Osiamo noi credere nella resurrezione? Oppure essa è per noi solo un mito che in un giorno di pasqua come questo si lascia cosi come è o lo si interpreta? Perché crediamo? Perché possiamo credere con onestà intellettuale? Lo possiamo. Con la fede, naturalmente, non con una persuasione razionale. Possiamo credere, con onestà intellettuale, alla resurrezione di Gesù anche senza addentrarci in tutti gli attuali problemi esegetici che la riguardano. Perché? Invertiamo la domanda: posso credere, con onestà intellettuale, alla mia «resurrezione» personale? Posso, cioè, costruire la mia vita sul presupposto che la libertà, la responsabilità e l'amore che la spiegano hanno un significato definitivo e non scompaiono nell’abisso del nulla senza senso? Ma se costruisco su tale fondamento sapendo di non potermi suddividere in due realtà eterogenee — chiamate materia e spirito — che seguano indifferentemente il loro destino, allora credo nella mia resurrezione personale. Infatti non posso e non debbo scindere l'unità psicofisica della mia esistenza ed attribuire alle due parti così concepite un destino differente. Io, quale uomo concreto, credo nella mia realtà definitiva e quindi anche nella mia resurrezione, e con questa resurrezione intendo affermare proprio lo stato definitivo, senza colorirlo con le rappresentazioni del mondo della mia esperienza attuale che non sono idonee allo scopo.
Persino chi dice, a livello di riflessione esplicita, che secondo lui con la morte «finisce tutto», e poi vive nel rispetto radicale della dignità dell'uomo, afferma, con la sua vita concreta, proprio la sua «resurrezione» che in teoria nega. Se è così, quale motivo si potrebbe avere per negare la resurrezione di Gesù? E anche se considerassi me stesso scetticamente, tanto al di sotto di merce dozzinale e di molte cose banali, da non osare di trovare in me facilmente un valore eterno, considerando invece la vita e la morte di Gesù, non sono forse costretto a dire che se c’è uno ad avere veramente un valore eterno è proprio lui? Lui che ha amato in maniera davvero disinteressata ed ha accettato volontariamente la terribile realtà di questa vita concreta fino all'abbandono da parte di Dio nella morte.
La resurrezione di Gesù non è stata forse ammessa nella fede da innumerevoli uomini, a cominciare dai suoi discepoli? E i suoi discepoli non hanno fatto e testimoniato questa esperienza contro ogni loro attesa? Ora — almeno così ritengo di poter pensare — anche noi siamo in grado di sperimentare il valore reale e permanente di Gesù, se il nostro spirito e il nostro cuore cercano l'uomo per il quale la morte è la vittoria, e lo prendiamo radicalmente sul serio, senza ridurlo ad una pura idea. In tal modo ci colleghiamo con la testimonianza dei primi discepoli in quanto colui di cui facciamo esperienza in questa maniera è conosciuto, per nome e nella sua storia, soltanto attraverso la loro testimonianza.
Se non credessimo nella resurrezione di Gesù, anche se il messaggio persuasivo di tutta la cristianità è arrivato espressamente al nostro orecchio e al nostro cuore, potremmo ancora dire seriamente di sperare e di credere nella nostra personale resurrezione? In noi cristiani la fede nella resurrezione di Gesù e la speranza nella nostra resurrezione personale sono diventate una realtà unica i cui elementi si condizionano a vicenda.
Di conseguenza quando professiamo, nella preghiera: «al terzo giorno è risuscitato», e: «aspetto la resurrezione dei morti», esprimiamo esattamente, in un unico articolo di fede, una realtà unica il cui inizio e la cui manifestazione a noi si è verificata in Gesù ma che investe anche noi e si realizzerà pienamente nel futuro compimento della storia del mondo: lo stato definitivo, a livello di salvezza e di trasfigurazione, del mondo spirituale e materiale.
da Karl Rhaner, Frammenti di spiritualità per il nostro tempo. Prospettive della fede, Queriniana, Brescia
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Traduzione dal tedesco di Alfredo Marranzini
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)