17/06/2003
21. Omaggio a Bruno Chenu (1942-2003)
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Il p. Bruno Chenu, teologo e giornalista assunzionista, già caporedattore di La Croix, è deceduto improvvisamente venerdì 23 maggio scorso. La sua figura e la sua opera non hanno cessato di colpire tutti coloro che l’hanno incontrato. Bruno Chenu ha pubblicato presso l’Editrice Queriniana, nella collana “Giornale di teologia” (181), il libro Teologie cristiane dei terzi mondi. Teologia latino-americana; Teologia nera americana; Teologia nera sudafricana; Teologia africana; Teologia asiatica, 1988.
Pubblichiamo un articolo apparso su
La Croix in data 27 maggio 2003 (a firma di Michel Kubler).


«Ci sono dei morti che generano dei vivi”» Dovremo ricorrere a questa frase di Bruno Chenu pubblicata in prima pagina su questo quotidiano nel 1993, per arrivare a parlare di lui al passato. Ma come fare? Come, per tutti coloro che l’hanno conosciuto grazie a un incontro o a una lettura, accettare l’idea che egli non sia più qui a insegnarci, ad accompagnarci, a – osiamo dirlo – rassicurarci?

Bruno Chenu è morto. Noi tutti sentiamo quanto e come ci mancherà. A La Croix e in tutta l’editrice Bayard, nella famiglia dei teologi come in tutto il popolo cristiano, il vuoto provocato dalla sua scomparsa è brutale: ci ha appena lasciati un maestro e insieme un fratello, un modello di autorità e di umiltà.

Bruno avrebbe festeggiato tra poco, con la discrezione che lo caratterizzava, il suo 61° compleanno. Fino alle ultime settimane conduceva una vita ritornata normale, incredibilmente piena di articoli, di conferenze e di corsi, per non parlare dei suoi numerosi impegni ecclesiastici e comunitari.

“Ritornata”, in quanto due anni fa era stato colpito da una malattia insidiosa. La lotta era stata dura, più dolorosa di quanto egli non lasciasse apparire; unendo la sua energia a quella dei medici, egli aveva combattuto, vincendo la prima partita. Ma il male, che non era riuscito ad avere il sopravvento, è tornato a colpirlo di sorpresa, alla testa, in modo devastante, senza lasciargli il tempo di opporsi.

Era probabilmente il solo modo, infido, di abbattere quest’uomo, così solido nella sua fede e nelle sue convinzioni, così determinato nel suo agire, così fedele nelle sue relazioni. Nato a Beaurepaire (Isère) il 18 giugno 1942 in una famiglia di quattro figli (il padre era ebanista a Jarcieu), Bruno Chenu aveva studiato negli alunnati, piccoli seminari assunzionisti, compiendovi un percorso così brillante che un giorno un professore di lettere gli restituì un tema con, come unica annotazione, l’annuncio di un bel futuro «alla Bonne Presse»!

Arriverà davvero, in quella editrice ribattezzata nel frattempo “Bayard”, ma non senza timore e tremore. La finezza della sua intelligenza infatti non detestava nulla quanto i giudizi rapidi – tanto per la loro supponenza quanto per il tempo di riflessione inadeguato che li caratterizzava. Era un uomo che amava scavare in profondità il suo solco. Ciò spiega la lunga ascesi di una formazione teologica perfettamente coerente. Noviziato degli assunzionisti nel 1960 a Pont-l’Abbé-d’Arnoult (Charente-Maritime), studi di filosofia dal 1961 al 1963 a Layrac (Lot-et-Garonne), poi di teologia alle Facultés catholiques di Lione: è in questa città che nel 1968, avendo conseguito la sua licenza canonica, è ordinato sacerdote dal cardinale Renard.

E’ solo l’inizio. Dopo un saggio sulla teologia bizantina, consacra il suo dottorato al Consiglio ecumenico delle chiese: l’unità dei cristiani segnerà infatti, come impegno intellettuale e come forte esigenza spirituale, l’intera sua vita. Per preparare la sua tesi segue i corsi dell’Istituto superiore di studi ecumenici di Parigi, e passa un anno nel seminario protestante di Hartford (Connecticut).

Seguiranno altri studi che testimoniano di una vera passione per il popolo nero di ieri e di oggi, dell’Africa come degli Stati Uniti. Trent’anni più tardi consacrerà al genere musicale degli spiritual uno studio così autorevole da meritare una recente traduzione americana.

Era davvero un uomo che ispirava ammirazione. In primo luogo nel suo insegnamento. Ha formato generazioni di studenti all’ecclesiologia, poi alla missionologia e alle teologie “dei” terzi mondi (teneva molto a questo plurale), nutrendo il suo pensiero alle migliori fonti dell’erudizione, con una libertà di espressione che aveva come unico limite la sua responsabilità teologica: non scandalizzare mai per il puro gusto di farlo, ma provocare eventualmente per dovere, rivolgendosi a persone in grado di misurare la portata del dibattito, e con la costante preoccupazione di costruire la chiesa.

La chiesa, l’oggetto di tutte le sue attenzioni. Bruno Chenu non la vedeva certo come specializzazione teologica, ma come la sua famiglia naturale. Una chiesa che portava “in cuore”, per usare il titolo di uno dei suoi libri ai quali teneva maggiormente, e di cui voleva per l’appunto che si cogliesse il cuore, al di là degli slogan di spirito campanilistico e dei facili luoghi comuni.

Una chiesa di cui dirà senza mai stancarsi che non può essere opposta a Cristo, che bisogna amarla (senza negare le sue debolezze e difficoltà), in quanto offre un punto di vista unico per una maggiore verità su Dio e sull’uomo. Una chiesa di cui avrà anche potuto accettare i limiti in quanto testimone privilegiato della fecondità che essa offriva a militanti come Martin Luther King e Desmond Tutu, ed anche a mistici come Christian de Chergé e Thomas Merton.

La sua autorità andava tuttavia oltre la qualità del suo insegnamento. Essa nasceva dalla sua persona, dal rispetto che incuteva senza mai volerlo – magari con il rischio di passare per un temperamento freddo (chi ha potuto pensarlo non lo hai certamente mai visto discutere una partita della squadra di calcio dei “verdi” del Saint-Etienne). La sua era l’autorità di una coerenza intima tra ciò che era, ciò che diceva e ciò che faceva.

La sua azione non si limitava infatti alle lezioni universitarie e alle biblioteche che pure egli amava. Egli sentiva il bisogno di agire sul movimento di pensiero e reagire agli avvenimenti del mondo: faceva infatti parte del Groupe des Dombes dal 1975 (eletto copresidente cattolico nel 1998), impegnato a produrre un pensiero teologico veramente ecumenico, ed era anche membro della commissione francese Giustizia e Pace.

Ma non è certo da trascurare il suo lavoro di giornalista. Nessuno, se non lui, sa quanto sarà costato al p. Chenu la chiamata dei suoi superiori assunzionisti al posto di caporedattore di La Croix, succedendo al p. Jean Potin. Anche se raramente, ha comunque fatto trapelare quanto gli pesasse quella croce.

Un peso che non gli veniva dalla quantità del lavoro, in particolare come animatore del nostro “Forum” dove egli non si risparmiava mai. E nemmeno dalle questioni delicate che dovette trattare: il caso Gaillot, il dramma di Tibhirine… Il peso di quella croce che pesava sulle sue spalle consisteva nell’impegno totale che essa esige dalla persona. Per Bruno Chenu un caporedattore non poteva limitarsi a una “semplice” riflessione su alcune informazioni; egli esigeva un grande lavoro su se stesso – che effettuava nel ritiro della sua vicina comunità – quasi volesse nascondere il suo calvario allo sguardo dei confratelli. Aveva perso definitivamente il sonno.

Ma avrà anche consolidato la sua autorità presso i suoi lettori abbandonandosi – è il termine giusto – a questa prova di verità, «implicandosi totalmente, mettendo in gioco il senso stesso della sua vita», come egli osservava in Foi plume, presentando una scelta dei suoi scritti al termine del suo impegno a La Croix. La sostanza della vita e dell’opera di Bruno Chenu ci sono ancora ignoti, e molti frutti rimangono da cogliere.

La sostanza? La fede che lo animava, la sua bella speranza di contemplare il volto di Dio, il suo amore per Cristo e per ogni uomo. Il vangelo di questa domenica lo aveva meditato in queste stesse colonne: «Gesù ci considera come suoi amici, in quanto ci ha confidato ciò che ha appreso dal Padre»: il più grande atto d’amore, donare la propria vita.

Grazie, Bruno, per la tua vita donata a Dio, alla chiesa, agli uomini. Questi uomini che anche noi siamo, noi ai quali manchi già crudelmente, noi che non potremo restituire ciò che ci hai dato se non donandoci, a nostra volta, totalmente.


© La Croix, Bayard Presse
Traduzione dal francese di Fausto Savoldi
© 2003 by Teologi@/Internet
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini