Siamo a Vienna, nel 1958, e sono i giorni di Pasqua. Per trattare della fratellanza cristiana e illustrarne il senso, la portata e i limiti, un giovane e promettente Ratzinger è invitato a prendere la parola a un convegno teologico dell’Istituto pastorale austriaco. A un certo punto del suo discorso, il professore poco più che trentenne si chiede se, come e in che senso la fratellanza cristiana vada delimitata all’esterno, pur senza creare ovviamente un circolo esoterico fine a se stesso. Ratzinger individua così il senso della fraternità nel «servizio del tutto», a favore di «quelli di fuori». Egli cerca poi di identificare i modi concreti del servizio cristiano verso i fratelli e le sorelle “altri”, cioè verso coloro che non sono credenti, che non appartengono alla stessa comunità, che non condividono il pasto eucaristico. Se il primo compito imposto al cristiano verso il non cristiano è quello della missione, il secondo è l’agàpe e il terzo è la sofferenza: più precisamente, «la via regale della sofferenza vicaria a fianco del Signore».
Nel pensare proprio in questa chiave gli ultimi giorni di vita del vescovo emerito di Roma, alla fine del 2022, vogliamo ora riprendere quelle parole per rendere omaggio alla sua figura, al suo pensiero e alla sua sensibilità teologica.
Il più grande e più alto compito del cristiano nel suo rapporto con i non credenti è quello di soffrire, alla sequela del suo Maestro, per essi e per causa loro. Nell’ultima fase della sua vita, solo pochi giorni prima della passione, Cristo ha sintetizzato il suo compito in queste parole: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Tali parole non esprimono soltanto la legge fondamentale della vita di Gesù, bensì anche la legge fondamentale che governa ogni discepolato di Cristo.
Stando alle parole del Signore i discepoli di Gesù rimarranno sempre “pochi” e si contrapporranno come tali alla massa – ai “molti” – così come Gesù, l’uno, sta di fronte ai molti, vale a dire a tutta l’umanità. «Stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7,14; al v. 13: “molti” sono quelli che imboccano la via larga che porta alla perdizione). «Gli operai sono pochi» (Mt 9,37). «Pochi sono eletti» (Mt 22,14, a differenza dei “molti” chiamati). «Non temere, piccolo gregge» (Lc 12,32). «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10,16). I discepoli di Gesù sono pochi. Ma come Gesù fu l’uno «per i molti», così è e rimane anche loro compito essere non contro, bensì «per i molti».
Ove tutte le altre vie falliscono, lì rimane ancor sempre loro la via regale della sofferenza vicaria a fianco del Signore. La chiesa celebra in continuazione la propria suprema vittoria e sta più vicina che mai a fianco del Signore proprio quando soccombe. Proprio quando è chiamata a soffrire per gli altri essa adempie la sua missione più intima, vale a dire lo scambio di destino con il fratello errante. E ottiene così la sua nascosta riammissione nella figliolanza piena e nella piena fraternità. Soltanto nella relazione così intesa tra i “pochi” e i “molti” si manifesta anche la vera misura della cattolicità della chiesa. Se ci si basa sul suo numero esteriore essa non sarà mai pienamente “cattolica”, cioè non abbraccerà mai tutti, ma rimarrà in fondo piccolo gregge e lo rimarrà addirittura in misura maggiore di quanto la statistica lasci presagire, perché la statistica mente, quando cataloga come fratelli molti che in realtà sono semplicemente pseudádelphoi, ovvero cristiani solo di nome e in apparenza. Ma nella sua sofferenza e nel suo amore essa continua a stare sempre «per i molti», cioè per tutti.
Nel suo amore e nel suo patire la chiesa supera tutti i confini ed è veramente cattolica.
[Tratto da J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Gdt 311, pp. 104s.]
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