Mentre il mondo dell’editoria, italiano e non solo, sta soffrendo come non mai le ristrettezze imposte, per ragioni sanitarie, alle attività delle librerie e alle iniziative culturali sul territorio, l’Editrice Queriniana non ha fermato i suoi lavori, ma – sfruttando le tecnologie digitali che consentono il lavoro a distanza – continua a preparare libri e riviste per la prossima stagione. La nostra convinzione è infatti quella che il servizio alla cultura, alla teologia e alla pastorale non può venir meno – e che è anzi più urgente e necessario oggi di ieri.
Ecco allora che uno dei nostri editor ci ha segnalato questo passaggio di un testo di “teologia debole”, a firma di John D. Caputo, che uscirà in uno dei prossimi numeri della collana «Giornale di teologia». Scritte in tempi non sospetti, nel 2016, queste riflessioni del filosofo e teologo americano si incentrano su una prosa del mondo, diremmo una ordinarietà piatta e abitudinaria, che viene sconvolta dall’estro irruente della poesia, dall’inatteso. Il segreto, dice Caputo, non sta nell’eludere il nuovo, ma esattamente nell’affermare ostinatamente e coraggiosamente la possibilità dell’impossibile. Lì risiede la nostra responsabilità, così come la nostra passione.
Offriamo volentieri queste poche righe ai nostri lettori e alle nostre lettrici, sperando di fare cosa gradita. E augurando un buon tempo pasquale, all’insegna del Cristo che non si lascia condizionare nemmeno dal freddo del sepolcro scavato nella roccia!
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La prosa del mondo, la nostra esistenza ordinaria e quotidiana, è un groviglio di cose condizionate e costituite che insieme formano la nostra realtà. Questa realtà è caratterizzata da aspettative: quando svoltiamo l’angolo ci aspettiamo di ritrovare la vecchia banca maestosa che è stata lì per anni, non uno stagno ardente di fuoco e di zolfo. Quando sprofondiamo esausti a fine giornata nella nostra poltrona preferita, ci aspettiamo che questa ci sorregga. I nostri orizzonti di aspettative definiscono il confine del futuro che possiamo più o meno prevedere, sul quale facciamo affidamento e per il quale possiamo prepararci. Mettiamo da parte qualche soldo per la vecchiaia o per l’educazione dei nostri figli, e sarebbe da irresponsabili non farlo. Chiamiamo questo futuro il “futuro presente”, nel senso del futuro che prevediamo diventerà presente.
Poi però, immancabilmente, c’è il futuro che non possiamo prevedere, il futuro per cui non possiamo prepararci, il “futuro assoluto”: potremmo non farcela ad arrivare alla vecchiaia, la nostra poltrona preferita alla fine crolla, demoliscono la vecchia banca mentre siamo fuori città. A volte accadono cose che scompaginano il nostro orizzonte di aspettative, in grandi e piccoli modi, nel bene e nel male. Il futuro ci porta dei doni, e alcuni di questi doni sono come veleno. Alcuni cambiamenti imprevisti rappresentano terribili battute d’arresto, così come altri rappresentano dei progressi sorprendenti. Scuotiamo la testa e diciamo: è una pazzia. L’impossibile manda in frantumi il cerchio delle possibilità, lasciandoci instabili e precari, senza un centro di gravità.
Questo è il punto di riferimento di una responsabilità: lì ci viene chiesto di rispondere alla chiamata di un futuro veniente che non possiamo veder sopraggiungere, di prepararci ad essere sorpresi, di preparaci ad essere impreparati. Ci viene chiesto di essere fedeli all’incondizionato, ci viene ingiunto di rispondere all’indecostruibile senza eluderlo, di affermare la possibilità dell’impossibile, di lasciare che la prosa del mondo presente venga interrotta dalla poesia del mondo che verrà. È una passione di fondo per l’impossibile, un’affermazione più profonda dell’incondizionale, senza la quale le nostre forme di vita – la religione, ma anche l’arte e la scienza, l’etica e la politica – sarebbero morte e inerti, non farebbero alcun progresso e si ridurrebbero ad un’infinita ripetizione dell’identico.
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