26/11/2013
267. UN AUTORE DA SCOPRIRE Hans Joas: profilo di un outsider di Paolo Costa*
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Joas

L’autore del volume, La fede come opzione. Possibilità di futuro per il cristianesimo, appartiene alla ristretta schiera dei pensatori non prevedibili.

Significativamente, al centro della sua produzione scientifica (che, del resto, non è di facile collocazione nel panorama disciplinare contemporaneo)  troneggia la categoria di creatività, da lui intesa come la manifestazione di una forma di spontaneità situata, tutt’altro che maestosa o melodrammatica: l’ordinaria inventiva richiesta dalla vita di ogni giorno.

D’altro canto, la stessa vicenda personale di Joas potrebbe essere descritta come il precipitato di una serie di risposte originali alle sfide di un’esistenza mediamente travagliata.

L’esito non scontato di questa storia è una creatura quantomeno poliedrica. Un sobrio intellettuale tedesco con una passione sfrenata per la più americana delle correnti filosofiche: il pragmatismo; un sociologo della religione più vicino a Ernst Troeltsch che a Weber, Durkheim o Parsons; un intellettuale engagé che, malgrado la sua amicizia e partnership con Axel Honneth, non ha mai creato un sodalizio stabile con la tradizione della Teoria critica francofortese; un cattolico adulto in un mondo, quello degli studiosi di scienze umane, spesso dominato da forme irriflessive di laicismo; un osservatore acuto della contemporaneità diffidente, però, verso la smania dei dotti degli ultimi tre secoli di presentarsi e autorappresentarsi  come “moderni”; un pensatore capace di coniugare la tradizionale esigenza teutonica di sistematizzare il sistematizzabile con una sensibilità postmoderna  per la contingenza.

Molte di queste qualità idiosincratiche lo avvicinano a un altro protagonista “eccentrico” del dibattito contemporaneo, Charles Taylor che, con il passare degli anni, è diventato uno degli interlocutori privilegiati del sociologo tedesco e la cui riflessione recente sulla secolarizzazione interseca in molti punti le analisi sviluppate con fantasia e rigore in La fede come opzione.

Nato a Monaco nel 1948 e cresciuto in un ambiente cattolico e operaio, con un padre incapace di affrancarsi dalla terribile eredità politica del nazismo e una madre pragmaticamente orientata  verso il futuro  della nuova Germania, Joas ha sviluppato sin dalla giovinezza una dote intellettuale allo stesso tempo preziosa e rara: l’abilità di guardare in faccia la realtà senza rivestirla troppo frettolosamente di schemi dottrinali o, più semplicemente, rassicuranti. In particolare, l’esperienza diretta della povertà e dell’insicurezza dopo la prematura scomparsa del padre (1959) gli ha aperto gli occhi sulle contraddizioni insite nella rinascita economica tedesca e lo ha nel contempo vaccinato contro le illusioni e le rigidità ideologiche di molti suoi coetanei, inebriati dalle attese palingenetiche suscitate dal Sessantotto. Due tratti dello stile di pensiero di Joas che traspaiono in tutti i suoi scritti sono, non a caso, il gusto per il dettaglio e una franchezza priva di animosità. Entrambe le caratteristiche sono la prova di un’energia e una tenacia fuori dal comune, innervate da un sano realismo, che dell’esistente sa apprezzare sia la densità sia la resistenza ai pii desideri e alle comode razionalizzazioni.

Basta nominare questa urgenza di investigare la realtà senza preconcetti  per capire come maturò  nel 1971 la sua scelta di spostarsi dalla sonnolenta Università di Monaco alla Freie Universität di Berlino, in uno dei focolai della vita intellettuale e politica della Germania del tempo, che aveva il vantaggio ulteriore di offrire un contesto accademico non monopolizzato da scuole teoriche ingombranti  o sclerotizzate. A quel punto l’evoluzione intellettuale di Joas aveva ormai imboccato una direzione, se non definitiva, quantomeno chiara. Da un lato, le tre principali fonti della sua formazione giovanile (il marxismo, il cattolicesimo conciliare e l’amalgama tipicamente tedesco di storicismo ed ermeneutica che dominava l’Università tedesca di quegli anni) avevano elargito i frutti più sostanziosi, rivelando, allo stesso tempo, i loro limiti intrinseci, in particolare il grave deficit in materia di cultura politica democratica. Dall’altro lato, il pragmatismo, e in particolare il meno noto tra i suoi principali esponenti, George Herbert  Mead, si era imposto all’attenzione del giovane studioso sia come un utile correttivo sia come un promettente terreno d’incontro per queste diverse tradizioni di pensiero.

In questa fase decisiva della sua formazione il legame con Hans Peter Dreitzel, Dieter Claessens e con il loro giovane assistente Wolf Lepenies offrì a Joas l’occasione di controbilanciare con un’immersione nella concretezza della riflessione antropologica le fantasie prometeiche della cultura politica egemone allora tra i suoi colleghi universitari. Non che tale mondo gli fosse completamente estraneo. L’interesse per Habermas, la frequentazione personale con Agnes Heller e l’inizio, nel 1974, del sodalizio intellettuale con Honneth, fecero sì che il suo congedo dal marxismo avesse le sembianze, anziché di un’abiura, di un superamento ponderato  del suo quadro categoriale a favore di una tradizione di pensiero diversa, ma non antitetica. In questo processo di lento ma progressivo distanziamento teorico dal materialismo storico un punto di svolta importante fu rappresentato  da un soggiorno di studi negli Stati Uniti (1975) che consentì a Joas di compiere alcune vere e proprie scoperte nell’ambito degli studi meadiani e, da un punto di vista più contenutistico, rafforzò la sua intuizione originaria che «la concezione dell’intersoggettività [di Mead] fosse a tutti gli effetti la trasformazione di alcuni fondamentali assunti cristiani in un’etica e in una psicologia sociale».

I risultati di questo lavoro, allo stesso tempo esegetico e teorico, confluirono nella sua tesi dottorale, pubblicata da Suhrkamp nel 1980 e tradotta, grazie al sostegno di Anthony Giddens, pochi anni dopo anche in inglese. Grazie al successo del libro, Joas poté intrecciare un dialogo fruttuoso con il sociologo di Chicago Donald N. Levine e porre così le basi per un rapporto di collaborazione con il locale dipartimento di sociologia e con il prestigioso Committee on Social Thought destinato a durare per molti anni a venire.

Parallelamente alla pubblicazione, sempre nel 1980, di un libro scritto a quattro mani con Axel Honneth che, con la consueta schiettezza, egli stesso ha descritto a distanza di anni come un lavoro «non del tutto maturo», Joas cominciò al Max-Planck Institut la prima delle sue numerose collaborazioni professionali con centri di ricerca extrauniversitari. In quel contesto, i suoi interessi macrosociologici dovettero lasciare momentaneamente spazio a ricerche più circoscritte, in particolare a un’indagine empirica sulle opportunità di lavoro dei giovani scienziati tedeschi. Malgrado il senso di frustrazione per il fatto di non riuscire a dare libero sfogo alla propria vocazione teorica, gli anni Ottanta rappresentarono un periodo di gestazione cruciale per la sua produzione teorica più matura. A quegli anni risale infatti la nascita dell’interesse per il fenomeno della guerra (incentivato, fra l’altro, dalle lotte coeve del movimento per il disarmo atomico) che solo dopo più di un decennio di studi è sfociato nella pubblicazione di alcuni importanti lavori sul tema.

È però soltanto dopo la nomina a professore all’Università di Erlangen-Norimberga (1987-1990) che ha inizio la stesura di quello che ancora oggi Joas considera il suo libro più significativo: il volume dedicato alla “creatività dell’azione”. Uscito presso la casa editrice Suhrkamp nel 1992, il testo si proponeva di riabilitare, con strumenti  teorici desunti ancora una volta dal pragmatismo americano, l’azione umana e le sue risorse creative endogene (indipendenti,  cioè, dalla razionalità strumentale o da un dominio normativo estrinseco). Nel libro la sottolineatura dell’intreccio di conoscenza e azione tipico della visione pragmatista si combina con impulsi teorici provenienti dall’antropologia filosofica tedesca per dare vita a una visione della spontaneità umana in cui l’attenzione al corpo e alla sua “intenzionalità passiva” non sfocia tuttavia in un vitalismo irrazionalistico. Proprio per il taglio apparentemente antinormativista, il libro ricevette un’accoglienza tiepida in patria e le sue potenzialità teoriche sono state apprezzate in Germania soltanto dopo la sua pubblicazione negli Stati Uniti e, ancora di più, in Francia (su iniziativa di Alain Touraine).

Conclusa la parentesi a Erlangen, Joas, ormai berlinese d’adozione, è tornato  nel 1990 alla Freie Universität come professore, non però del dipartimento  di sociologia, ma del John F. Kennedy Institute for North American Studies. È in questo contesto  internazionale, e lavorando spalla a spalla con Amitai Etzioni (il principale fautore della coeva rinascita comunitaria in filosofia politica), che prese forma quello studio sulla genesi dei valori che, nelle intenzioni dell’autore, doveva rappresentare il completamento teorico del libro sulla creatività dell’azione. Qui, alternando secondo uno stile collaudato interpretazioni erudite dei classici della teoria sociale degli ultimi due secoli e analisi più sistematiche, Joas ha messo a tema la questione del circolo virtuoso tra gli episodi (preterintenzionali) di trascendimento del sé e il lavoro riflessivo di “ermeneutica profonda” che diventerà cruciale nei successivi scritti sulla religione e sulla quale tornerò più diffusamente nelle pagine seguenti.

L’ultimo decennio della carriera del sociologo tedesco è stato caratterizzato da un attivismo e da una produttività che si spiegano, almeno in parte, con un’urgenza esistenziale inderogabile. Dopo le dimissioni nel 2002 dall’Università di Berlino, motivate anche da un giudizio negativo sullo stato attuale dell’università tedesca, Joas ha mantenuto l’insegnamento a Chicago ed è diventato prima direttore  del Max- Weber Kolleg di Erfurt (2002-2011) e, infine (2009), fellow del Freiburg Institute for Advanced Studies. Negli ultimi anni, parallelamente  agli altri variegati interessi e progetti (lo studio del fenomeno della guerra, l’interpretazione della secolarizzazione, l’analisi della svolta assiale, la decostruzione del concetto  di modernità),  egli ha condotto  a termine un’indagine, allo stesso tempo storica e tematica, sulla genesi del concetto di sacralità della persona e sul ruolo cruciale che questa intuizione morale svolge nella legittimazione di gran parte delle istituzioni e pratiche sociali odierne.

Per quanto riguarda l’Italia, la ricezione dell’opera di Joas è ancora a uno stadio preliminare. Prima della pubblicazione di La fede come opzione, l’unica edizione italiana di un suo libro era infatti la traduzione di Braucht der Mensch Religion? (2004), curata da Andrea Maccarini. Il fatto che da noi l’interesse per la produzione teorica di Joas si sia concentrato fino a oggi quasi esclusivamente sulle sue analisi del fenomeno religioso è un aspetto su cui vale la pena di soffermarsi. Dedicherò, pertanto, le pagine restanti di questo editoriale a una disamina del contributo  specifico che l’autore di Die Kreativität des Handelns ha offerto alla comprensione  del destino della religione e, più in particolare, della fede cristiana nelle società contemporanee.


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* Paolo Costa (Milano 1966), filosofo, è ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Si è laureato a Milano e ha svolto i suoi studi dottorali e post-dottorali tra Parma, Trento, Toronto e Vienna. È autore di Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor (Milano 2001) e Una idea di umanità: etica e natura dopo Darwin (Bologna 2007). Ha curato l’edizione italiana di opere di Charles Taylor, Hannah Arendt, Charles Darwin.

 

Hans Joas
LA FEDE COME OPZIONE
Possibilità di futuro per il cristianesimo 

Edizione italiana a cura di Paolo Costa

Editrice Queriniana, Brescia 2013
Giornale di teologia 366
pagine 280

 





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