La questione: Dio e il dolore del mondo, è un tema classico, da sempre presente nella riflessione teologica: già s. Basilio nel IV secolo nelle omelie della maturità ne parlava come di un «problema spesso dibattuto». Nei tempi moderni il filosofo Leibniz nei Saggi di teodicea
(1710) lo presenta come questione di teodicea. Essa si poneva nei seguenti termini: come si può conciliare l’onnipotenza di Dio e la sua bontà con la presenza del male e del dolore del mondo? Come si può giustificare
l’esistenza di Dio di fronte alla sofferenza? La risposta della teologia cristiana va oltre la risposta filosofica della teodicea e si presenta come «teologia della croce». Ora, nessun teologo del XX secolo – che ha conosciuto Auschwitz, Hiroshima, l’Arcipelago Gulag – ha dato un contributo così decisivo come Moltmann, con l’opera Il Dio crocifisso (1972). La risposta della teologia della croce – soprattutto negli approfondimenti biblici e sistematici proposti da Moltmann – mostra il coinvolgimento di Dio nella passione del mondo. La croce è interpretata come «avvenimento di Dio», come «storia di Dio», e dunque come «storia della storia umana», per cui la storia umana è in Dio; non, hegelianamente, Dio nella storia come processo dello Spirito; ma, cristianamente, la storia in Dio. «Ogni storia umana, per quanto contrassegnata dalla colpa e dalla morte, viene superata in questa “storia di Dio”, e cioè nella Trinità, e viene integrata nel futuro come “storia di Dio”. Non esiste alcuna sofferenza che in questa storia di Dio non sia sofferenza di Dio, come non esiste alcuna morte che non sia diventata morte di Dio nella storia del Golgotha. Per cui non esisteranno nemmeno vita, felicità e gioia che non vengano integrate, mediante la sua storia, nella storia eterna, nella gioia infinita di Dio» (288).
La vita nella comunione di Cristo è vita piena, condotta nella situazione trinitaria di Dio. Morto in Cristo e risorto a nuova vita, come Paolo afferma in Rm 6,8, il credente prende realmente parte della sofferenza di Dio nel mondo, perché partecipa della passione dell'amore divino. Ma prende anche parte alla sofferenza concreta del mondo, perché sulla croce di suo Figlio Dio l'ha resa sofferenza propria.Quel Dio umano che s'incontra nel Crocifisso conduce dunque l'uomo ad una divinizzazione (théosis) che va intesa intermini realistici. A livello di comunione con Cristo si può realmente dire che gli uomini vivono in Dio e di Dio, che essi «in lui vivono, si muovono e sono» (Atti 17,28). Panteisticamente inteso, questo è un sogno che non consente di volgere lo sguardo sul negativo presente nel mondo. Ma una teologia trinitaria della croce percepisce Dio nel negativo e quindi il negativo in Dio, e in questo senso dialettico essa è panenteistica. Nella dimensione nascosta di un abbassamento che giunge fino alla morte di croce, tutto ciò che esiste e tutto ciò che annienta è già superato in Dio, e Dio incomincia a diventare «tutto in tutte le cose». E d'altra parte, conoscere la croce di Cristo significa conoscere in Dio la sofferenza senza sbocco, la morte e il ripudio della disperazione in Dio.
Una “teologia dopo Auschwitz” può apparire impossibile o suonare blasfema a coloro che si accontentano del teismo o delle credenze della loro infanzia, o che hanno perso la fede. Né ci sarebbe la possibilità di evolvere una “teologia dopo Auschwitz”, in un ripensamento sofferto e nel riconoscimento delle proprie colpe, se non si fosse già data una “teologia ad Auschwitz”. Chi poi dovesse cozzare contro problemi insolubili e imboccare la via della disperazione, deve tener presente che ad Auschwitz si è pregato lo Šema‘d'Israele e il Padre Nostro.
Ma rimaniamo nel concreto e pensiamo ai martiri. A proposito di queste persone, di queste mute vittime, possiamo dire in senso realmente figurato che Dio stesso pende dalla forca[1]. E se lo affermiamo con serietà, dovremo anche aggiungere che, come la croce di Cristo, così anche il lager di Auschwitz si trova in Dio stesso, è stato cioè assunto nel dolore del Padre, nella consegna del Figlio e nella forza dello Spirito. Ciò non comporta la minima giustificazione di ciò che è successo in quel campo di concentramento, delle atrocità sofferte da quelle vittime, perché la croce stessa segna l'inizio della storia trinitaria di Dio. Solo con la risurrezione dei morti, degli assassinati e dei gassati; solo con la guarigione degli angosciati e martoriati in vita; solo con la demolizione di ogni potere e dominio, con l'annientamento della morte, il Figlio consegnerà il regno al Padre, come Paolo afferma in 1 Cor 15. Allora Dio tramuterà il proprio dolore in gioia eterna. È in questi termini che si annunciano il compimento della storia trinitaria di Dio e la fine della storia del mondo, il superamento della sofferenza e l'adempimento della storia di speranze dell'umanità. Dio in Auschwitz e Auschwitz in Dio: è questo il fondamento di una speranza reale, che abbraccia la realtà del mondo e su di essa trionfa, ed è anche la ragione di un amore che è più forte della morte e che può «tenere fermo il mortuum»[2].
Questo è il motivo per cui possiamo sopportare anche il terrore che c'incutono la storia e la sua fine, rimanere saldi nell'amore e guardare in faccia il futuro di Dio, aperti a ciò che esso ci riserba. Questo è il motivo per cui viviamo sentendoci corresponsabili della colpa e della sofferenza, aperti al futuro dell'uomo in Dio.
[Tratto da Rosino Gibellini (ed.), Antologia del Novecento teologico, Queriniana, Brescia 2011, 202-204].
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[1] [Riferimento alla scena descritta da Elie Wiesel, La Nuit, 1950, con prefazione di François Mauriac (trad. it., La notte, Giuntina, Firenze 1980)].
[2] [Espressione hegeliana che indica la forza di resistere a ciò che annienta].
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