La celebrazione della Settimana ecumenica 2016 è un’occasione per ripresentare una grande iniziativa degli studi storici, e precisamente la nuova edizione della Storia ecumenica della Chiesa, apparsa in lingua tedesca, e in traduzione italiana 2009-2010. L’opera per sé non intende favorire l’unità ecumenica, e non ha carattere confessionale, trattandosi di un’opera storica, che presenta la storia delle Chiese affidabile in quanto ogni capitolo è firmato da uno storico competente del periodo storico considerato, ma è stato discusso da storici delle diverse principali confessioni cristiane: Chiesa cattolica, Chiesa evangelica e Chiesa ortodossa. Quindi ogni capitolo porta praticamente tre firme, anche se ne è indicata soltanto una e precisamente quella dello storico che ha steso il testo, previa consultazione, dicussione e accordi storiografici con storici di diversa confessione cristiana. La Storia ecumenica della Chiesa rappresenta un’opera di prima grandezza nel suo impegno storiografico di tutta ampiezza: l’ampiezza della Chiesa universale ed ecumenica.
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Riproduciamo l’Introduzione all’edizione italiana di Alberto Melloni, “Le Chiese e la storia”.
In questo inizio di secolo s’è molto accresciuta la percezione che l’uso pubblico della storia costituisce al tempo stesso un fatto e un problema. Da sempre infatti la conoscenza del passato ha avuto a che fare con un presente che innesca le domande, spinge la ricerca, le dà uno statuto pubblico e inevitabilmente ne condiziona il racconto. Ma non da molti secoli il mestiere dello storico si è concepito come un’arte nella quale – al netto della conoscenza delle fonti – l’accumulazione di conoscenze generali e bibliografiche doveva permettere una maggiore consapevolezza di quei condizionamenti, un loro disciplinamento e, per quel poco di vita che un libro di storia può avere nello spazio e nel tempo, una loro possibile neutralizzazione.
In questa operazione coessenziale al lavoro critico lo studio della vicenda cristiana, ci ha insegnato Marrou, s’è trovato davanti se non prima, certo con una maggior forza, la pretesa di un presente tutto particolare come il presente delle chiese e del loro potere. Infatti come ogni studioso, anche lo storico della chiesa ha sempre avuto come committente un potere: da Eusebio di Cesarea che racconta la storia legittimante dell’impero cristianizzato ai redattori del Liber Pontificalis della cristianità latina medievale, dai centuriatori di Magdeburgo a Cesare Baronio, su fino ai grandi studiosi dell’Ottocento e del Novecento, non esiste uno studioso che non sia messo in grado di fare ciò che vuol fare da un potere politico, da una constituency confessionale, da una strutturazione accademica nella quale ancora una volta la politica o la confessione hanno modo di far sentire la ruvidità dei loro interessi. Basti pensare per la Germania all’effetto avuto dalle condanne di teologi cattolici nel postconcilio, che per questo hanno perso il loro status di professori nelle loro facoltà, o per l’Italia, andando appena più indietro, alla sorte di Ernesto Buonaiuti, il modernista scomunicato, diventato professore di storia del cristianesimo nell’Università di Roma, di cui il card. Gasparri, a margine della firma dei Patti Lateranensi del 1929, domanda la rimozione al Duce. Nelle società democratiche e costituzionali la tutela della libertà accademica ha certo attenuato questo vincolo e protetto l’autonomia dello studioso, anche con formule molto alte.
Ma alla fine ciò che davvero garantisce la libertà della ricerca e il disciplinamento delle ideologizzazioni corrive alle mode culturali e controculturali, non è tanto né solo la neutralizzazione del committente, ma la scelta dei destinatari ultimi del proprio lavoro. Perché su quello si esercita la più piena delle libertà dello studioso di storia e anche della storia del cristianesimo. C’è una tradizione storiografica non sempre di basso livello che identifica il destinatario nel committente. Ed è a quel potere che rende conto: gli fornisce una ricostruzione del sé funzionale alla sua immagine e alle sue ambizioni ora attraverso visibili forzature, altre volte facendo semplicemente coincidere la realtà con le motivazioni del soggetto e riportando a viva forza i fatti a schemi ideologicamente gratificanti.
Ed è qui che la storia della chiesa, specie dopo il secolo XVI, specie in paesi confessionalmente plurali come quelli del centro Europa, ha adempiuto una funzione fondamentale: cioè rendere conto in modo rassicurante della spaccatura confessionale. Spiegare cioè che chi non aderiva alla
‘vera chiesa’ altro non era che l’erede di una fermentazione ereticale che non aveva mai potuto prevalere o viceversa il prolungamento di una ruggine putrefattiva che l’impulso riformatore aveva sempre battuto in breccia. Così la storiografia confessionale è stata l’antesignano di un uso pubblico della storia ed è diventata parte della (in)cultura della controversia.
Il lettore italiano non ha bisogno di troppi esempi: ma converrà ricordare che ancora nel 1980 un settimanale di destra come Il Sabato andava all’attacco d’una figura di inarrivabile purezza morale e dogmatica come Giuseppe Lazzati accusandolo di essere un ‘neoprotestante’, come se quell’epiteto potesse riassumere (ed ex parte loquentis riassumeva...) le peggiori cose che un cattolico possa dire di un uomo. Oppure, anche senza scendere nel fango della pubblicistica, si potrà rilevare che in applicazione degli accordi di Villa Madama, siglati da Agostino Casaroli e Bettino Craxi nel 1983, nelle scuole italiane d’ogni ordine si somministra l’IRC, l’insegnamento della ‘religione’ cattolica: insegnamento che, com’era scontato da tutti i punti di vista, non ha prodotto certo benefici alla pratica religiosa o alla pubblica moralità, ma che non ha neppure comunicato una conoscenza minimale della Bibbia o della storia religiosa del mondo e del paese, come dimostrano i terrificanti sondaggi sulla familiarità con le Scritture o le scelte di marketing delle case editrici che hanno ristampato nel 2008/9 una nuova versione del testo biblico valorizzando il patrocinio di commentatori e curatori resi autorevoli dalla luminescenza televisiva. Così la storia del cristianesimo rimane una cosa oscura, di cui solo pochissime zone vengono illuminate dall’affiorare nella pubblica opinione di polemiche violente ed effimere che volta a volta puntano sui templari, sull’Opus Dei, su Pio XII, quando il sistema dello spettacolo dei media decide di strapparli dal silenzio per farli oggetto di diatribe di poco costrutto. Destinate – sia notato per inciso – ad ingigantirsi nel momento in cui, nel quadro di una necessaria razionalizzazione delle discipline insegnate nelle università italiane, la storia del cristianesimo cessa di esistere come comunità scientifica autonoma e finisce ‘accorpata’ ad altre discipline con le quali dovrà condividere il miglio verde delle scienze condannate alla marginalità da errori propri e altrui.
Per questo lettore italiano, dunque, che si avvicina alla storia della chiesa attraverso qualche residuo d’insegnamento universitario nelle facoltà di Stato, in quelle teologiche o pontificie, questa nuova edizione della Storia ecumenica della chiesa costituisce uno strumento assai importante: non solo per ciò che contiene e per le intenzioni a cui obbedisce, ma per il destinatario che si dà. Com’è noto fra il 1970 e il 1974 Raymund Kottje e Bernd Moeller avevano già curato una Storia ecumenica della chiesa in tre volumi, tradotta in italiano da Queriniana e prefata da Giuseppe Alberigo. Quello sforzo di allora metteva assieme, per la prima volta, storici e teologi di facoltà cattoliche e protestanti, dirimpettai in tante università tedesche e autori di monografie e manuali ‘indipendenti’ sul piano confessionale: rispondeva alla grande primavera ecumenica che aveva fatto toccare con mano le possibilità del dialogo bilaterale e di quello multilaterale e portava i segni (primo fra tutti la mancanza di una parte sulle chiese ortodosse in età moderna e contemporanea) dell’Europa pre-1989. Ma già allora era chiaro che l’opera non si proponeva come destinatario un ‘pubblico’ da ecumenicizzare con parole dolci, smussando le distanze, attenuando i conflitti, derubricando la violenza consumatasi fra cristiani a malinteso. Al contrario si proponeva di dotare il metodo ecumenico (circoscrivere il conflitto enucleandone tutti i punti e gli spigoli) di una conoscenza più diffusa della tradizione dell’altro, di fornire una base oggettiva e scientificamente solida di un passato che gioca nel presente di tutti e continuamente si offre come una tastiera di potenzialità accrescitive o deprimenti rispetto alle opportunità di una rigorosa comprensione del passato e del presente.
Oggi, lo dichiarano i curatori dei tre nuovi volumi, quella intenzione non è mutata, ma è stata aggiornata alla luce di progressi della ricerca scientifica che hanno ampliato le aree di consenso storico-critico: è cambiata la periodizzazione, lasciando al terzo volume i due secoli che separano la rivoluzione francese dalla caduta del muro di Berlino; è cambiata la tavolozza confessionale con uno spazio maggiore dedicato alle ortodossie siriache, non calcedonesi e bizantine; è molto mutato il panorama degli autori sia per il significativo investimento su una giovane generazione di studiosi, sia per il necessario ricambio imposto dal correre del tempo, che ha privato l’opera di alcuni dei suoi collaboratori di allora. Anche l’orizzonte extraeuropeo si è allargato un poco e le bibliografie, pur pensate per un lettore tedesco, hanno dovuto tener conto della traslatio verso gli Stati Uniti di un primato nella ricerca storica e teologica che un tempo era peculio tedesco, con qualche concorrenza francofona e qualche propaggine italofona.
Rimane però intatta e a mio avviso assai valida la scelta di fondo sui destinatari di quest’opera: lettori di qualsiasi o nessun orientamento confessionale, desiderosi però di formarsi una conoscenza diretta e propria di una storia d’insieme di cui la cultura generale di questo continente è priva, anche se inciampa di continuo in queste buche di conoscenza vaste e più pericolose oggi che la cornice istituzionale europea ha definitivamente variato le idee di confine e di centro valide quarant’anni fa. E ai curatori dei tre volumi, agli autori e all’editore sia tedesco che italiano, si deve essere grati di aver prodotto questo strumento di studio.
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