15/01/2010
153. Martin Lutero e la Chiesa cattolica 1. di Otto Hermann Pesch
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Nel 1999 fu sottoscritta tra il Vaticano e la Federazione mondiale luterana la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”. La Dichiarazione sulla giustificazione è un documento importante dell’ecumenismo evangelico e cattolico, malgrado le turbolenze suscitate dalla critica da parte di professori di teologia evangelica di lingua tedesca e più tardi dal documento vaticano “Dominus Jesus”. Come si pone oggi, a distanza di dieci anni, il rapporto tra le chiese e specialmente tra la chiesa cattolica e il riformatore Lutero?


Ricordando la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”, confermata ad Augsburg con una solenne celebrazione di rappresentanti della Federazione mondiale luterana e del Vaticano, si è portati a chiedersi: Quanto è “cattolico” Lutero? Quanto “luterana” è oggi la chiesa cattolica e quanto lo sono i cristiani cattolici? Quanto “luterani” possono essere?

Tempo fa – e non ne è trascorso molto – con “parola di Dio” i cattolici intendevano che Dio con la sua parola ammaestra gli uomini, li “informa”, li “istruisce”. Si pensava che egli “parla” di se stesso, della sua natura, della sua tri-unità, ma proprio per questo anche del suo agire nei confronti del mondo e degli uomini. Egli insegna loro che è lui il creatore, che lui offre agli uomini la sua grazia, perdona i peccati e chiama alla vita eterna. E ancora, che per raggiungere questi scopi egli convoca la chiesa mediante lo Spirito Santo e dona ad essa i mezzi della salvezza – i sette sacramenti e la costituzione gerarchica.


La “Rivelazione” nei manuali

Tutto questo è riassunto nel concetto di “rivelazione”, che perciò fu utilizzato anche da parte cattolica come sinonimo di “parola di Dio” - ad esempio nei manuali di teologia fondamentale oppure nella rispettiva introduzione nei manuali di dogmatica: la teologia, la dogmatica, ha come suo fondamento “la rivelazione” o “la parola di Dio”, alla quale deve fare riferimento tutto ciò che essa ha da dire. Si parla, in questo contesto, di rivelazione come “istruzione”, di “modello di istruzione” nella elaborazione del concetto di rivelazione o del concetto di “parola di Dio”.

Questa parola di Dio che informa si trova naturalmente nella Bibbia. In epoche antichissime Bibbia e Parola di Dio erano la stessa cosa. La Bibbia era, parola per parola, la Parola di Dio – del resto questo vale anche per Martin Lutero. Persino la crescente inclusione del metodo storico-critico nella scienza biblica non ha, all’inizio, cambiato radicalmente tale impostazione: per sapere su che cosa la parola di Dio, “la rivelazione”, ci “informa” devo eventualmente riuscire a trovare, con i metodi della problematica storico-critica, che cosa l’autore biblico, agendo in certo qual modo da “segretario” di Dio, ha voluto dire e che cosa non ha voluto dire.


Poiché ora la Bibbia – nonostante l’esegesi storico-critica - non è sempre univoca, l’ultimo garante della verità della parola di Dio e dell’insegnamento vincolante che in essa ci viene dato è la dottrina della chiesa. Credere perciò significa assentire a questa parola di Dio, la cui verità la Bibbia ci garantisce nella interpretazione della chiesa. Pienamente coerente suona perciò la definizione della fede che risale espressamente al concilio Vaticano I: “Credere significa ritenere per vero tutto ciò che Dio, il quale non può mentire né ingannare, ha rivelato e ci propone a credere attraverso la Chiesa”.


(Dio) che si comunica a noi

E oggi? Al più tardi a partire dal concilio Vaticano II – ma sulla base del lavoro teologico preparatorio nei decenni precedenti! – “parola di Dio” e “rivelazione” non significano più “istruzione” su verità divine, o lo sono al massimo come conseguenza. “La rivelazione” è piuttosto fondamentalmente l’automanifestazione, anzi l’“autocomunicazione” di Dio in eventi storici, che devono ogni volta essere interpretati per le nuove generazioni (e culture) – naturalmente anche mediante la dottrina della chiesa, la quale però, proprio per questo, non deve e non intende più essere solo spiegazione teorica, ma un aprirsi e un invito alla fede.

La notizia di tutto ciò ci è originariamente conservata nella sacra Scrittura. Soltanto in essa troviamo la parola di Dio. Il testo biblico, però, in quanto tale non coincide più semplicemente con questa parola di Dio. La fede non è più soltanto adesione alla verità delle informazioni divine, formulate in frasi vincolanti, ma è autodonazione di tutta la persona, con la ragione e la volontà, al Dio che si comunica a noi. Così è scritto nella Costituzione sulla divina rivelazione (art. 5).

Detto in termini luterani: la parola di Dio è, dall’inizio alla fine, interpellanza e la fede significa l’affidarsi con fermezza a questa parola che interpella, la quale è parola di perdono, di grazia e di comunione, in mezzo a tutti i conflitti e le tentazioni. Questo è anche ciò che i cattolici vogliono udire oggi, quando aprono le loro orecchie per ascoltare la parola di Dio: non in primo luogo una dottrina, ma l’annuncio di ciò a cui potersi affidare, a cui ci si può attenere saldamente nella vita e nella morte. E soltanto in quanto di questo si tratta, si deve e si può poi interrogarsi anche sulla verità di questa parola – proprio come sostiene anche Lutero. Nelle questioni “parola di Dio” e “fede” noi cattolici, lo possiamo ben dire, siamo tutti dei buoni luterani.

Qual è, però, la concezione di chiesa? Tempi addietro, secondo la comprensione cattolica, “la chiesa” era “la gerarchia”: il papa, i vescovi, i sacerdoti e, in forma già un poco minore, i religiosi. I laici avevano “parte” alla chiesa. Nessuno parlava del “sacerdozio di tutti i battezzati!”. Tutto ciò si riflette nelle definizioni del vecchio diritto canonico, del 1917: i laici sono oggetti della chiesa. Essi hanno il diritto di attendersi e di ricevere dai pastori spirituali doni spirituali, cioè i sacramenti e l’istruzione religiosa. Per il resto il diritto canonico conosceva per i laici soltanto divieti e obblighi: nessuna pretesa di accedere a ministeri, rispetto per il clero… Solo in alcuni casi era contemplata la possibilità di cooperare all’amministrazione dei beni della chiesa.

Fu già un grande progresso il fatto che questa immagine puramente giuridica di chiesa, a partire dagli anni venti e grazie alla enciclica sul “corpo mistico di Cristo” (Mystici corporis) di papa Pio XII, a livello teologico venne superata dalla definizione dell’essenza della chiesa come “Corpo di Cristo”. Altrimenti, però, si rimase anche allora attaccati ad una immagine clericale di chiesa. Ciò, del resto, ha le sue radici nella teologia tardomedioevale e poteva così essere allora utilizzata come tradizione contro Lutero e i Riformatori.


Popolo di Dio – Corpo di Cristo

A partire dal concilio Vaticano II tutto ciò è cambiato - di nuovo sulla base dei molteplici lavori preparatori della teologia nei decenni precedenti. Per la prima volta in un documento del magistero viene messo in risalto il sacerdozio comune dei fedeli (Costituzione sulla Rivelazione, art. 10). Ma soprattutto: l’essenza della chiesa vieni ivi definita come “popolo di Dio” . Per rispetto alla enciclica di Pio XII “Corpo di Cristo” ottiene uno specifico paragrafo nel testo della Costituzione sulla chiesa (art.7), ma viene chiaramente collocato tra le immagini per descrivere la chiesa. “Popolo di Dio” invece è messo in primo piano come concetto specifico con la esplicita motivazione, nelle trattazioni, che tutti i cristiani, prima che alcuni di essi diventino soggetti di un ministero, sono cristiani e perciò “popolo di Dio”. In nessun caso questo concetto è limitato ai cosiddetti appartenenti al popolo, i laici come membri del laós theoû, del popolo di Dio.

La conseguenza è stata la seguente: se una delle novità dell’ultimo concilio si è radicata nella coscienza dei membri della chiesa, questa è che essi sono la chiesa, e non solo partecipano ad essa. Essi si trovano qui in perfetta sintonia con Lutero, il quale già nel 1539, nello scritto “I concili e le chiese”, ha affermato: “Essi [i ministri] preferiscono che li si consideri la chiesa, in quanto papa, cardinali e vescovi…” E invece Lutero asseriva: la chiesa “è un popolo cristiano santo, che crede in Cristo”. In un altro passo parla delle “pecorelle che ascoltano la voce del loro pastore”.

E come stanno le cose con i sacramenti? Prima essi erano, nel senso corrente, “mezzi della salvezza” per le debolezze delle singole situazioni di vita. Detto con un pizzico di cattiveria, essi erano come medicine acquistate ad una “farmacia celeste”. Il battesimo serviva per eliminare il “peccato originale”, la penitenza per togliere i peccati personali successivi. L’eucaristia rafforzava i credenti nella loro lotta quotidiana. La confermazione, a sua volta, consolidava la forza dello Spirito Santo nella battaglia d’ogni giorno contro i peccati e forniva aiuto per la testimonianza energica nel mondo. La “estrema unzione” veniva data come preparazione per l’ultimo viaggio. L’ordinazione sacerdotale provvedeva al servizio della e nella chiesa. E il matrimonio – di fatto scambiato con la celebrazione solenne delle nozze in chiesa – dava forza sacramentale per la gestione della vita cristiana quotidiana nel matrimonio e nella famiglia.


I sacramenti

Dagli anni trenta, però, nella dogmatica cattolica fece sentire i suoi effetti una nuova visione dei sacramenti come azione concentrata di predicazione e invero sulla base, non da ultimo, di una lettura più precisa della grande tradizione medioevale.

Di nuovo appare qui un ponte verso Lutero, il quale comprende il sacramento – in via generale, ma specialmente con riguardo alla Cena – come “Parola attuale”, per cui tutto dipende dalla promessa, contenuta nell’azione, del perdono dei peccati. A prescindere dai problemi particolari – “validità” del ministero, presenza reale, sacrificio della messa, papato e altri – i buoni cattolici sono qui di nuovo sulla linea di Lutero: essi celebrano l’eucaristia e ricevono la comunione nella consapevolezza di non assistere a un rito magico, nel quale, secondo l’antica liturgia, al segno del campanello per mano dei ministranti, si indicava il compiersi della trasformazione del pane nel corpo e del vino nel sangue di Cristo. Si tratta piuttosto della memoria attualizzante della passione e della risurrezione di Gesù Cristo, memoria che trova la sua espressione nell’acclamazione: “Annunciamo la tua morte, o Signore, proclamiamo la tua risurrezione, in attesa della tua venuta”.


La magia del “sacrificio della messa”

Con quanto detto, una buona metà della vecchia controversia sul “sacrificio della messa” è già liquidata. Peter Brunner (1900-1981), parroco luterano e professore di teologia sistematica ad Heidelberg, già negli anni cinquanta dichiarava che, nonostante tutti i progressi nel movimento ecumenico, tre temi continuavano a costituire per quel momento degli ostacoli insuperabili per un consenso teologico con la chiesa cattolica: il concilio Vaticano I con il dogma della infallibilità papale, la venerazione di Maria e, appunto, la dottrina del sacrificio della messa.

“Sacrificio della messa” significava, secondo la comprensione cattolica di allora, questo: il sacerdote – e soltanto lui – opera, certamente come “strumento” di Cristo, ma comunque, con la “consacrazione”, cioè con le parole di istituzione riprese nella liturgia, la presenza del corpo e del sangue sull’altare, sotto le specie del pane e del vino. Poi egli può “offrire” il Cristo, reso così presente, a Dio Padre, può appunto “sacrificarlo” per porgerlo in seguito ai fedeli come “cibo sacrificale”.

Alcune formulazioni dell’antico canone romano – la prima preghiera eucaristica tra le quattro ufficiali nella liturgia rinnovata – ma anche le nuove preghiere eucaristiche sembrano sostenere ancora tale concezione. Questo “sacrificio della messa” lo si può “offrire” in espiazione per i peccati (propri e altrui), ma anche per tutte le possibili esigenze di altro genere. Presso i cristiani cattolici ne risultò così la prassi secolare delle messe “su ordine”: si dà uno “stipendio per la messa”, e il sacerdote si impegna a “offrire il sacrificio della messa” per la particolare intenzione dell’offerente: per il bambino malato, per il benessere dei figli, per un successo professionale, per la buona riuscita di un esame, per un felice ritorno a casa da un viaggio pericoloso e, non ultimo, per i familiari defunti che si teme siano ancora nel “purgatorio”. E poiché il sacrificio della messa ha un valore infinito in virtù di chi viene offerto, esso “agisce” nel senso della richiesta sicuramente più di qualunque altra preghiera di intercessione, per quanto fervida.

Questa era la concezione del sacrificio della messa che Martin Lutero aveva davanti agli occhi quando nel suo scritto critico sui sacramenti, “La cattività babilonese della chiesa” (De captivitate babylonica Ecclesiae, 1520), ha contrassegnato questa dottrina come la peggiore di tutte le cattività in cui la Cena era finita. E a tal proposito, in confronto alla situazione che precede l’inizio del dialogo ecumenico nel XX secolo, ci si deve raffigurare in modo assai più marcato ciò che qui viene descritto.

A motivo del valore eminente del “sacrificio della messa” le messe che venivano celebrate non potevano mai bastare. Vennero così a costituirsi ricche “Fondazioni per le messe”, per così dire “Fondi per stipendi”. Di questi vivevano i figli di famiglie ricche che si facevano ordinare preti e non facevano altro che “leggere” messe, ad uno dei molti altari presenti nelle chiese, per le intenzioni di coloro che fornivano gli stipendi. Lutero li chiama a ragione i “pretucoli da strapazzo”. Oggi non si riesce ad immaginare come la chiesa abbia potuto tollerare così a lungo tale pratica.


Critica dei Riformatori

Questa prassi superstiziosa, così come Lutero l’aveva presente, era però soltanto una prassi, mai essa è stata dottrina ufficiale della chiesa. In effetti ancora la mia generazione, nell’insegnamento catechistico in preparazione alla prima comunione, ha imparato che la messa è “il rinnovamento incruento”, anzi “l’incruenta ripetizione” del sacrificio cruento della croce, sul Golgota. Ma per la verità già il concilio di Trento (1545-1563), raccogliendo la sfida della critica dei Riformatori, nel decreto sul sacrificio della messa aveva fatto piazza pulita di questa concezione: si conserva sì il tradizionale linguaggio, si dice che la messa è un vero e reale sacrificio, però ciò va inteso nel senso che nella celebrazione della messa è reso presente l’unico sacrificio di Cristo sulla croce, che la sua memoria dura fino alla fine dei tempi e la sua forza salvifica è rivolta ai peccatori.

Ciononostante le “messe private” e il sistema degli stipendi sono rimasti fino ad oggi, soprattutto nei conventi dei religiosi. I peggiori abusi superstiziosi poterono però essere rimossi. Senza alcun influsso del dialogo ecumenico si arrivò poi, nel XX secolo, ad ulteriori chiarificazioni, che per la verità già a quel momento non rendevano però giustizia alle osservazioni di Peter Brunner.


Correzioni pontificie

Sull’onda del rinnovamento, già delineato, della teologia dei sacramenti, papa Pio XII nell’enciclica Mediator Dei (1947) ha affermato: Il “carattere sacrificale” dell’eucaristia consiste nel fatto che Cristo compie incruentamente ciò che ha compiuto sulla croce: offre se stesso come vittima all’eterno Padre. Attraverso le parole dell’istituzione, pronunciate separatamente sul pane e sul vino, egli diviene presente nella separazione di corpo e sangue. Ossia, egli diviene presente in un modo che “dimostra” lo stato della sua morte sacrificale, ovvero come si dice in latino: memorialis demonstratio. In altri termini: con la duplice consacrazione la messa si configura come “sacrificio”. Se ciò è vero, non rimane più nulla da “offrire”.

Ancora più chiaro è papa Paolo VI nell’enciclica Mysterium fidei (1965). Il carattere sacrificale è, secondo le parole del papa, il cuore di tutto il mistero eucaristico, ma ciò non va compreso come se noi offrissimo Cristo in sacrificio. Piuttosto è la chiesa che offre se stessa inserendosi nell’obbedienza sacrificale di Gesù e presentandosi così con lui al Padre.

Qui non c’è più nulla su cui Lutero avrebbe da ridire. E il documento della commissione internazionale cattolico-luterana “La Cena del Signore” (1974) ne trae le conseguenze: Il sacrificio di Cristo in croce non può “essere né continuato, né ripetuto, né sostituito, né completato” (Tesi 56). Strano, ma vero: La dottrina del sacrificio della messa, rettamente compresa e purificata da fraintendimenti, è oggi pietra di inciampo ecumenica meno del problema, non ancora del tutto risolto, della presenza reale (segue seconda parte).


Sul tema:



Otto Hermann Pesch
Martin Lutero. Introduzione storica e teologica
Biblioteca di teologia contemporanea, 135










© 2010 by Otto Hermann Pesch
© 2010 by Christ in der Gegenwart (Verlag Herder, Freiburg i.B.)
© 2010 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)"
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini