In occasione dell’uscita italiana del suo libro, Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio (BTC 206), Anthony Godzieba – docente di teologia e religious studies presso la Villanova University in Pennsylvania, USA – ci ha concesso questa densa intervista, che volentieri proponiamo ai nostri lettori e lettrici.
Prima di rispondere, desidero esprimere la mia gratitudine all’Editrice Queriniana, per aver ritenuto che il mio libro meritasse di essere pubblicato in italiano. Quando il mio amico Kurt Appel me ne parlò per la prima volta, mi sembrò una fantasia – chi mai avrebbe voluto leggere questo libro al di fuori del mondo anglosassone? Eppure, il suo suggerimento è stato fecondo e io sono onorato che la Queriniana abbia inserito il mio testo nella collana che include molti teologi dei quali ho ammirato le opere fondamentali e sui quali ho fatto affidamento nel corso della mia carriera.
D: Se dovesse riassumere il contenuto del suo libro in una frase, quale sarebbe?
R: In un mondo guidato dal consumismo, tecnologizzato e colpito da una pandemia, possiamo ancora sperimentare il mistero di Dio concentrandoci sulla rivelazione che «Dio è amore» (1 Gv 4,16) e sul carattere di Dio fondamentalmente dialettico – l’accessibilità divina (“la presenza”) e l’eccesso divino (“l’assenza”). Il libro indaga il modo in cui la nostra esperienza umana rimane aperta alla trascendenza divina, il modo in cui questa apertura incontra la rivelazione di Dio come persona e come Trinità, e come la nostra realizzazione concreta di discepolato sia la modalità più autentica di partecipare al mistero dell’amore di Dio.
D: Saprebbe descriverci l’identikit del suo lettore ideale? A chi ha pensato scrivendo questo libro?
R: In realtà, ci sono tre lettori ideali:
1) Un generico lettore, colto e interessato che si pone domande profonde su Dio e sulla fede;
2) Studenti di teologia e di scienze religiose che stanno studiando la storia delle dottrine di Dio e della Trinità (i capitoli 2, 3 e 4 provengono dalle lezioni del corso universitario che tengo su Dio);
3) Colleghi teologi interessati a una prospettiva peculiare su Dio in dialogo con la filosofia continentale contemporanea e (per dirla con le parole di un recensore) in cerca di «un’esplorazione fresca e piuttosto completa di un territorio, spesso indagato in maniera troppo superficiale nella teologia moderna».
Pertanto, il libro segue lo stile di alcuni dei grandi “classici” europei di teologia, che esaminano la storia della dottrina offrendo al contempo un contributo originale alla discussione.
D: Parlare di «presenza e assenza di Dio», per molti lettori, richiama la questione dell’interesse di Dio per le sue creature, fino al problema del male. Nell’odierna situazione di pandemia e di paura, che immagine di Dio offre il suo libro? Come può infondere speranza?
R: Il punto centrale del libro è l’enfasi posta sul concetto che Dio è amore (1 Gv 4,16) e che questo dono trascendente e persino sorprendente di relazione con Dio – al contempo universale e profondamente personale – fonda tutta la realtà. Nel capitolo conclusivo cito l’affermazione del teologo e vescovo Klaus Hemmerle di un «doppio a priori»: l’autorivelazione di Dio si verifica nelle condizioni dell’esperienza umana, e la possibilità stessa dell’esperienza umana si fonda su Dio, la cui discrezione le concede la libertà di esserci. La nostra speranza si basa su questa grazia divina eternamente traboccante che satura la realtà, il dono straordinario che è disponibile nelle ordinarie realizzazioni di discepolato, di amore e di cura per gli altri. Sebbene si possano elaborare davvero molte teorie sulla grazia e sull’amore di Dio, l’amore divino è accessibile innanzitutto e soprattutto in queste realizzazioni, e la nostra partecipazione al suo amore avviene fondamentalmente nella realizzazione – «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Sono convinto che questo concetto, per cui l’amore infinito di Dio viene mediato da eventi ordinari, sia a fondamento dell’affermazione di papa Francesco che la pandemia, seppur drammatica, non è una disgrazia bensì un’opportunità, perché ci ha costretti a vedere come ogni cosa e ogni vita siano connesse. I cristiani spiegano questa connessione dando come «ragione della speranza che è in noi» (1 Pt 3,15) il dono dell’amore di Dio, che promette il compimento personale cui anelano i nostri cuori inquieti, e sopravvive alla malattia, alla disgrazia e alla morte.
D: Da dove nasce il suo interesse e la sua attenzione per il mondo dell’arte, in particolare quella italiana rappresentata dal Caravaggio?
R: Parte della mia formazione proviene dalla musica, in particolare dalla “musica antica” (rinascimentale e barocca, e in special modo Bach). Questo mi ha portato a prestare particolare attenzione al contesto di quella musica, alla sua sensibilità estetica e, in senso più ampio, al suo ambiente culturale. L’arte e la musica mi aiutano a tenere insieme la mia ricerca filosofica sull’esperienza e la corporeità (sotto l’influenza dell’opera di Maurice Merleau-Ponty) e la mia sensibilità teologica per l’immaginario incarnato e sacramentale del cattolicesimo. Circa vent’anni fa ho scritto un articolo intitolato Caravaggio, teologo. Sono stato sopraffatto dal suo modo seicentesco di declinare quell’immaginario cattolico, che si esprimeva nel modo sbalorditivo di trattare i corpi e la luce – raffigurazione di come il finito media l’infinito, il naturale media il soprannaturale. Esso metteva in luce uno dei tasselli mancanti nella nostra storia tradizionale della teologia, che salta da Trento al Vaticano II e tende a dimenticare l’importanza della “prima modernità” per la pratica e la fede cattolica. Caravaggio e i suoi contemporanei forniscono una testimonianza visiva dell’antropologia teologica ottimistica che l’umanesimo rinascimentale ha riscoperto e ha trasmesso alla Controriforma e poi al barocco cattolico: possiamo essere fiduciosi circa la condizione umana grazie all’incarnazione e all’azione continua della grazia. Si può percepire questa stessa positività nella musica sacra di Monteverdi e dei suoi contemporanei. Il fattore sorprendente in tutto ciò: nel XVI e XVII secolo, quando si contestava con forza tutto quanto si riteneva “cattolico”, proprio l’arte sacra e la musica cattoliche “in-scenarono” questa fede ottimistica nell’incarnazione enfatizzando il corpo e le emozioni. La pittura (per es., Caravaggio, i fratelli Caracci), la scultura (per es., la Teresa d’Avila e la Beata Ludovica Albertoni del Bernini), e la musica (per es., i vespri di Monteverdi, Cavalli ecc.) svilupparono una miscela potente d’emozioni, colori e suoni che stimolavano la devozione affettiva.
D: Quali libri o personalità hanno segnato la sua formazione teologica?
R: Ho studiato la filosofia continentale, in particolare la fenomenologia classica (Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty), prima di dedicarmi alla teologia. I miei studi filosofici sull’ermeneutica (Gadamer), la soggettività, l’esperienza incarnata e la critica dell’ontoteologia, hanno rappresentato i fattori salienti nel mio lavoro di teologo, così come i miei studi sui temi della modernità e la postmodernità. L’esegesi neotestamentaria e gli studi sul Gesù storico hanno avuto un impatto profondo sul mio lavoro, come pure quei teologi dell’aggiornamento della generazione precedente [alla mia], per i quali la profonda conoscenza delle Scritture e della storia della teologia cristiana era strettamente connessa al desiderio di dialogare con l’esperienza contemporanea (Schillebeeckx, Kasper, Bernhard Welte, l’antropologia trascendentale di Rahner). Il mio Doktorvater [relatore di dottorato] e buon amico, Francis Schüssler Fiorenza, ha avuto una grande influenza su di me, dando forma al come essere un teologo dalle solide basi filosofiche, pur rimanendo concentrato sulla «fede che ricerca la comprensione». Le discussioni che ho avuto nel corso degli anni con il mio amico Lieven Boeve sull’“interruzione”, sulla particolarità e sulla narrazione aperta di Gesù riguardo al regno di Dio, hanno spinto le mie ricerche verso aree estremamente fruttuose. Infine, la musicologia e gli studi sulle pratiche di esecuzione (incentrati su Bach e i suoi contemporanei) hanno avuto un impatto sul mio pensiero teologico maggiore di quanto io riesca a descrivere.
D: L’Editrice Queriniana ha l’onore di aver pubblicato numerosi libri del card. Kasper, cui lei chiaramente si ispira e si richiama in questo lavoro. Che legame sente di avere con il card. Kasper? Oggi, tra i teologi più o meno emergenti, chi suscita il suo interesse? con chi le piacerebbe confrontarsi?
R: La teologia del cardinal Kasper, sempre svolta al servizio della chiesa, mostra uno squisito equilibrio di fede e ragione: una profonda conoscenza delle fonti bibliche; una formidabile padronanza dei dettagli della storia delle dottrine cristiane; un’acuta comprensione dell’importanza della filosofia moderna e contemporanea per la teologia contemporanea; un’attenzione particolare al valore della sequela di Gesù per la nostra partecipazione alla vita divina; e una profonda applicazione spirituale dei risultati delle sue riflessioni alla nostra situazione attuale. Il suo libro su Dio (Il Dio di Gesù Cristo) è un esempio eccellente di tutto ciò, e io mi sono impegnato a perseguire un equilibrio analogo nella mia opera. La breve descrizione resa da Kasper della nostra connessione fondamentale con Dio, che cito nel libro, è geniale: «Questo mistero dell’amore di Dio è la risposta al mistero del mondo e dell’uomo, la risposta alla profonda brama che l’uomo sente di essere amato ed accettato».
Teologi emergenti o affermati che vorrei segnalare ai lettori italiani:
- Lieven Boeve: la sua “teologia dell’interruzione”, il suo lavoro sulla de-tradizionalizzazione nel cristianesimo e i suoi scritti sulla formazione religiosa.
- Joseph Stephen O’Leary: la sua costruzione di una teologia fondamentale dopo la critica della metafisica e dell’ontoteologia di Heidegger.
- Judith Gruber: il suo lavoro sull’intersezione fra teologia sistematica e i critical cultural studies (la teologia dopo la “svolta culturale”).
- Emmanuel Falque: la sua opera importante sulla presenza sacramentale e sull’intersezione fra teologia e filosofia.
- Infine, l’opera Foundational Theology: Jesus and the Church (1984) di Francis Schüssler Fiorenza, un classico che meriterebbe una traduzione in lingua italiana.
Teologi con i quali mi piacerebbe confrontarmi? Non penso alla teologia come a una serie di confronti su posizioni contrapposte. Ce n’è già a sufficienza in teologia, di sinistra contro destra, noi contro loro! Per me, una teologia cristiana autentica è una conversazione a più voci, che prende avvio dalla fede comune nel Dio uno e trino e che considera quale proprio compito a breve termine quello di rispondere alle urgenti questioni attuali (dando «ragione della speranza che è in noi», 1 Pt 3,15), e come compito a lungo termine quello di essere fides quaerens intellectum, una «fede che ricerca la comprensione» (sant’Anselmo).
D: Se guardiamo al futuro, quali sono i suoi progetti? Ha qualcosa in cantiere?
R: Il mio progetto principale attualmente riguarda una ricerca sull’intersezione tra arte, musica, teologia e spiritualità, in particolare per quanto riguarda il loro legame con i concetti di embodiment (incarnazione) e di sacramentality (sacramentalità) – al fine di vedere quale valore possano avere per il cattolicesimo contemporaneo nel confronto con la (post)post-modernità e in special modo con una cultura consumistica estetizzata.
Sto anche lavorando a un progetto sul metodo teologico, che prevede l’elaborazione di una “ermeneutica della “rappresentazione” e di un’estetica teologica fondamentale, combinate per spiegare la fede e la vita cristiane in modo più adeguato rispetto ai metodi basati sul ritorno dell’estetica neoplatonica o della “svolta linguistica” della fine del XX secolo.
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