Nel 1998 Jürgen Moltmann proponeva nella collana «Giornale di teologia» una raccolta di saggi, nei quali nove teologi tedeschi, uomini e donne, noti a livello internazionale e rappresentativi dell’ecumene cristiana, raccontavano il loro cammino di vita. Tra di essi compariva anche Eberhard Jüngel, esponente di grande rilievo della teologia evangelica tedesca contemporanea. Il prof. Jüngel è da poco scomparso (28/9/2021). Nell’estratto che qui proponiamo, egli tratteggia con una certa dose di humor i passi che l’hanno condotto allo studio e alla pratica della teologia nell’allora DDR, la Germania dell’Est. Di quella scelta non si è mai pentito, fino all’ultimo, nonostante le difficoltà concrete cui ha dovuto far fronte: anzi, ammette di trovare persino divertente fare il teologo. Perché nulla vale come una teologia che sa non solo difendere Dio, ma, al contempo, salvare i fenomeni: dare cioè alla creazione il posto che le spetta.
Signore e signori, se mi vedete un po’ pallido, non è solo perché ho fatto le ore piccole. È perché sono davvero cambiato pochissimo, se non per niente. Sono dell’audace opinione che i miei maestri abbiano sempre da dire qualcosa in più di me e che il potenziale della loro teologia non sia stato ancora del tutto sfruttato. Per questo, anche se il fatto di non essere cambiato può sembrare una pecca e l’immutabilità (immutabilitas)non più un complimento nemmeno per Dio, posso solo a stento offrire delle considerazioni sui cambiamenti che mi hanno toccato. Vi è, comunque, un certo numero di situazioni, di incontri, di esperienze che non posso dimenticare, che hanno avuto un evidente influsso su di me e mi hanno segnato; senza di essi io, se vedo bene, non sarei oggi quello che sono. Posso, quindi, parlare di alcuni di questi momenti. E, nel tentativo di delineare l’identità della mia esistenza teologica, devo, bene o male, tornare ai miei inizi.
1. A casa mia non ci si poneva domande sulla “religione”. Il mio desiderio di studiare teologia incontrò la meraviglia preoccupata di mia madre e il rifiuto deciso di mio padre. Che io, tuttavia, sia rimasto della mia opinione e sia riuscito alla fine a realizzarla, può essere certamente spiegato anche dalla consueta opposizione adolescenziale di un figlio contro l’autorità patema. Ma non solo. Vi fu un’esperienza più profonda e decisiva che è stata determinante per la mia decisione e che mi influenza ancora oggi. Fu la scoperta della chiesa evangelica come l’unico luogo, a me allora accessibile, nel quale fosse possibile, all’interno della società stalinista della Repubblica Democratica Tedesca, ascoltare e dire impuniti la verità. Forse questo valeva anche per gli spettacoli d’operetta, per lo meno per una certa operetta coraggiosa e satirica. L’operetta e la chiesa hanno giocato nella società socialista il ruolo, come dire, del clown. E il clown è a volte l’unico che in una società di regime può dire la verità in modo buffo. Che esperienza liberante era di fronte alla tirannia ideologica e politica che imperava nella scuola! Alcuni miei amici vennero imprigionati, io stesso più volte venni interrogato dal servizio di sicurezza nazionale e portato di fronte al tribunale: solo perché avevamo osato dire quello che pensavamo. Immediatamente prima della rivolta operaia del 1953 venni allontanato dal liceo, il giorno prima della maturità, come «nemico della Repubblica». Ai compagni di scuola venne intimato di rompere subito i contatti con noi. Quando lasciai l’aula della scuola Humboldt di Magdeburgo – dove evidentemente imperava uno spirito che non era certamente quello di Humboldt –, le insegnanti e gli insegnanti, quelli sinceri, si volsero in un silenzio perplesso: una scena densa di simboli, nella quale in un attimo mi si mostrò la verità della sentenza ciceroniana che gli stessi insegnanti ci avevano fatto imparare, cioè: Cum tacent, clamant, “Il loro silenzio urla”.
Nella chiesa cristiana, tuttavia, si era liberi di rompere il silenzio oppressivo e l’obbligo della menzogna, obbligo che si faceva sempre più chiaro. Lì si osava testimoniare la verità del vangelo; lo si testimoniava concretamente, nella situazione politica e la forza liberante di questa verità era esperibile anche sul piano secolare, politico. «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32): questa frase del Nuovo Testamento è quella che, da allora, io preferisco.
2. Se oggi si guarda a tutto il sistema di allora come ad un castello di carta crollato e si inizia ad analizzare il tutto domandandosi dove il “socialismo reale” abbia fatto ultimamente naufragio, si deve considerarne causa decisiva la sua obiettiva falsità. Non voglio certo parlare di antisocialismo di principio; non posso, tuttavia, chiudere gli occhi di fronte alla grande falsità con la quale gli ideali socialisti sono stati realizzati con una politica di potere. Il monopolio della verità preteso dal partito e imposto con la violenza statale si opponeva alla verità stessa e produsse un pervertimento del pensiero, al quale anche gli stessi carnefici dovettero cedere.
Che c’entra tutto questo con il mio pensiero teologico? Molto, proprio per il fatto che io sulla base di quelle esperienze di chiesa, nelle quali essa mi si fece incontro come istituzione di verità liberante – prima e dopo il veto paterno –, sono diventato teologo e fino ad ora non me ne sono pentito.
Sono diventato docente universitario di teologia letteralmente di notte, con la costruzione del muro di Berlino. Quando Erich Honecker fece erigere il muro di Berlino, gli studenti di teologia che risiedevano nella Berlino orientale vennero separati dai loro professori che risiedevano nella Berlino occidentale. Per ovviare alla necessità così sorta, il futuro vescovo Kurt Scharf mi conferì la cattedra di teologia. Ero dottore in teologia da poche settimane e, di conseguenza, prevedibilmente mal preparato. Era iniziato il tempo di dure elucubrazioni. Quante notti insonni a lavorare: spesso la sera non sapevo ancora che cosa dovevo insegnare la mattina seguente! Non sono lunghe solamente le notti del Golgotha, ma anche quelle accademiche.
La teologia che ne nacque oggi la si chiamerebbe certamente “contestuale”. Mi domandavo, infatti, come il parlare di Dio potesse far valere la sua verità in una situazione contrassegnata dall’ateismo. Demonizzare semplicemente l’ateismo o smascherarlo come pseudoreligione mi sembrava troppo poco. Mi sentivo impegnato piuttosto nel comprendere l’ateismo meglio di come si comprendesse esso stesso; e cercai di andarne teologicamente alle basi.
3. Che cosa ha dunque da offrirci la teologia? La risposta, a mo’ di slogan, corrisponde al filo rosso che corre lungo la mia esistenza teologica. La teologia deve offrire chiarimenti. Di certo non i chiarimenti alla luce della ragione, ma neppure da nemica della luce della ragione; deve offrire chiarimenti nella luce del vangelo. E in modo tale da giungere ad un dialogo critico con la ragione. Proprio perché la teologia deve offrire chiarimenti nella luce del vangelo, essa deve anche confrontarsi con un antico detto: occorre salvare i fenomeni. In questo senso vale l’affermazione di dare alla creazione ciò che le spetta. Per questo, a mio parere, il comando di soggiogare la terra (Gen 1,28) non è affatto oggetto di rinuncia, bensì va inteso come un vero dominium terrae, mentre è di solito interpretato in modo che il dominium diventa un imperium. L’umanità deve dominare, se il mondo non deve finire. In ogni caso esso giungerà velocemente alla sua fine, sia che noi smettiamo di dominarlo sia che noi lo dominiamo con la violenza di una sconsiderata autorealizzazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è di un signore, di un dominus che sappia dominare su di sé. In questo caso, sorgeranno forse anche nel nostro mondo ancora irredento parabole del regno di Dio.
È, quindi, necessario, a mio parere, che la teologia sviluppi insieme alla filosofia una tavola delle categorie del male. La teologia, a partire dal vangelo, deve cercare di delinearne una, non per lasciarci incantare dal male, ma per rimetterlo al suo posto con le prospettive unilaterali che gli sono strettamente connesse. Si può combattere il male solamente se lo si comprende con un pensiero rigoroso e lo si respinge con un’azione coraggiosa. È certamente vero che con questo il regno dei cieli non inizia ancora sulla terra, ma si farebbe anche in modo che la terra non diventi un inferno.
E per impedire che noi rendiamo la terra un inferno, Dio sta davanti a noi: il Dio, che ha sconfitto inferno, morte e diavolo per sempre e che ci ha promesso una vita nella libertà e nella pace. Una vita nella libertà e nella pace: che cosa significa se non una vita di comunione proprio con Dio? Corrispondere, pensando, alla fede in questo Dio e alla speranza in questa comunione: secondo me questo è il compito di un buon teologo.
Ho cercato e cerco tuttora di esserlo. E mi ci diverto.
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