Nel viaggio apostolico nel Messico (12-18 febbraio 2016), papa Francesco ha visitato in particolare alcune periferie del Messico, ma anche dell’America Latina. Nello specifico ha visitato il Chiapas, regione tra le più abbandonate. E in questa sua visita, in incontri e parole, ha affermato la dignità umana degli Indios, a San Cristóbal de las Casas, e a Tuxtla. E espressione della dignità umana e culturale degli Indios è anche la teologia india, che è andata elaborandosi, dopo la teologia della liberazione. Riprendiamo qui la prefazione del 2004 alla prima presentazione globale di questo fenomeno culturale e teologico del teologo indio (zapateco) Eleazar López Hernández (Teologia india, EMI, Bologna 2004). La teologia india, in definitiva, è il ricupero della sapienzialità e della dimensione religiosa dei popoli nati dai nativi ancestrali.
L’America Latina è una realtà complessa: secondo l’espressione dello scrittore messicano Carlos Fuentes, essa è una indo-afro-ibero-America. In particolare la realtà india corrisponde a più di cinquanta milioni, e abbraccia diversi blocchi culturali e molteplici lingue parlate e scritte. Gli Indios, o Indigeni, sono i discendenti degli abitanti originari di Abya Yala (la Madre Terra), il continente che poi gli europei avrebbero chiamato America. In rapporto a questa realtà originaria, che ha una storia di circa 30mila anni, il politico e scrittore peruviano Raúl Haya de la Torre ha creato il concetto di Indo-America, o Amerindia.
La conquista dei secoli XV-XVI ha rappresentato, secondo la documentata ricostruzione e interpretazione dello storico Tzvetan Todorov ne La conquista dell’America. Il problema dell’«altro» (1982), il più grande genocidio della storia, che aveva trovato denuncia, già ai tempi della conquista, nella Brevísima relación de la destrución de las Indias (1542, pubblicata nel 1552) di Bartolomé de las Casas. Fu una distruzione quantitativa e qualitativa, che ha trovato anche espressione letteraria nell’opera dello scrittore messicano Octavio Paz, Il labirinto della solitudine (1959). Ma anche l’opera di evangelizzazione, subito intrapresa da francescani e domenicani, non va esente da critiche, come ha mostrato, tra gli altri, il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez in Cristo o l’oro delle Indie? (1989). Più che una scoperta, la conquista ha operato un occultamento (Ignacio Ellacuría); l’incontro si è capovolto in un dis-incontro (Darcy Ribeiro), come è ampiamente illustrato nel fascicolo della rivista internazionale di teologia Concilium (6/1990), dal titolo significativo: 1492–1992: la voce delle vittime, edito da Leonardo Boff e Virgil Elizondo. Il premio Nobel per la pace, l’argentino Adolfo Pérez Esquivel ha scritto: «Una cultura egemonica, conquistatrice, egoista, non poteva “incontrarsi” con una cultura collettivista e comunitaria; non c’è stato un incontro di due culture, ma lo sterminio di una cultura da parte dell’altra».
Sembrava, ormai, che i conti fossero regolati per sempre, ma uno dei fatti salienti degli ultimi decenni del XX secolo, è l’emergenza e l’insorgenza delle comunità indie dell’America Latina e dei Caraibi, di cui aveva dato tempestiva segnalazione il compianto vescovo di Riobamba (Ecuador), Leonidas Proaño: «Essi [gli Indigeni] hanno incominciato ad aprire gli occhi, hanno incominciato a vedere, hanno incominciato a sciogliere la lingua, hanno incominciato ad organizzarsi, a realizzare azioni che possono convertirsi in azioni di trascendentale importanza per loro, per i paesi dell’America, per molti paesi del mondo».
La teologia india non si spiega senza questo fatto storico dell’insorgenza dei popoli originari, che, nonostante l’evangelizzazione, hanno mantenuto i loro «miti e riti» e la «sapienza» in essi contenuta. Occasione prossima di questo risveglio sono state le celebrazioni dei 500 anni (1492–1992) della «scoperta» o «conquista», che si sono dimostrate un boomerang per le popolazioni indigene, le quali hanno riletto la loro storia dalla parte dei popoli vinti; l’assegnazione del premio Nobel per la pace 1992 all’india maya e guatemalteca Rigoberta Menchú e il suo libro-intervista Mi chiamo Rigoberta Menchú (1983) hanno contribuito a internazionalizzare la causa india. Ora questo libro di Eleazar López, teologo messicano di etnia zapoteca (regione di Oaxaca, nel sud del Messico), documenta l’intera questione e illustra la posta in gioco della causa india sotto il profilo culturale, religioso e teologico.
Gli Indios, nella loro lunga storia di circa 30mila anni, hanno elaborato una cultura, una sapienza e una religiosità, che, nel suo aspetto riflessivo di interpretazione del mondo e della vita, viene ora chiamata «teologia india originaria»: essa si esprime «in una visione globale dell’esistenza in relazione armoniosa con la natura e in vincolo radicale con la divinità». La conquista e l’evangelizzazione non l’hanno liquidata né assorbita; anzi nelle pagine del teologo zapoteca si sente ancora lo sdegno per l’«aggressione» subìta. Gli Indios hanno dovuto, così, occultare la loro identità culturale e religiosa che ora, sorprendentemente, dopo 500 anni, con l’irrompere di una nuova coscienza politica dei popoli, e con i mutamenti intercorsi anche nella coscienza ecclesiale – da annoverare tra i fatti maggiori della seconda metà del XX secolo – riemerge e ripropone in termini nuovi la questione irrisolta, e lo fa coniugando «protesta» e «proposta»: protesta per la violenza del passato coloniale, proposta per una inculturazione della fede differita da secoli.
Nell’ambito della teologia india si possono individuare due correnti. Una prima, che va sotto il nome di teologia india-india, intende recuperare i miti e i riti antichi, rifiutando l’evangelizzazione, che la conquista ha imposto. Qui il cristianesimo è visto come l’ideologia dei conquistatori, e si parla di disevangelizzazione per recuperare la propria identità india, culturale e religiosa. È una corrente radicale, che non sembra maggioritaria. Questa corrente, più che di teologia india, parla di teologia originaria, in quanto intende restaurare le religioni originarie senza mescolanze di elementi estranei, in particolare degli elementi cristiani, imposti dalla conquista.
Un’altra corrente si auto-comprende come teologia india-cristiana; come scrive il teologo zapoteca: «Si tratta di una riformulazione del passato indigeno nell’ambito del cristianesimo. Si concepisce come parte della lotta per riconciliare i due amori mediante una nuova sintesi vitale di forme distinte di Dio e di espressioni religiose. Per questo non si rinuncia, ma si riscatta e potenzia, sia l’identità india, sia l’identità cristiana». È un processo arduo e difficile, perché si propone di inculturare il vangelo in culture che riemergono dopo una repressione operata anche in nome del cristianesimo storico, e, inoltre, perché si propone di inculturare anche «miti e riti», attraverso i quali queste culture trovano espressione.
Il libro di Eleazar López, che raccoglie i suoi principali interventi, costituisce una documentata e articolata introduzione a questa realtà teologica ed ecclesiale, che, dopo una incubazione negli Anni Settanta e Ottanta, si è imposta all’attenzione con il primo congresso di Teologia India, celebrato a Città del Messico nel 1990. L’autore, che è riconosciuto come uno dei leader della teologia india, nella sua versione di teologia india-cristiana, conosce e vive le problematiche e le istanze delle comunità indie, cui dà interpretazione teologica; è consapevole dei rischi, tra i quali enumera «l’archeologismo», come riproposizione di un passato che si riteneva ormai sepolto; intende far fronte alle sfide, tra le quali segnala il difficile rapporto con «la linea dura e conservatrice della nostra Chiesa»; sa che è un processo ancora in corso, e che, nella tradizione dei grandi vescovi leader di comunità indie, come Leonidas Proaño di Riobamba (Ecuador), Bartolomé Carrasco di Oaxaca (Messico), Samuel Ruiz del Chiapas (Messico), ha bisogno di guide avvedute che nutrano due amori: l’amore per i popoli indios e per le loro tradizioni culturali e religiose; e l’amore per la Chiesa, che ha trasmesso l’annuncio evangelico.
La teologia india, come teologia india-cristiana, è una realtà nuova nel panorama della teologia latino-americana, che si differenzia, sia dalla teologia della liberazione, la quale si focalizza sulla «opzione per i poveri»; sia dalla teologia ispanica (hispanic theology), la quale prende atto del «meticciato», quale esito della conquista; sia dalla teologia afro-americana (brasiliana e caraibica), che si modella sulla problematica della black theology. La teologia india, come teologia contestuale, è chiamata ad inserirsi nell’orizzonte della cattolicità e della ecumenicità, ma essa ha un dono da offrire alla Chiesa e all’Ecumene, che ha trovato formulazione nei testi del III Incontro di Teologia India, tenutosi nella città andina di Cochabamba (Bolivia), nell’agosto del 1996 (al quale ho avuto l’onore di partecipare come «ospite fraterno»); è il dono del rispetto per tutti i popoli, culture e lingue, offerto da popoli, che hanno subìto per lunghi secoli disprezzo, segregazione e emarginazione; è il desiderio operoso di una Casa grande, capace di accoglienza, attesa a lungo da popoli che conoscono la pazienza (e le paure) dell’attesa, avendo vegliato per millenni sui loro colli aspettando il ritorno del sole: - «Vogliamo operare un cambiamento vero che costruisca una Casa grande, in cui tutti i popoli dell’umanità vivano in modo più degno, più umano, più divino».
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