Proponiamo di seguito una nostra intervista alla prof.ssa Paola Bignardi, in occasione della pubblicazione del volume: Metamorfosi del credere. Accogliere nei giovani un futuro inatteso. Un testo che esplora l’universo umano, spirituale e religioso dei giovani, con le sue proiezioni sul piano ecclesiale. Buona lettura!
D: Nel suo ultimo libro lei parla di metamorfosi del credere, cioè del bisogno di una reinterpretazione creativa dell’esperienza di fede. Ora, in questa ricomprensione della vita cristiana, delle sue forme, delle sue categorie, dei suoi linguaggi, quanto è determinante la dimensione personale-spirituale del singolo? E quanto invece la vera posta in gioco è un rinnovamento effettivo della Chiesa come comunità dei credenti (la tanto proclamata “riforma”)?
PB: Penso che la convinzione personale-spirituale del singolo sia determinante, ma non sufficiente. D’altra parte credo che per i cambiamenti profondi di cui ha bisogno la Chiesa di oggi non sia sufficiente una riforma. Mi pare che l’istituzione ecclesiale abbia modi di vivere e di operare così radicati che una loro riforma è impossibile. Piuttosto occorre percorrere una via intermedia tra la dimensione soggettiva e quella istituzionale. È la via di piccole esperienze comunitarie in cui i singoli possano portare le loro intuizioni e contribuire a realizzarle in contesti che per le loro dimensioni vedano possibile la novità. La sapienza della Chiesa istituzionale sarà quella di operare su di esse un discernimento attento all’essenziale, capace di interpretare i cambiamenti in atto nelle culture di oggi, aperto all’azione dello Spirito, nella fiducia che Egli continua a operare. Del resto, Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium dice che la realtà precede l’idea; questo mi sembra uno dei casi…
D: Riuscirebbe a elencare tre cattive notizie che il suo libro dà, mettendo impietosamente a nudo i problemi della Chiesa di oggi?
PB: La prima cattiva notizia è che i giovani stanno abbandonando la Chiesa; la seconda è che la stessa cosa sta accadendo per le giovani donne, con l’aggravante che il loro è un allontanamento arrabbiato; la terza è che le comunità cristiane hanno irrigidito il loro modo di credere in forme che appartengono ad un’epoca ormai passata, non riuscendo a immaginare forme culturali e pastorali diverse per vivere l’essenziale della vita cristiana.
D: Andando per contrapposizioni, a costo di semplificare: secondo lei i giovani spingono per più cuore, meno dottrinalismi; più spiritualità, meno moralismi; più pluralità, meno rigidità identitaria. Una Chiesa così, che ripensa il proprio packaging, una volta piazzatasi sul mercato dell’offerta religiosa riesce a sbaragliare la concorrenza e a farsi scegliere da una clientela giovane? Davvero si tratterebbe della fine non della religione di Cristo, ma solo di un certo cristianesimo storicamente datato?
PB: Guardo al Vangelo: il Signore Gesù non ha fatto pubblicità al suo messaggio, per convincere folle che dopo averlo osannato gli hanno voltato le spalle. Ha detto che il Regno è come un lievito, o un granello di senape…. È l’autenticità della vita che è, semplicemente, senza cercare di convincere nessuno, ciò che può interpretare la domanda di autenticità del mondo giovanile.
D: Una porzione sostanziosa delle speranze che lei individua per il futuro risiedono nel modello monastico (soprattutto in alcune sue specifiche incarnazioni contemporanee). Quanto e come le sembra “esportabile” e “universalizzabile” questo modello, forse un po’ elitario, a livello di parrocchie ordinarie?
PB: Non credo che il modello monastico sia esportabile in parrocchia; penso piuttosto che la testimonianza di una vita cristiana più spirituale che attivistica; che la ricerca dell’autenticità anche a caro prezzo; che una vita ecclesiale più fraterna possa giovare anche alle parrocchie, che avrebbero bisogno di ripensare il loro modello pastorale, non per imitare quello monastico, ma per lasciarsi contaminare dalla sua ricchezza. D’altra parte credo che anche il modello monastico debba verificare se ciò che sta vivendo è una fuga dal mondo o un altro modo di stare al mondo.
D: Se dunque lei dovesse riassumere il messaggio del suo libro in una sola frase, cosa direbbe?
PB: Nelle critiche che i giovani fanno alla Chiesa e al modello di cristianesimo che essa propone vi sono provocazioni su cui sarebbe necessario riflettere con attenzione. In alcune loro intuizioni vi sono tracce per una reinterpretazione della vita cristiana a vantaggio di tutti. Una Chiesa migliore per tutti, una fede più autentica e contemporanea per tutti.
D: Una domanda più personale: che cosa le fa paura, spingendo lo sguardo al domani ecclesiale, e che cosa invece la rende felice, la riempie di consolazione?
PB: Mi fanno paura quegli atteggiamenti che nel nostro tempo vedono le difficoltà come intralci al Vangelo, invece che sfide per renderlo attuale; lo stato d’animo dei cristiani che si sentono sconfitti; la tendenza a vedere in questo tempo di crisi solo gli ostacoli e non le opportunità di una rigenerazione delle forme del credere.
Vi sono esperienze autentiche - quasi sempre marginali - che sembrano dare nuova evidenza alla bellezza del Vangelo. Questo, più che riempirmi di consolazione, mi riempie di speranza e di gioia.
D: Una domanda più “professionale”: su quali temi sta lavorando in questo periodo? Su quale argomento le piacerebbe scrivere o le sembra necessario scrivere, in un futuro prossimo?
PB: Sono diversi i temi su cui sto lavorando. Quello che ho più caro riguarda i giovani malati, soprattutto quelli che stanno lottando contro il tumore; vorrei capire come vivono la loro malattia, come danno senso alla loro vita, come guardano al futuro. Anche loro sono giovani! Inoltre penso che ascoltare le esperienze limite ci dia elementi per comprendere meglio la “normalità”.
La comunità cristiana tende a vedere il mondo della sofferenza e della malattia solo in una prospettiva consolatoria. Penso che il dolore vada vissuto come vita, che occorra accettare la sfida di dargli un senso e di condividere questo senso. Credo che nel modo con cui i giovani vivono la sofferenza vi sia la possibilità di recuperare il dolore come esperienza di vita, da umanizzare anche attraverso la fede.
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