José Comblin si trovava all’interno del Nordeste brasiliano, mentre stava prestando servizio a un incontro di formazione di leader di comunità ecclesiali di base, quando il suo cuore ha cessato di battere. Ha così portato a termine, con totale coerenza, una vita pellegrina di teologo a favore del vangelo per i poveri. Lascia una lunga lista bibliografica di 68 libri e 309 articoli, oltre a conferenze e a interviste rilasciate e pubblicate in forma sparsa per tutta l’America latina.
1/ In Brasile
In primo luogo José è stato un patriarca tra le comunità ecclesiali di base e nel modo di fare teologia in prospettiva di liberazione dei poveri secondo il vangelo. Come un patriarca abramico, egli lasciò, ancora giovane, la sua patria, il Belgio. Laureatosi a Lovanio, dopo tre anni dedicati alla pastorale parrocchiale nella sua terra, e dopo che il suo fratello sacerdote emigrò per l’Africa, nel 1958 egli emigrò per l’America latina, nello spirito di Fidei donum, l’enciclica del 1957 di Pio XII (un invito ai sacerdoti diocesani ad andare missionari in Africa e America latina). Dopo alcuni anni come professore e formatore in seminario e assistente dell’Azione cattolica a São Paulo, già critico nei confronti dell’Azione cattolica intesa come longa manus del clero e per il suo metodo “dall’alto al basso”, alla fine degli anni Sessanta Comblin si trova a fianco di dom Hélder Câmara a Recife.
Dalla voce dolce e quasi timida, sempre con un sorriso di buon umore, Comblin è stato coinvolto in tutte le tappe di formazione della teologia latinoamericana. Ha sottoposto a un dibattito critico la “teologia dello sviluppo”. A fronte delle dittature militari e dei conflitti politici ha scritto sulla “teologia della rivoluzione”, esaminandone le possibilità in forma critica. Accanto a Gustavo Gutiérrez ha accompagnato e ha fornito assistenza teologica ad alcuni vescovi per l’assemblea più celebre dei vescovi conciliari, quella tenutasi a Medellín, e ha aderito profondamente alla “teologia della liberazione”: ha contribuito a sviluppare il suo metodo, il suo luogo teologico, la sua ermeneutica evangelica, la sua posizione pratica nella vita del popolo e nella base della chiesa.
Tra i patriarchi della teologia della liberazione, Comblin si colloca tra quanti, nati in Europa e nell’America settentrionale, venendo con spirito missionario, si sono rivelati più latinoamericani di coloro che sono nati in America latina. Ci sono innumerevoli esempi di spostamento di luogo geografico e sociale che, come lui, hanno determinato uno spostamento non solo pastorale, ma anche teologico ed ecclesiologico, se non addirittura mistico. Inserito in comunità povere, nella formazione del clero, nelle conferenze alle università, nelle assemblee diocesane, nei diversi centri accademici nei quali tenne corsi e lezioni, quello che gli interessava era la vita del popolo e il vangelo con il suo potere di liberazione dei poveri. E da lì che partiva la sua visione critica della chiesa.
In secondo luogo José Comblin è stato un maestro. Ha scritto e parlato sui più diversi argomenti per comprendere la società e la persona umana, le relazioni tra chiesa e società in prospettiva storica e secondo le esigenze evangeliche che queste relazioni impongono alla chiesa. Ma egli amava soprattutto la relazione circolare tra il vangelo e i poveri. Le sue analisi gli richiedevano molte letture, cosa che egli faceva in ogni luogo e circostanza; ma praticava anche molto dialogo, con vivo interesse per la vita degli interlocutori, fossero essi importanti ecclesiastici, accademici o la gente dei quartieri popolari nei quali sempre dimorava. Comblin è diventato un riferimento per analisi di ordine internazionale e nazionale nei diversi livelli: economico, politico, culturale, ecclesiale e teologico, in quasi tutti i congressi annuali della Società di teologia e scienze della religione del Brasile, così come faceva anche in altri paesi, regolarmente in Cile. Le sue analisi anticipavano la comprensione comune degli avvenimenti, preparando i suoi lettori e ascoltatori a quanto stava per accadere o per svilupparsi. Per questo fu un maestro esigente all’interno della teologia della liberazione.
In terzo luogo Comblin era un profeta. I suoi criteri di elaborazione teologica coerenti con la buona novella ai poveri lo hanno portato anche nel cuore di conflitti politici ed ecclesiastici dell’America latina, anche se lui non perdeva mai la voce dolce e il pensiero pacato. La sua espulsione fu chiesta sulla pubblica piazza dall’organizzazione Tradição, Família e Propriedade [Tradizione, Famiglia e Proprietà]. Minacciato innumerevoli volte, venne infine espulso dalla dittatura brasiliana nel 1970 e andò a stabilirsi in Cile. Intanto scriveva su uno dei problemi che più colpivano le società latinoamericane sotto dittatura: A Lei de Segurança Nacionial e suas injusticias [La legge di sicurezza nazionale e le sue ingiustizie]. Quando, nel 1980, fu espulso dalla dittatura del Cile, anche se in quel paese la dittatura veniva attuata con discrezione, se ne tornò in Brasile, che nel frattempo cominciava a uscire dallo stato di dittatura.
Accanto a dom Hélder Câmara subì incomprensioni e sofferenze continue, persino per mano della chiesa, la quale chiuse l’Istituto di teologia di Recife, opponendosi di conseguenza al metodo di formazione dei sacerdoti per quella regione. Comblin continuò con la “teologia della zappa”: innumerevoli corsi di teologia pastorale per formare ministri popolari e leader di comunità ecclesiali di base, utilizzando una metodologia simile quella di Paulo Freire e di Ivan Illich. Non fu un profeta angosciato, e a coloro che si lamentavano per il neoconservatorismo repressivo delle autorità ecclesiastiche soleva rispondere con umore: nelle periferie delle istituzioni rimane sempre uno spazio enorme per la creatività dell’evangelizzazione. Egli, di fatto, si sentiva privilegiato per non aver bisogno di legami formali con il mondo accademico ed ecclesiastico, anche se promoveva la serietà accademica della teologia. Ma era solito affermare con forza che, in ambienti formali, anche le migliori profezie rimangono lettera morta.
Negli ultimi tempi, a più di ottant’anni, cambiò di nuovo residenza, andando a vivere nella diocesi di un vescovo con atteggiamento profetico, nell’interno semi-arido dello Stato di Bahia. Diceva che a lui, sacerdote diocesano, conveniva aspettare la morte vicino a un vescovo-profeta. E scriveva sulla relazione tra religione e fede, sulla situazione ecclesiastica di poca fede ed eccessivo apparato religioso, e sulla necessità ecclesiale di una fede più forte con una religione semplice. Non esattamente come Karl Barth o Jacques Ellul, ma nella forma di un profeta cristiano, di un sacerdote che vive vicino al popolo semplice, che apprezza la religione dei semplici in ragione della grande fede che muove i semplici. Elogiava dom Hélder, ma sappiamo che ebbe una parte in ciò che dom Hélder diventò. I titoli, più che un epitaffio, sono un’eredità: patriarca, maestro, profeta cristiano.
2/ In El Salvador
Oscar Beozzo lo dice «maestro», Leonardo Boff, «una sfida all’intelligenza accademica», Henrique L. Alvez, «guida inquieta ed esigente come gli antichi profeti, che denuncia sempre le nostre incoerenze nella fedeltà ai prediletti di Dio». Per noi era un cristiano radicale, seguace del vangelo senza esibizionismo. Si tenne sempre libero per poter stare in sintonia con Gesù di Nazaret e il suo Dio. Era un intellettuale, teologo consumato, costitutivamente libero dal pensare a partire dal politicamente corretto, e un analista con la capacità poco frequente di captare il “nocciolo” della realtà. Da lui abbiamo ascoltato quello che si preparava con il pontificato di Giovanni Paolo II: rifiuto del cristianesimo liberatore, sostegno a ogni movimento della destra ed esclusione delle comunità di base. Lo abbiamo udito profetizzare la valanga di strumenti usati nell’evangelizzazione, l’aura eccessivamente solenne e l’apoteosi nella pastorale da cui è stata inondata la chiesa cattolica. E ha colto nel segno. Aveva inoltre fiducia: «È possibile che irrompa una seconda Medellín». Che possiamo aggiungere a partire da El Salvador? Poche cose, ma di grande significato.
Comblin ha partecipato al primo Congresso internazionale di teologia celebrato all’Università cattolica dell’America centrale di El Salvador (2005). Ha parlato dei padri della chiesa latinoamericana, pensiero suo che è ormai diventato classico. E ha incitato a pubblicare gli scritti di quei padri. Si è felicitato con l’Università cattolica dell’America centrale per aver pubblicato, in edizione critica, le opere complete di monsignor Oscar Romero. A livello personale ha sempre appoggiato con totale impegno i vescovi del popolo: fu vicino a dom Hélder Câmara, visse per lunghi anni con dom José María Pires, e da ultimo con dom Luiz Cápio.
Nel 2010 venne per l’ultima volta in El Salvador, al secondo Congresso di teologia. Parlò, senza scoraggiarsi, di un tema delicato e decisivo. Il cristianesimo è fede, e viene dal vangelo; la religione invece la facciamo noi. Per necessità bisogna stare nella seconda, criticamente, ma si deve vivere del primo, fortunatamente. E la lettera di accettazione che ci aveva scritto era sincera: «Chiaramente accetto l’invito. Tutto, però, dipende da una circostanza. Avrò 87 anni e non so se li celebrerò su questa terra o al purgatorio. Il Signore non me lo ha ancora comunicato».
In El Salvador suonano splendide le parole che Comblin ha ripetuto per decenni, fino al giorno d’oggi: «La verità è che il mondo è diviso in oppressori e oppressi. I primi sono minoranze; i secondi immense maggioranze». Non si dà globalizzazione. L’umanità non si sta facendo omogenea, per non dire fraterna, ma continua ad essere antagonistica. E segnalò la carenza di Aparecida per non aver messo al centro questo conflitto nella cristologia.
In questa realtà antagonistica, Comblin ha insistito sul primato dei poveri: è importante ricordarlo. In El Salvador per lui la prima cosa è sempre stata il mondo dei poveri. Fu a Perquín, luogo duramente colpito durante la guerra, dove lavora il suo amico Rogelio Ponseele, e al Bajo Lempa, dove lavora il suo amico Pedro Leclerq. Da tutto ciò ho compreso le sue parole programmatiche: «Nei mezzi di comunicazione si parla dei poveri sempre in termini negativi, come di coloro che non posseggono beni, non hanno cultura, non hanno da mangiare. Visto dall’esterno, il mondo dei poveri è tutto negatività. Tuttavia, visto dal di dentro, il mondo dei poveri ha vitalità: lottano per sopravvivere, inventano lavori informali e costruiscono una civiltà diversa di solidarietà, di persone che si riconoscono uguali, con forme di espressione proprie, compresa l’arte e la poesia». Quando compì ottant’anni stava già a São Paulo e lo sentii dire: «Tenere fede è molto facile. Non c’è altro che guardare i poveri». Ho ricordato la sua permanenza tra noi.
Credo che venisse a El Salvador anche per stare con monsignor Oscar Romero. Dopo il Congresso, andammo in cattedrale per celebrare l’eucaristia dell’anniversario di Romero, e potei osservarlo con attenzione. Al termine dell’omelia ufficiale tenuta in quell’occasione, Comblin schiettamente la definì convenzionale. Era il Comblin onesto, libero ed evangelico. Di più mi sorprese la sua devozione. Benché lontano dall’altare, partecipava alla liturgia, raccolto, con camice e stola. Rispondeva come un semplice fedele, recitava il Padre nostro tenendo la mano di altri e dava la pace alle persone che gli stavano vicine. Monsignor Romero, e la presenza di Dio, gli ispiravano devozione.
È mancato con la penna in mano e la mente lucida, e anche camminando, pur trascinando i piedi. All’Università dell’America centrale già si notava che era invalido. Ma continuava lo stesso. E questo mi fece ricordare un’altra eucaristia che avevamo celebrato in Messico nel 1992. Tenendo l’ostia in mano, ce la offrì con queste parole: «Che il corpo di Cristo ci accompagni fino all’ultima lotta».
José Comblin è stato in molti luoghi. In Brasile e in Cile fu perseguitato ed espulso dalle dittature. Ha accompagnato molte comunità. Ha partecipato a molti congressi. Ha scritto innumerevoli libri e articoli. Ha tenuto molte conferenze. Ha fatto tutto ciò fino ad ottantotto anni. In El Salvador ci viene in mente monsignor Romero: i suoi anni sono stati molto pochi, tre; ma la tempra fu la stessa: «fino all’ultima lotta». È quanto ci ha lasciato Comblin.
© 2011 by Editrice Queriniana. Da: Concilium 4/2011
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