“La via regia della semplicità divina e la via della più inaudita illusione corrono parallele nella storia della teologia, in tutti i tempi e in tutti gli sviluppi, separate soltanto dallo spessore di un capello”
K. Barth
In uno dei post di questo blog, dedicato al tema Matrimonio e famiglia dopo il Sinodo, viene proposta una lettura del Sinodo alla luce dell’opera di W. Kasper. L’analisi è assai pertinente e mette in luce una serie di questioni di fondo, su cui è bene sostare nella riflessione.
Nel corso della sua lunga storia, il matrimonio ha suscitato le più diverse forme di “discorso ecclesiale”. Da un lato, fin dalle fonti bibliche della tradizione giudaico-cristiana, l’esperienza matrimoniale ha fornito gran parte dell’immaginario di base per strutturare e articolare il rapporto tra Dio e il suo popolo, tra Cristo e la sua Chiesa. Tutte le figure del rapporto con lo Sposo – la fedeltà e la infedeltà, la comprensione e la incomprensione, la vicinanza e la lontananza, l’onore e il disonore, l’attesa e l’oblio, la veglia e il sonno – hanno segnato la raffigurazione “nuziale” del Signore e della sua “assemblea”, della sua “sinagoga” e della sua “chiesa”. Questo immaginario biblico, e poi patristico, ha profondamente segnato la tradizione teologica, quella spirituale, quella ministeriale e quella liturgica.
Su un’altro versante, gradualmente, si è formato il repertorio di una riflessione dogmatica e disciplinare sull’unione di uomo e donna, che dal medioevo in poi si è specializzato in una preziosa analisi delle condizioni soggettive e delle modalità attuative del sacramento, della sua natura e della sua efficacia, della sua validità e della sua nullità. Questo approccio ha approfondito le logiche del vincolo oggettivo e quelle della coscienza soggettiva, collaborando non solo alla costruzione della cultura morale e canonica della chiesa, ma generando, anche, una intera cultura europea dei diritti del soggetto e del primato del “foro interno”.
1. Mistiche nuziali e disciplina canonica
Potremmo quasi dire, con una piccola ma preziosa esagerazione, che il primo filone, caldo e analogico, ha potuto, negli ultimi decenni, giungere facilmente a fenomeni di surriscaldamento, fino alla fusione mistica. Mentre il secondo indirizzo, più freddo e analitico, ha condotto, non di rado, a forme di vero e proprio surgelamento, con annessa paralisi, coazione a ripetere e gravi incomunicabilità.
In particolare dobbiamo osservare come, negli ultimi tempi, si sia venuta a creare una paradossale situazione. È capitato, infatti, che una sorta di “santa alleanza” tra il primo e il secondo fronte della riflessione abbia generato un “sapere sul matrimonio” che, nello stesso tempo, si è presentato come troppo caldo e troppo freddo, finendo per risultare anche troppo tiepido. In altri termini, con esso si propone, non senza ragioni, una forte sottolineatura della “mistica nuziale” interna alla complessiva rivelazione cristiana, per poi trarne, però – e spesso surrettiziamente – dirette o disinvolte conseguenze sul piano strettamente giuridico e disciplinare. Come se una lettura “nuziale” della realtà rivelata potesse pretendere, immediatamente, di far sorgere conseguenze normative univoche e assolutamente invariabili sulla realtà storica. Come se un massimalismo della mistica si sposasse così facilmente con un massimalismo del diritto.
2. Un difetto di tradizione
Qui ci troviamo di fronte ad un vero “difetto di tradizione”. Proprio queste accelerazioni – queste esagerate riscaldature mistiche e queste troppo rapide infreddature giuridiche – poggiano su una incomprensione grave dell’oggetto/soggetto della tradizione stessa. È il matrimonio come tale che, in questo passaggio, rischia di risultare incompreso, o per eccesso di idealizzazione, o per eccesso di amministrazione. Le parole con cui ne parliamo e le categorie con cui lo pensiamo e lo “sentiamo” non ne rispettano la logica delicata e la trama complessa. E questa tendenza non fa bene alla tradizione, poiché è incapace di rilanciarla e di rinnovarne il linguaggio e lo stile.
Che cosa ci dice, infatti, la lunga tradizione antica, medioevale e primo-moderna? Che il matrimonio, proprio in quanto sacramento, non è soltanto una “ricostruzione” o una “trasfigurazione” dell’antropologia a livello teologico, ma è una piena assunzione sia del livello naturale, sia del livello istituzionale sul livello sacramentale. Ogni “elevazione”, di per sé, presuppone peso e fatica. Sono proprio le differenze tra questi tre livelli (naturale, istituzionale e sacramentale) ad aver permesso di leggere questo sacramento nuziale come “ultimo” e come “primo” rispetto a tutti gli altri. Dal punto di vista del “segno” è stato facile riconoscerlo come primo, ma dal punto di vista della causa è stato altrettanto facile retrocederlo all’“ultimo posto”. E può essere riconosciuto come primo solo se da esso non si rimuove il fardello umano e la struttura complessa.
3. Il primo e l’ultimo dei sacramenti
Credo che sia stata proprio questa grande complessità di livelli, di cui il matrimonio ha strutturalmente bisogno, a farne il sacramento più grande, ma anche il più piccolo. Grande nel significare come nessun altro la unione tra Cristo e Chiesa, ma piccolo nella sua concreta e fallibile possibilità di realizzarla. Questa è la differenza strutturale che il surriscaldamento mistico e il congelamento giuridico – con argomentazioni opposte, ma ora convergenti – rischiano di rimuovere pericolosamente. Tali logiche riduttive – ma riduttive, si badi, per eccesso – dimenticano, quasi inevitabilmente, la differenza che rimane tra approccio mistico e rapporto operativo rispetto al matrimonio. Se le analogie, belle ed eleganti, diventano principi di determinazione della coscienza altrui, le mistiche si trasformano facilmente in forme di oscurantismo o di negazione dell’altro e del suo diritto. Viceversa, se le logiche dei diritti e dei doveri non riescono più nemmeno a nominare legami degni di questo nome, allora tutto il sistema delle garanzie del soggetto – oggi così accuratamente sviluppato – si trasforma nella quasi certezza della inaccessibilità, per nessun uomo e per nessuna donna, di una autentica sfera della comunione di vita.
Ecco allora, ricondotto al suo punto geometrale, l’imbarazzo che ci troviamo a vivere in questi tempi, comunque opportuni, di bilancio e di ulteriore rilancio del cammino sinodale: la pretesa di far valere i principi generali di relazioni teologiche come immediate ed evidenti soluzioni antropologiche o, viceversa, la pretesa, altrettanto rischiosa, che l’umano contemperamento dei diritti, dei doveri e degli interessi possa diventare, come per miracolo, verità rivelata e disegno del Padre.
4. La indissolubilità e la eredità medievale
Una domanda si impone, radicalmente e pudicamente: è più giusto custodire l’unità dell’amore coniugale in una sorta di cassaforte denominata indissolubilità, di cui però a tutti sia nota la combinazione capace di renderla inconsistente; oppure non sarebbe meglio affidare la comunione di vita della coppia ad un tabernacolo trasparente, capace di accogliere anche la storia e le crisi dei soggetti che lo abitano? L’irrigidimento su una nozione medioevale di “indissolubilità” è un modo di assicurare alla Chiesa una autentica fedeltà al depositum fidei, oppure soltanto uno schermo per procurarle la rassicurante apparenza di una tale continuità?
Come ha scritto una volta K. Barth, «la via regia della semplicità divina e la via della più inaudita illusione corrono parallele nella storia della teologia, in tutti i tempi e in tutti gli sviluppi, separate soltanto dallo spessore di un capello». Sperare che la misericordia di Dio sia già tutta contenuta nella dottrina e nella disciplina che abbiamo saputo costruire negli ultimi ottocento anni intorno al matrimonio rischia di essere una presunzione che, facilmente, può capovolgersi in disperazione. Coltivare la speranza significa invece tenersi distanti da questi due eccessi: non presumere di avere già risolto teoricamente un problema che è obiettivamente nuovo e non pensare che il nuovo problema non possa trovare risposta sulla base di una dottrina capace di essere tradotta, trascritta e ripensata, ad un tempo fedelmente e creativamente.
Il matrimonio “non si può sciogliere”: la dottrina della indissolubilità è la forma classica con cui questa parola di Gesù è stata tradotta e tramandata. Ma le conseguenze disciplinari di questa forma di traduzione, e la sua stessa adeguatezza alla parola di Gesù, non sono affatto dati irreformabili. In questo spazio realmente aperto alla sollecitudine ecclesiale il prossimo Sinodo potrà muoversi con audace prudenza, e con giustificata lungimiranza. Al servizio di una ecclesia che voglia essere, davvero, ante et retro oculata.
5. Una nullità retrodatata?
La fuga dalla autoreferenzialità e la ricerca della “approssimazione” sono le due istanze portanti di questo evento ecclesiale 1. Il tema “matrimoniale” non casualmente è al centro di questa “inclinazione”: il matrimonio è remedium concupiscentiae perché, per sua vocazione, rimedia al ripiegarsi di ogni soggetto su di sé. Il matrimonio è il sacramento “non autoreferenziale” per eccellenza. Per questo, nello stesso tempo, il matrimonio è radicale “farsi prossimo”, approssimarsi. Forse per questo “approssimarsi” costitutivo è, tra tutti i sacramenti, il più esplicito e anche il più approssimativo. Riconoscendo nella più radicale “prossimità” il segno di una grazia, la tradizione ecclesiale sconta tutta la difficoltà degli uomini e delle donne – di ieri come di oggi – a vivere “non autorefenzialmente”.
Il Sinodo è chiamato a difendere, con coraggio, questa “approssimazione” che il matrimonio realizza, fuggendo, tuttavia, la tentazione di una “retroreferenzialità”, così come emerge dalle numerose proposte di “ampliamento” dei capi di nullità o di semplificazione delle procedure del processo canonico.
6. La dottrina non è un monolite
Resta fondamentale, a mio avviso, salvaguardare l’approccio più corretto. Lo possiamo desumere bene da questa bella testimonianza, che ci viene restituita dalla intervista rilasciata da papa Francesco a La Civiltà Cattolica. Ne cito qui un passaggio decisivo:
Il Papa a questo punto si alza e va a prendere sulla sua scrivania il Breviario. È un Breviario in latino, ormai logoro per l’uso. E lo apre all’Ufficio delle Letture della Feria sexta, cioè venerdì, della XXVII settimana. Mi legge un passaggio tratto dal Commonitórium Primum di san Vincenzo di Lérins: ita étiam christiánae religiónis dogma sequátur has decet proféctuum leges, ut annis scílicet consolidétur,dilatétur témpore, sublimétur aetáte («Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età»).
E così il Papa prosegue: «San Vincenzo di Lérins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così an-che la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio.
Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata».
«Del resto, in ogni epoca l’uomo cerca di comprendere ed esprimere meglio se stesso. E dunque l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso: una cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella del Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalí. Anche le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile» 2.
La immutabilità del significato del matrimonio non equivale ad una dottrina monolitica e ad una disciplina immodificabile. Abbiamo bisogno di riscoprire che una Chiesa non solo “retro”, ma anche “ante oculata”, ha bisogno di coraggio. Il coraggio di esprimere più adeguatamente la bellezza della fedeltà insieme alla comprensione per la debolezza, per la difficoltà, per la fragilità. Le categorie classiche non sono più capaci di elasticità, mentre le nuove non sono ancora adeguatamente sperimentate. Ma in questa difficile transizione, che ha bisogno di sapiente trascrizione e di coraggiosa traduzione, siamo impegnati a dare alla tradizione nuove parole di fede e nuove forme di vita riconoscibili. Senza finzioni e senza scorciatoie. Questo ci chiede lo Spirito, proprio in questo nostro tempo. E lo chiede proprio a noi.
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Note
1. A ben vedere, la cifra esatta dei “placet” e dei “non placet”, indicata puntigliosamente accanto ad ogni numero della Relatio Synodi, così come appare nelle ultime pagine della pubblicazione ufficiale del documento sinodale, è l’ultimo atto del Sinodo straordinario, ma forse anche il più esplicito. E più nella forma che nel contenuto.
2. A. SPADARO, Intervista a papa Francesco, in La Civiltà Cattolica 3918/III(2013) 449-477, qui 475s
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Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Walter Kasper
IL VANGELO DELLA FAMIGLIA
Giornale di teologia 371
2014 - pagine 80
Walter Kasper
IL MATRIMONIO CRISTIANO
Giornale di teologia 373
2014 - pagine 160
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