24/01/2007
85. Riflessioni di un ex prigioniero di Auschwitz di Wladyslaw Bartoszewski
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In occasione della Giornata della Memoria, 27 gennaio,

Giornale di teologia pubblica il breve libro
Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz”.

Il libro riporta il discorso di Benedetto XVI nel campo di concentramento di Auschwitz, dove pone la domanda “Dove era Dio?”.
Segue un saggio del filosofo e teologo ebraico Arthur Cohen sul
Tremendum dell’Olocausto.
Seguono le riflessioni di Wladyslaw Bartoszewski, ex prigioniero di Auschwitz, e poi diplomatico e politico della Polonia (testo qui riportato).
Conclude un saggio intenso di Johann Baptist Metz dal punto di vista della teologia cristiana.



Per me, ex detenuto polacco di Auschwitz, è stata un’esperienza inimmaginabile e profondamente toccante poter partecipare per la seconda volta all’incontro con la suprema autorità della Chiesa cattolica ad Auschwitz-Birkenau. La prima volta in cui mi è stata data una tale possibilità fu nel giugno 1979, in occasione della visita del papa polacco Giovanni Paolo II.

Inimmaginabile per il fatto che, prima, già una volta io mi sono trovato sul piazzale dell’appello di Auschwitz I, nel settembre 1940, quando avevo solo 18 anni, prigioniero numero 4427, detenuto per motivi di sicurezza, insieme con 5500 altri polacchi: studenti, boy scout, insegnanti, avvocati, medici, sacerdoti, ufficiali dell’esercito polacco, membri di diversi partiti politici e di sindacati. Non riuscivo ad immaginarmi che sarei sopravvissuto ad Hitler e alla seconda guerra mondiale; e neppure che Auschwitz – in quanto Auschwitz-Birkenau e Monowitz - dovesse servire alla attuazione dell’impensabile disegno di eliminare biologicamente gli ebrei europei.

Nei primi quindici mesi di esistenza di questo luogo terribile eravamo – noi detenuti polacchi – abbandonati a noi stessi. Il mondo libero non si interessava alla nostra sofferenza e alla nostra morte, nonostante ripetuti tentativi della organizzazione segreta della resistenza, attiva all’interno del campo, di garantire informazioni all’esterno. Nella tarda estate del 1941 arrivarono ad Auschwitz alcune decine di migliaia di prigionieri di guerra facenti parte dell’esercito sovietico, e su di essi - come pure su detenuti politici polacchi ammalati – venne sperimentato, nel settembre 1941, l’effetto del gas tossico Zyklon B. Nessuno dei detenuti poteva allora immaginarsi che si trattava ‘semplicemente’ di un tentativo assassino per predisporre un genocidio di massa con metodi industriali. E però questa era la realtà negli anni 1942, 1943 e 1944. La costruzione di camere a gas e di forni crematori, la loro terrificante capacità operativa è soltanto il lato tecnico di un’impresa diabolica. In Polonia, nella patria di David Ben Gurion, di Shimon Peres, ma anche di Isaak Bashevis Singer, Artur Rubinstein e Menachem Begin, dopo la decisione di Berlino è sorto un centro di annientamento degli ebrei. Ad Auschwiz-Birkenau i tedeschi trattavano i polacchi e i russi come ‘sottouomini’, mentre gli ebrei che provenivano da Francia, Belgio, Olanda, Germania e Austria, dai paesi della ex Jugoslavia, da Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia non erano per loro neppure dei sottouomini, ma dei parassiti.

Il movimento polacco della resistenza informava e metteva in allarme il mondo libero. In seguito alla missione di Jan Karski – come pure attraverso altri canali – i governi della Gran Bretagna e degli Stati Uniti sapevano esattamente, già negli ultimi mesi del 1942, ciò che accadeva ad Auschwitz-Birkenau. Nessun paese al mondo reagì in un modo che fosse adeguato all’importanza del problema, all’appello rivolto agli alleati dal ministro degli esteri del governo polacco in esilio a Londra, il 10 dicembre 1942, «di non soltanto condannare i crimini dei tedeschi e punire i responsabili, ma di cercare i mezzi che ponessero effettivamente fine all’assassinio di massa tedesco». Questi mezzi efficaci non furono trovati, e per la verità nessuno li ha cercati in modo particolarmente diligente. In quel momento circa la metà delle vittime era ancora in vita. L’unica conseguenza dell’iniziativa polacca fu una breve dichiarazione di 12 paesi alleati, resa nota il 17 dicembre 1942 contemporaneamente a Londra, Mosca e Washington. In tale dichiarazione, dove Auschwitz-Birkenau del resto non veniva neppure nominata, i governi di Belgio, Cecoslovacchia, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Polonia, USA, Gran Bretagna, URSS e della Jugoslavia, come pure il Comitato nazionale francese, segnalavano che essi erano a conoscenza del terribile destino degli ebrei «in Polonia, che i nazisti avevano trasformato nel loro mattatoio» e promettevano la punizione dei responsabili di questo crimine.

Questo crimine non venne mai punito, poiché non c’è alcuna pena adeguata per un genocidio. Auschwitz-Birkenau, un tempo un luogo segreto per l’annientamento di esseri umani, è tuttavia diventata, per l’intero mondo civilizzato, un simbolo di speciale importanza. Questo ha espresso Benedetto XVI già nella prima parte del suo discorso:
«Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa».

Ad Auschwitz io ero vicino al cardinale Lustiger e al cardinale Dziwisz nel cortile del Blocco XI, quando il Santo Padre, davanti al muro della morte, stava immerso in silenziosa preghiera, e anche noi ci siamo dati la mano, in silenzio. Abbiamo ricordato che anche Karol Wojtyla – da vescovo, da cardinale e infine da papa – aveva visitato questo blocco e la cella dove san Massimiliano Kolbe era stato tormentato a morte. E ho pensato: quanto più profondamente Joseph Ratzinger si identifica con questa tradizione, tanto più egli diventa il nostro Santo Padre.

Il breve incontro di Benedetto XVI con 32 ex detenuti del campo di Auschwitz-Birkenau non è stato convenzionale; il papa ha potuto scambiare qualche parola con ogni singolo. Egli irraggiava calore e umanità semplice, che comunicò a tutti i presenti.

Gli ultimi ex detenuti di Auschwitz-Birkenau ancora viventi, che il 28 maggio 2006, in occasione della visita di Benedetto XVI erano là presenti, hanno il diritto di credere che la loro sofferenza e la morte di quanti furono a loro vicini hanno avuto un senso importante: per un futuro migliore di tutti gli uomini e le donne che vivono in Europa e perfino nel mondo, di qualunque origine etnica o religione essi siano. Possano credere che il ricordo del destino, solo con difficoltà immaginabile, dei detenuti e delle vittime di questo luogo impegnerà le generazioni future ad una vita nel rispetto della dignità dell’altro e all’attiva resistenza contro fenomeni di odio e di disprezzo nei confronti di uomini e donne, in particolare contro le diverse forme di ostilità verso gli stranieri e dell’antisemitismo - anche sotto l’ipocrita nome di copertura di antisionismo.

Noi dobbiamo porre a noi stessi e al mondo la domanda: in quale misura siamo riusciti a trasmettere alle giovani generazioni la verità sulle terribili esperienze del totalitarismo. A mio parere si è fatto molto, ma non basta. Benedetto XVI è venuto qui in qualità di autorità suprema della Chiesa, ma non ha taciuto la sua appartenenza etnica e culturale al popolo tedesco. In questo contesto è legittimo chiedersi se e come la sua presenza ad Auschwitz-Birkenau influenzerà in futuro le relazioni tra polacchi e tedeschi, tra tedeschi ed ebrei, ma anche tra polacchi ed ebrei. L’arcivescovo Henryk Muszynski, il metropolita di Genesen, già presidente del comitato vescovile per il dialogo con l’ebraismo e da settembre 2002 membro della Congregazione romana per la scienza e la fede, ha espresso a questo riguardo – rispondendo alla domanda di un giornalista – una prospettiva degna di attenzione:
«È una cesura che conclude una delle tappe della storia del dopoguerra – la tappa del confronto diretto – e indica con chiarezza la via in direzione della riconciliazione. Dal momento in cui il papa tedesco è entrato nel recinto del campo, dal momento che ha qui pregato e chiesto a Dio la riconciliazione, è aperta una nuova via verso il futuro. La visita del papa ad Auschwitz è stata una cesura sulla strada per la riconciliazione tra polacchi, tedeschi e ebrei. Perciò da oggi in poi nessuno può più mettere in discussione il carattere tridimensionale di questa riconciliazione».

Joseph Ratzinger, pellegrino ad Auschwitz-Birkenau, ha ripercorso senza dubbio le orme del suo predecessore, che egli chiama sempre «il Grande». I suoi passi, i suoi gesti e le sue manifestazioni non dovrebbero essere valutate separate dall’opera e dalla vita di Giovanni Paolo II. La scelta di Auschwitz-Birkenau come luogo di devozione e stazione di pellegrinaggio del primo viaggio all’estero – a prescindere dalla giornata mondiale della gioventù – di Benedetto XVI non è stata di certo casuale. Né si dovrebbe trascurare la sua stessa sintesi del significato di ciò che egli ha vissuto in Polonia. Il 31 maggio 2006, durante l’udienza generale in Vaticano, egli ne parlò in modo chiaro e univoco:
«Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità. Di fronte all’orrore di Auschwitz non c’è altra risposta che la Croce di Cristo: l’Amore sceso fino in fondo all’abisso del male, per salvare l’uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio. Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz e le altre ‘fabbriche di morte’ nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo! Tornino gli uomini a riconoscere che Dio è Padre di tutti e tutti ci chiama in Cristo a costruire insieme un mondo di giustizia, di verità e di pace!».




© 2007 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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