Si tiene a Porto Alegre, capitale del Rio Grande do Sul, Brasile, il World Forum on Theology and Liberation, Forum Mondiale di Teologia e Liberazione, dal 21 al 25 gennaio 2005 (nella settimana antecedente allo World Social Forum IV). Il Forum Mondiale Teologia e Liberazione riunirà teologi e teologhe da tutti i continenti sul tema “Teologia per un altro mondo possibile”. In questa linea si colloca l’ultimo fascicolo della rivista di teologia internazionale Concilium, “Un altro mondo è possibile” 5/2004, edito da Luiz Carlos Susin, Jon Sobrino e Felix Wilfred, che può essere considerato una preparazione a questa conferenza internazionale. Tra i partecipanti; dall’Asia: Felix Wilfred, Michael Amaldoss, Chung Hyun Kyung; dall’Africa: Mercy Amba Oduyoye, Teresa Okure; dall’America Latina: Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff, Oscar Beozzo, Frei Betto, José Comblin, Enrique Dussel, Elsa Tamez; dagli Stati Uniti: Otto Maduro, Dwight Hopkins, Ada Maria Isasi-Diaz; dall’Europa: Claude Geffré, Raul Fornet-Betancourt, Rosino Gibellini. Proponiamo il testo dell’intervento di Rosino Gibellini.
La domanda, alla quale vorrei rispondere, suona così: come si situa la teologia europea nei confronti della teologia della liberazione (compresa nella sua pluralità e complessità)? La domanda ci offre l’occasione di uno sguardo essenziale e prospettico sulla teologia del XX secolo.
I.
Nel percorso della teologia del XX secolo si possono individuare quattro movimenti o quattro tipologie del far-teologia.
Il primo movimento va sotto il nome di teologia della Parola di Dio, o teologia della Rivelazione cristiana. Essa è intesa ad affermare con Karl Barth la trascendenza della parola di Dio, o, con Hans Urs von Balthasar, la in-comparabilità, o la non-comparabilità della rivelazione cristiana nei confronti di ogni filosofia e sapienza umana. Questa tipologia della teologia del XX secolo è preoccupata dell’identità della fede cristiana e della specificità del discorso teologico. Le teologie dell’identità riemergono in questi ultimi decenni nel contesto di quel complesso fenomeno di fine/inizio secolo, che va sotto il nome di postmodernità. Secondo le teologie dell’identità la chiesa cristiana deve parlare il suo proprio linguaggio e coltivare la sua propria pratica in un tempo che conosce la sua diasporizzazione: la teologia deve attenersi al testo biblico praticando l’intra-testualità. In questo contesto la teologia si presenta come «dogmatica della chiesa» (Barth), come «grammatica della fede» (Lindbeck), o anche come «una conoscenza che dà da pensare» (Jüngel).
Una seconda tipologia unisce alla preoccupazione per l’identità quella della rilevanza del discorso cristiano sulla realtà esistenziale, antropologica, culturale ed esperienziale umana. Si collocano in questo movimento la teologia esistenziale di Rudolf Bultmann, la teologia della cultura di Paul Tillich, la teologia antropologica di Karl Rahner, la teologia dell’esperienza di Schillebeeckx, la teologia ecumenica e inter-religiosa di Hans Küng, la teologia ermeneutica di Claude Geffré. Qui la teologia è concepita come una complessa correlazione da svolgere tra due poli (two poles): il polo della rivelazione e della tradizione che la trasmette, e il polo della situazione temporale in cui vive l’essere umano, che costruisce senso e sensi nella sua progettualità, e che riceve sovrabbondanza di senso dalla proposta/risposta cristiana. Questo modo di far-teologia ha assunto il nome di «svolta antropologica in teologia»; quella che va sotto il nome di «svolta ermeneutica in teologia» è una diversa configurazione della svolta antropologica. In questo contesto si potrebbe definire la teologia, assumendo l’espressione di Marie-Dominque Chenu, il quale caratterizza la teologia come «la fede che si fa solidale con il proprio tempo».
Una terza tipologia ha approfondito la svolta antropologica ed ermeneutica in svolta politica, in quanto propone, con Bonhoeffer anticipatamente, ma poi in particolare con Johann Baptist Metz, con Jürgen Moltmann e con Dorothee Sölle, di sviluppare i contenuti sociali e politici del messaggio cristiano. Nasce così negli Anni Sessanta, la teologia politica, che pone il problema del rapporto tra teologia e prassi, per un cristianesimo della sequela. La fede dei cristiani deve farsi «prassi nella storia e nella società»; la teologia assume «l’opzione di entrare nel campo nella storia», e si autocomprende come un sapere pratico, che non si interroga solo sul senso della vita e della storia, ma intende fare un’esperienza pratica del senso della vita storica; come un sapere, che sente una responsabilità pubblica; come un sapere al servizio della comunicazione del Vangelo e della sua forza di profezia e solidarietà nei conflitti della storia. È una teologia, che è andata assumendo – nelle parole di Metz (1997) – le sfide del tempo: «In primo luogo il conflitto irrisolto con i problemi dell’Illuminismo, poi la catastrofe della tragedia di Auschwitz, e infine, l’emergenza nel “mondo della teologia” di un mondo non-europeo del Terzo Mondo». In questa stessa direzione Jürgen Moltmann afferma: «Se si prende la chiesa sul serio, la teologia dovrà diventare, al pari di essa, una funzione del Regno di Dio nel mondo. E in questa funzione del Regno di Dio la teologia investe anche le sfere della vita politica, culturale, economica ed ecologica di una società». In un recente intervento Jürgen Moltmann si interroga: «Che cosa è rimasto? Che cosa se n’è andato?», e risponde: «Ciò che è rimasto, se vogliamo parlare molto in generale, è il riconoscimento della dimensione politica per la fede cristiana della croce di Cristo e del Regno di Dio. Ciò che è rimasto è la necessaria critica agli idoli della religione politica e civile. Ciò che in genere è stato accettato è l’opzione preferenziale per il povero. Ciò che si è sviluppato sono i princìpi di ogni teologia contestuale: contesto, kairos, comunità».
Un quarto movimento della teologia del XX secolo si attua con le teologie della liberazione, che hanno rappresentato la vera novità degli ultimi decenni e che è compito di questa assemblea illustrare, approfondire e risituare nei nuovi contesti sociali e culturali.
In sintesi, i movimenti della teologia europea possono essere individuati con queste parole-chiave: identità, correlazione, passione per il Regno. Forse si può dire che in questi ultimi nostri anni si è andata affermando, da una parte, la ricerca dell’identità, da distinguere nettamente dal fondamentalismo, che è caratterizzato da una identità religiosa escludente e aggressiva; dall’altra, l’urgenza di porre quest’identità in relazione costruttiva con altre culture, pratiche e religioni.
Se si volesse sintetizzare i molti percorsi, si potrebbe formulare: esistenza teologica e passione per il Regno. «Esistenza teologica» ricupera una celebre espressione di Barth e dà espressione alle teologie dell’identità; «Passione per il Regno» dà espressione alle teologie della correlazione e alle teologie politiche.
Dobbiamo anche ricordare che la teologia cattolica del XX secolo, soprattutto europea, ha contribuito decisamente a preparare la svolta epocale del concilio Vaticano II. Cos’è avvenuto con il concilio Vaticano II? Nell’analisi proposta da uno storico francese, il concilio della chiesa sulla chiesa ha «relativizzato la chiesa», nel senso che ha posto più espressamente la chiesa in relazione sia con la parola di Dio (Dei Verbum), da cui scaturisce, sia con la sua testimonianza e missione nel mondo (Gaudium et spes).
La teologia europea del XX secolo non è una teologia innocente: essa ha conosciuto nei suoi percorsi in un secolo drammatico, ma tra i più evangelici della storia della chiesa cristiana (Congar), anche tradimenti, come la «teologia tedesca della guerra» agli inizi del secolo nell’anno fatale 1914; o, più vicino a noi, la «teologia dello Stato», elaborata in Sudafrica a difesa dell’apartheid da comunità riformate di bianchi europei e duramente colpita dal documento Kairos del 1985, espressione di una chiesa e di una teologia profetica.
Ha condiviso con l’istituzione e con la comunità cristiana, di cui dovrebbe essere la coscienza critica, ma anche con altre istanze della politica e della cultura, il silenzio sulla tragedia dell’Olocausto.
Ma è una teologia che si è trovata di fronte ad un compito immane: «Una teologia – come ha scritto il teologo Joseph Moingt – che ha fatto fronte ad una prodigiosa evoluzione delle mentalità e delle conoscenze, a una impressionante ondata di fondo di incredulità che ha scosso il cristianesimo dalle sue fondamenta, una teologia che si è fatta l’interprete delle esperienze e delle aspirazioni dei cristiani e delle cristiane del nostro tempo».
Nel «secolo del martirio», come è stato definito il Novecento cristiano, anche la teologia europea ha coniugato l’apologhía con la martyría, e basterà ricordare i nomi e il contenuto di riflessione del teologo ortodosso Pavel Florenskij, vittima del gulag staliniano; di Edith Stein, martire dell’antisemitismo ad Auschwitz; di Dietrich Bonhoeffer, martire della resistenza alla barbarie nazista a Flossenbürg, la cui riflessione sta nel cuore della teologia del Novecento europeo, con risonanze anche nelle comunità cristiane extra-europee (sulle pareti di prigioni della Corea del Sud e del Sudafrica si sono trovate scritte del tenore «Remember Bonhoeffer»).
II.
Come si rapporta la teologia europea con la teologia della liberazione, che si autocomprende come atto secondo che presuppone una prassi; che ha portato nella riflessione la storia dei popoli, e più esattamente «la storia di coloro che la storiografia ufficiale e le elaborazioni teologiche e cristiane, hanno rinnegato come non-persone, come non-storie» (Tracy); che pratica in contesti culturali e religiosi non-occidentali l’inter-testualità (e non solo l’intra-testualità delle teologie dell’identità)?
Nell’ambito della teologia cattolica si può notare uno spostamento, per dirlo in modo un po’ sbrigativo, da Rahner a von Balthasar, e cioè: dalla svolta antropologica al ricupero dell’identità cristiana nel tempo del pluralismo. La recezione, quindi, delle istanze della teologia della liberazione si è fatta in Europa più difficile; in qualche modo, anzi, è disattesa.
Inoltre in tempi di incertezza e di paura (nel congresso della European Society for Catholic Theology del 2004, si è citato l’inizio del Manifesto del Partito comunista del febbraio 1848 con questa variazione: «Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro della paura») si è alla ricerca di una spiritualità, che tende a privatizzare l’esperienza cristiana, e non favorisce l’assunzione di istanze della teologia della liberazione.
Si deve, inoltre, fare i conti con l’Est europeo e con la Russia ortodossa, che hanno sperimentato negli anni 1989-1991 un’altra “liberazione”, diversa da quella prospettata dalla teologia della liberazione. Ha affermato recentemente in un Forum teologico, al quale anch’io ho partecipato, un teologo russo ortodosso: «Con la teologia della liberazione noi ortodossi avevamo un rapporto assai complicato. La sua resa al “marxismo delle buone intenzioni” [una definizione che circolava negli ambienti ortodossi dell’Unione Sovietica] è assolutamente estranea allo spirito della nostra fede che ha subito quella “liberazione” [e cioè: la liberazione dal comunismo sovietico]». E su questa linea si esprimono anche filosofi e teologi dell’Est europeo, in particolare della Polonia.
Ma, in genere, credo che si possa parlare di una ricezione critica della teologia della liberazione nella teologia europea: basterebbe ricordare «l’opzione preferenziale per i poveri», la denuncia delle «strutture di peccato», la nominazione di Dio come «il Dio della vita», l’urgenza e nuove modalità nel dialogo inter-religioso. La teologia della liberazione ha allargato la coscienza e dilatato il cuore della chiesa cristiana.
Termino, ricordando l’analisi proposta dalla rivista internazionale di teologia Concilium nel congresso dell’Università cattolica di Lovanio nel 1990 sul tema, precorritore nella sua formulazione, At the Thresholds of the Third Millennium, “Alle soglie del terzo millennio”, dove la teologia europea e nord-atlantica si trovava, forse per la prima volta, in una delle più prestigiose università europee, in esigente confronto con le nuove realtà teologiche ed ecclesiali, che erano andate emergendo negli ultimi decenni del Novecento. In quell’occasione il teologo cattolico nordamericano David Tracy poneva il problema, affiorato poi a più riprese nella cultura degli ultimi anni, e indicativo della direttrice di marcia della teologia occidentale, On Naming the Present, “Quale nome dare al presente”, e indicava una via tra due distinte e contrapposte posizioni. Per i neoconservatori e i fondamentalisti, la modernità è un «esperimento fallito», e per questo si deve ritornare alla sana tradizione. Anche per quanti definiscono il presente come postmodernità, la modernità è ormai un tempo da superare, ma non per un ritorno alla tradizione, ma per una demolizione dello status quo in favore del fluxus quo. Ora, se la tradizione aveva un centro, la postmodernità è caratterizzata dalla “perdita del centro”, ma, così, essa offre la possibilità di scoprire l’altro, la differenza, gli oppressi e gli emarginati. La teologia, in un «Tempo di passaggi» (Habermas, Zeit der Übergänge, 2001), vive nella tensione tra modernità e postmodernità: deve assumere i valori non rinunciabili della tradizione, deve pure assumere le acquisizioni positive conseguite dalla modernità, ma, nel dialogo e nella solidarietà, deve aprirsi all’altro: «Il risultato potrebbe essere una nuova solidarietà nella lotta per il vero tempo della giustizia».
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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)