultima sessione sono stati invitati rappresentanti di altre chiese.
A causa del suo stesso carattere plenario, tutti gli organismi e settori ecclesiali erano rappresentati al concilio: vescovi, sacerdoti diocesani e religiosi, rettori di seminari, religiose e membri di istituti secolari, movimenti di apostolato secolari, laici associati e non associati. Alcuni sono venuti come rappresentanti delle diocesi e altri sono stati invitati dalla conferenza episcopale venezuelana. Si è trattato di un’assemblea conciliare plurale nella sua composizione.
Tra i partecipanti c’erano persone semplici e appartenenti a ceti popolari, indigeni, così come professionisti: medici, avvocati, ingegneri, educatori, esperti in comunicazioni sociali, rettori di università… Il concilio, in questo senso, è stato un riflesso dell’universalità della nostra chiesa: persone molto diverse non solo per vocazione, ma anche per età, spiritualità, mentalità e formazione. Il 20% dell’assemblea era composto da vescovi: questa cifra è molto significativa, se si considera che un concilio, canonicamente parlando, è una riunione di soli vescovi.
2.2. Superare le paure e i pregiudizi iniziali
Il concilio è, finora, l’assemblea più qualificata che sia mai stata sperimentata nella chiesa in Venezuela. Come ogni cosa nuova, al concilio abbiamo vissuto un’atmosfera caratterizzata da una certa paura iniziale, da pregiudizi, da dicerie diffuse e persino da diffidenza. Nella prima sessione sono emerse molte paure, tra cui quella dei vescovi nei confronti dei presbiteri e viceversa. Gradualmente e sempre di più le assemblee si sono svolte in un clima di grande libertà e di partecipazione fra uguali. Per alcuni i confini tra il rispetto dell’autorità e la libertà di espressione da parte dei presbiteri non erano sufficientemente determinati.
Né erano assenti i timori fra i preti diocesani da una parte e i religiosi e le religiose dall’altra: pregiudizi derivati principalmente dall’ignoranza reciproca. Formazioni e mentalità diverse tenevano a distanza gli uni dagli altri. Questo si è reso evidente nella prima sessione, quando i religiosi hanno presentato una proposta metodologica alternativa che implicava un altro percorso. Al di là delle motivazioni addotte, molti hanno fatto ricorso ad argomenti ad hominem, che rivelavano diffidenza e persino una certa ostilità.
C’erano anche pregiudizi tra i diversi movimenti apostolici, animati da carismi e spiritualità differenti. I pregiudizi nascevano da una mancanza di conoscenza e da una certa competizione e desiderio di protagonismo esclusivo. C’erano infine differenze tra i laici associati e quelli non legati ad alcuna associazione: un numero crescente di laici è attivamente coinvolto in movimenti di apostolato e gruppi organizzati, ma la grande maggioranza dei laici cattolici non è associata e vive la propria fede individualmente, integrati nella propria comunità ecclesiale (o persino senza parteciparvi regolarmente). I primi mostrano grande impegno e visibilità ecclesiale, ma a volte corrono il rischio di arrogarsi la totalità della rappresentanza laicale. Gli altri incarnano piuttosto la testimonianza disseminata nel popolo di Dio, ma forse con poca comunione e sensibilità per sfide più ampie e nuove.
Un pregiudizio che è emerso inizialmente è stato l’eccessivo rispetto per la differenziazione delle categorie secondo una visione di chiesa piramidale, atteggiamento che si è espresso nel «non superare le barriere imposte dal protocollo». Nella prima sessione, infatti, anche la composizione fisica dell’assemblea rivelava le differenze tra le rispettive categorie: nella parte centrale, prima gli arcivescovi e i vescovi, in stretto ordine di precedenza; poi i presbiteri, i religiosi, le religiose; infine i laici. A destra, gli ospiti di altre chiese sorelle. Sul lato sinistro, i periti e gli esperti, che avevano il diritto di parola nei gruppi, ma non nell’assemblea plenaria. Dalla terza sessione in poi questo timore è venuto meno e l’atmosfera è diventata più familiare e meno artificiale, più simile a quella di una chiesa-comunione: eravamo tutti mescolati insieme, senza che questo risultasse irrispettoso nei confronti dei vescovi.
2.3. Alcuni processi: dall’incontrarsi all’amarsi
Durante i sei anni della fase celebrativa del concilio plenario, quelli di noi che hanno partecipato alle diverse sessioni hanno potuto sperimentare diversi processi. Provo a elencarli in sintesi.
Riunirci: la prima esperienza fatta è stata quella di riunirci. I membri del concilio provenivamo da tutti gli angoli del Venezuela, dalle diverse diocesi e vicariati, da nord a sud, da est a ovest. Il giorno dell’arrivo e della registrazione ha significato dare un volto e un colore ai nomi dei partecipanti nelle liste della segreteria: ogni nome era una persona con una storia molto interessante e una ricchezza di esperienze familiari, sociali ed ecclesiali. Le riunioni plenarie, per gruppi, per commissioni, per categorie hanno mostrato una prima realtà di ciò che la chiesa è: un incontro, un’assemblea radunata.
Riconoscerci: quando siamo arrivati ci conoscevamo appena – ed era impossibile che fosse altrimenti, trattandosi di un’assemblea estremamente plurale. A poco a poco, con l’inizio dei lavori del concilio, abbiamo cominciato a conoscerci, condividendo le nostre esperienze, identificandoci e localizzandoci: da dove venivamo, quale chiesa locale, comunità o gruppo rappresentavamo, cosa pensavamo, cosa facevamo. Per amarsi è necessario (ri)conoscersi: aprire la propria persona a quella dell’altro.
Accettarci: il solo conoscersi non implica l’accettarsi. Posso conoscere l’altro come un altro, nella sua differenza, e non accettarlo, non “ri-conoscerlo”. Una delle esperienze più ricche è stata quella di accettare le differenze interne: la chiesa non è, né può essere, un gruppo totalmente omogeneo governato da un pensiero monolitico o egemonico. Non è un partito unico, tipico dei totalitarismi. Lo Spirito santo dà origine a una grande molteplicità di carismi variegati per il bene della comunità. Ci siamo progressivamente accettati nelle nostre differenze.
Condividere: una volta che le persone si accettano, anche nella diversità di opinioni su un argomento, è più facile condividere. Il che non consiste nell’imporre la propria visione delle cose, ma nell’ascoltare cosa pensa l’altro, nel sentire quali esperienze sono più significative, nel cercare l’unità nella diversità, sapendo che sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci separano. Il concilio è stato una grande opportunità per incontrare persone di chiesa e per condividere esperienze spirituali, vissuti, storie, progetti, speranze.
Amarci: a poco a poco, quasi senza rendercene conto, abbiamo cominciato a fare amicizia, a volerci bene, pur rispettando le diversità. Che belle immagini quelle delle ultime sessioni, quando il giorno dell’arrivo abbiamo reincontrato i nostri amici: abbracci, saluti, dialoghi, tutti segni di un grande apprezzamento e di un’amicizia coltivata! Uno dei migliori frutti del concilio è stato quello di riunirci nell’amore di Cristo, come suoi seguaci che vivono in comunione, e insieme si incamminano verso la missione che è stata loro affidata.
2.4. Esperienza di Dio
Un punto importante che vorrei sottolineare è il carattere trinitario che forma la chiesa e che ha ispirato l’atmosfera creata durante le sessioni del concilio. Possiamo dire che da lì si è costituita l’unità nella pluralità.
Umanamente parlando, è davvero difficilissimo mettere insieme tante volontà diverse. Eppure il nostro concilio è stata un’autentica esperienza di Dio. Ci ha riuniti un motivo di fede: la professione del Dio uno e trino, in cui il Padre è l’origine; il Figlio, la Parola che rivela; lo Spirito santo, il legame di amore e di unità. Come chiesa in Venezuela ci proponevamo di formare una grande armonia di molti strumenti, toni, note e suoni, in un unico canto di lode alla Trinità. Era l’impegno a svolgere la missione di evangelizzazione e a costruire l’unità nell’accettazione della pluralità dei doni e dei carismi.
Abbiamo vissuto l’incontro come un’esperienza spirituale, segnata dai momenti di preghiera, dalle eucaristie alla fine della giornata, dalle giornate di discernimento spirituale o di ritiro su temi specifici, dalla recita della preghiera del concilio, da parte di tante persone e comunità cristiane, che hanno accompagnato e sostenuto il processo conciliare.
Quelli di noi che hanno partecipato alle sessioni possono assicurare che non si è trattato di un congresso accademico, di dibattiti su temi intellettuali o di mera pianificazione strategica o organizzativa. Abbiamo vissuto il concilio come un discernimento spirituale, cercando Dio, percependo il suo Spirito e la sua presenza in mezzo a noi, interrogandoci su cosa ci sta chiedendo come individui e comunità.
2.5. Esperienza di essere una chiesa in cammino
Un’immagine della chiesa che mi ha sempre affascinato è quella della “carovana”: la carovana permette a un gruppo di persone di viaggiare attraverso il deserto, superando il clima avverso, le incursioni dei predoni e le minacce delle fiere selvatiche. Nella carovana ci sono molte persone che camminano: alcune vanno avanti, aprendo la strada, la maggior parte sta in mezzo, altre si collocano dietro, in retroguardia, vuoi perché il loro passo è debole, vuoi perché intendono coprire e difendere, vuoi per accompagnare quelli o quelle che camminano più lentamente, vuoi per non lasciare che qualcuno resti in fondo e si perda.
La nostra chiesa assomiglia a una carovana: alcuni stanno davanti, stabilendo il ritmo e aprendo dei varchi, altri seguono le strade aperte, altri stanno più indietro ancora accompagnando quelli che non riescono a tenere il passo. Ci sono alcuni che hanno idee creative e audaci, mostrano atteggiamenti profetici e sono capaci di gesti martiriali. Nella chiesa c’è un po’ di tutto, ma sono i profeti e i martiri che irrigano la chiesa con la loro voce e il loro sangue, e la nutrono di speranza, mostrando che l’orizzonte finale non si identifica mai con la mediocrità della realtà, ma la trascende e la spinge in avanti.
Al concilio abbiamo potuto apprezzare molti limiti e difetti della nostra chiesa, come quando la famiglia si riunisce e vengono alla luce anche i “panni sporchi”. La nostra chiesa è una comunità sia divina che umana: godiamo dell’assistenza e dell’aiuto di Dio, ma siamo umani, pieni di difetti e di peccati. Lì abbiamo conosciuto i punti di forza, ma anche le debolezze della nostra chiesa. Un punto indispensabile di ogni conversione è riconoscere le colpe e iniziare un cammino di purificazione e di rinnovamento. Siamo una chiesa in cammino.
[traduzione dallo spagnolo-venezuelano di V. Salvati]
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[1] Cfr. Codice di diritto canonico, cann. 439-446 (su «I concili particolari»).
[2] R.O. Pérez Morales, Esperanza y compromiso. Discurso en la asamblea ordinaria de la CEV de enero de 1994, in CEV, Carta conciliar 1 (1997) 1.
[3] Cfr. CEV, Carta conciliar 1 (1997) 2.
[4] CEV, Guiados por el Espíritu santo. Carta pastoral colectiva del Episcopado Venezolano, Caracas, 10 gennaio 1998. Cfr. CEV, Carta conciliar 3 (1998) 1-3.