12/04/2007
90. Liturgia di ieri o liturgie per il domani? Appunti allarmati e militanti in margine a un saggio di Keit F. Pecklers di Alberto Dal Maso
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1. Una moneta fuori corso?

La tribù dei liturgisti è in grave apprensione. Si fanno sempre più insistenti le voci relative a un indulto pontificio che ripristinerebbe la possibilità di utilizzare liberamente il Messale tridentino di Pio V, quale rito universale seppure “straordinario”. Secondo indiscrezioni di stampa il motu proprio parrebbe ormai di imminente pubblicazione.

Lo spettro che si materializza di fronte agli occhi dei più attenti osservatori è quello di una esautorazione de facto del Messale riformato di Paolo VI. E di una relativizzazione dell’intera riforma liturgica voluta dall’ultimo concilio e delle più nobili istanze del Movimento liturgico, faticosamente maturate e in quella riforma recepite. Tali istanze, peraltro, verrebbero soffocate nella culla, perché sono ancora per molti versi in attesa di una piena assimilazione nella concreta prassi cultuale, complice una storica carenza nell’iniziazione liturgica (di clero e laici). È lecito infine temere, tra le ulteriori conseguenze “a cascata” sul medio-lungo periodo, che una tale “apertura” a ritroso scivolerebbe poi fatalmente verso una delegittimazione strisciante del Vaticano II in quanto tale – spirito e lettera –, in nome di una pretesa continuità ab-soluta con l’immutabile tradizione che precede. E sarebbe dunque l’avvio della definitiva “normalizzazione”.

Utilizzare due Messali così radicalmente diversi per teologia, linguaggio e forma sarebbe come esibire, in quanto chiesa, una doppia “carta d’identità”. La prima, scaduta, era stata convenientemente aggiornata (e la nuova fototessera adesso non la si può più sconfessare); ma, per tutta risposta, si vuol riesumare la vecchia matrice, atta a reduplicare dei tratti somatici irrealistici, quasi degni di una maschera. L’ambiguità porrebbe gravi problemi di spessore ecclesiologico, prima ancora che determinare esiti rovinosi sul piano pastorale.

A dire il vero la riforma liturgica del Vaticano II non ha mai avuto vita facile. Anche negli ultimi anni, in un triste crescendo, ha incrociato non pochi ostacoli sul proprio cammino. Non ci riferiamo all’ottusa resistenza al cambiamento attestata da vocianti gruppuscoli di dissidenti e nostalgici. Quanto piuttosto alle prese di posizione a livello ufficiale. C’è una indubbia ostilità che, malcelata in alcuni interventi polemici, denotanti sospetto e risentimento, da parte di singole personalità curiali, si è talora palesemente tradotta nelle insostenibili restrizioni dettate da nuove disposizioni attuative (si pensi soltanto a Liturgiam authenticam, sulla traduzione e l’adattamento dei libri liturgici). Le sgradevoli farraginosità esibite dalle procedure di recognitio, e sperimentate sulla propria pelle dalle Conferenze episcopali nazionali, stanno a testimoniare più che le inefficienze della burocrazia vaticana, uno strisciante clima di sospetto e una esagerata necessità di controllo ossessivo-compulsiva.

Proprio per questo il percorso di riforma e i processi di rinnovamento, ancora tutti in divenire, gravidi di promesse, avrebbero estremo bisogno di ricevere ossigeno anziché di essere bloccati nel loro slancio.


2. Lavorare per il domani!

In liturgia e in pastorale i terreni di lavoro sono innumerevoli e, man mano che se ne dissoda una parte, altri fronti di intervento si mostrano nella loro urgente necessità. Proviamo in estrema sintesi a esemplificare, anche sulla scorta del recentissimo libro di Keith Pecklers, Liturgia.

C’è innanzitutto una teologia della liturgia e dei sacramenti ancora ingessata negli schemi del passato, incapace di parlare all’uomo d’oggi facendosi carico di presupposti antropologici “aggiornati”. Eppure, è la storia di venti secoli di culto cristiano che dimostra quanto l’istanza pastorale (il propter nos homines) sia stata l’anima del dinamismo incessante delle forme rituali. C’è poi tutta l’ampia area “problematica” della veritas signi: l’esigente linguaggio dei simboli – rete preziosa di delicatissimi equilibri – non tollera stilizzazioni di comodo, ambiguità di basso profilo e, men che meno, talune palesi contraddizioni fra il dire e il fare. Altrimenti non si dà esperienza del mistero (mistagogia). E, ancora, c’è l’ambito dell’ars celebrandi: se “dire messa” è un’arte, si richiede allora prima di tutto la sapienza di chi utilizza un libro liturgico non più nella logica del ritus servandus, ma nello spirito della complessiva performance celebrativa che dà vita al testo scritto. Con la complicità di ritmi, toni, pause ben dosati, le parole pronunciate si incarnano nel gesto compiuto di fronte alla concreta assemblea riunita per la lode. Dunque non è più questione di perizia del singolo prete, né tantomeno di sdoganare l’uso delle chitarre in chiesa piuttosto che imporre il ritorno alla polifonia o al gregoriano. È il sapersi esprimere nel linguaggio simbolico come comunità assembleare, è il gioco di squadra nel passare dal testo al gesto, è l’affiatamento tra l’orchestra sinfonica e il suo direttore. Si scopre allora che resta ancora da affrontare tutto il capitolo del ruolo del laicato e dei ministeri non ordinati, oltre che della sempre più grave carenza di sacerdoti (soprattutto per le liturgie domenicali).

Allarghiamo l’orizzonte. La liturgia soffre i ritardi e le omissioni nella delicata problematica delle relazioni, ad extra, con il mondo delle altre confessioni cristiane (ne va dei requisiti per l’intercomunione, ma anche dei progressi in un effettivo cammino ecumenico radicato nella prassi) e, se si vuole, anche delle altre religioni. E, ad intra, delle relazioni con le diverse realtà dei fedeli che, sentendosi estranei a una liturgia clericale, verbosa e fredda, riversano ogni energia nelle devozioni meno “dotte” e nelle forme partecipate della religiosità popolare. Ma allora salta agli occhi il vastissimo settore dei rapporti fra culto e cultura. E si sollevano pesanti interrogativi su quanto finora si è fatto o trascurato in termini di inculturazione della fede e dei riti – anche in Italia, non solo nelle lontane terre di missione… Torna a fare problema, inevitabilmente, la capacità del nostro pregare comunitario di incidere sulla vita e sulla realtà: una fede relegata alle sacrestie – una celebrazione «rubricalmente corretta», dice Pecklers – non può essere autentica. Di più: una eucaristia asettica e astratta non rende culto al Dio di Gesù Cristo, perché solo il vero culto razionale, di cui parla Paolo (Rm 12,1; cfr. Gv 4,23s.), incarna nella storia la memoria sovversiva della Passione ed è in grado di sprigionare una forza di liberazione e di speranza pasquale per l’uomo e la donna dei nostri giorni.


Il libro Liturgia. La dimensione storica e teologica del culto cristiano e le sfide del domani, di Keith Pecklers, è pubblicato nella collana «Giornale di teologia 326».


Keith Pecklers, gesuita statunitense, è docente presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e il Pontificio Istituto Liturgico «Sant’Anselmo» di Roma.


Alberto Dal Maso, dottore in teologia con specializzazione liturgico-pastorale, è membro della Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale e del Consiglio di direzione di Rivista di pastorale liturgica. Ha pubblicato, fra l’altro: L’efficacia dei sacramenti e la performance rituale (Padova 1999).




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