04/06/2009
136. Lectio magistralis
Comprendi quello che stai leggendo?
Esegesi del Nuovo Testamento e la questione ermeneutica in teologia
di Jürgen Moltmann (al Festival della teologia, Piacenza 2009)
Ingrandisci carattere Rimpicciolisci carattere
Il rapporto tra gli studiosi del Nuovo Testamento e i teologi, e viceversa, non sempre è stato dei migliori, come voi ben sapete, perché i primi devono condurre un’indagine critica e i secondi devono dare formulazione alla certezza della fede.

Io propongo a voi, oggi, le mie esperienze e le mie idee sul rapporto tra teologia e studio del Nuovo Testamento. In realtà, l’esegesi del Nuovo Testamento è segnata dalla tendenza moderna a cedere allo storicismo, mentre la teologia è segnata da quella a comprendersi come filosofia cristiana della religione, e in tal modo entrambe si allontanano parecchio l’una dall’altra, in ogni caso per non interferire e non disturbarsi reciprocamente. Ma ci sono anche i richiami a quanto ci è comune. Base della nostra lettura è lo stesso libro: il Nuovo Testamento, nel contesto del canone biblico. Lo leggiamo certamente con occhi diversi e con differenti interessi, ma si tratta delle stesse parole e idee, è lo stesso messaggio che noi leggiamo. Che cosa, dunque, dicono gli studiosi del Nuovo Testamento ai teologi e che cosa dicono i teologi a chi studia il Nuovo Testamento, nella comune lettura della Scrittura?

La risposta è allo stesso tempo semplice e difficile, proprio come accadde nell’incontro dell’apostolo Filippo con il “funzionario etiope di Candace”. Costui, nella sua carrozza, leggeva il profeta Isaia e proprio nel momento in cui stava leggendo il cap. 53 giunse a “Gaza, che è deserta” (come oggi). Filippo ferma il carro e interpella il lettore della Bibbia con la domanda ermeneutica: “Capisci quello che stai leggendo?”, e “partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui (il Vangelo di) Gesù” (At 8,35). Comprendiamo noi ciò che leggiamo, e afferriamo bene ciò che sappiamo? Questa è la domanda comune a esegeti del Nuovo Testamento e a teologi, e se questa è la domanda teologica rivolta agli esegeti del Nuovo Testamento, che conoscono i loro testi dal punto di vista della critica testuale e dal punto di vista storico, ciò, però, presuppone nei teologi che anch’essi leggano il Nuovo Testamento con l’aiuto degli esegeti; dunque la domanda ermeneutica è rivolta a noi: “Quello che vuoi comprendere, lo leggi anche?”. Felice l’esegeta del Nuovo Testamento che sa unire in sé entrambe le cose, come l’ha saputo fare Charles Moule; infelice il teologo che non lo sa fare. Ma come è possibile unire le due cose, per rispondere alla domanda ermeneutica in modo credibile?

Nel corso dei miei studi a Göttingen, tra il 1948 e il 1952, io ho avuto due maestri di Nuovo Testamento, famosi a livello internazionale: Joachim Jeremias e Ernst Käsemann. Col professor Jeremias si poteva apprendere l’esegesi storica lavorando con precisione sui testi. La sua teologia, però, era una devozione personale a Gesù, che egli aveva imparato nella comunità dei fratelli di Herrnhut. Con Ernst Käsemann si era costretti alla stessa faticosa analisi dei testi, ma si era anche sempre provocati subito ad una decisione teologica. Sui vangeli sinottici era forte Jeremias, nella Lettera ai Romani dell’apostolo Paolo Käsemann si sentiva nel suo elemento teologico. Nella mia giovinezza io ho seguito Käsemann e ho studiato ciò che Jeremias proponeva solo per dovere. Nella mia vecchiaia ho incominciato ad apprezzare sempre di più Jeremias. Come posso unire il meglio dei miei due insegnanti di Nuovo Testamento?


1. Metodi esegetici e il problema teologico

Ho grande rispetto per i metodi scientifici con i quali i miei colleghi di Nuovo Testamento indagano i testi, ma mi permetto pure di porre degli interrogativi teologici.


1. Il metodo storico-critico: Nella mia giovinezza teologica questo fu il primo metodo che noi abbiamo appreso. Il luminoso risultato di tale metodo è stata la Leben-Jesu-Forschung (Ricerca sulla vita di Gesù). Albert Schweitzer ne pubblicò la storia nel suo meraviglioso libro del 1906. È la storia della progressiva liberazione del vero “Gesù della storia” dal Cristo creduto dei dogmi cristiani. Albert Schweitzer scriveva con ammirazione: “La ricerca sulla vita di Gesù è stata, per la teologia, la scuola della veracità. Una lotta per la verità, tanto dolorosa e piena di rinunce, quale è condensata nelle Vite di Gesù degli ultimi cento anni, il mondo non l’aveva mai vista né più la vedrà”. Quali sono le fonti, e come vanno valutate, se si tratta di leggende? Come può l’esposizione storica accordarsi con i “miracoli soprannaturali” di Gesù? Il Gesù storico si è ritenuto personalmente il messia, il Cristo? Quali detti risalgono a Gesù stesso, e quali gli sono stati attribuiti dagli evangelisti? Conosciamo meglio Gesù comprendendolo come personalità storica? Albert Schweitzer pervenne ad un risultato negativo: “Alla ricerca sulla vita di Gesù le cose sono andate in modo strano. Essa partì per trovare il Gesù storico e ritenne di poterlo poi inserire, così com’è, nel nostro tempo, quale maestro e salvatore. Essa sciolse i legami con i quali da secoli egli era fissato alla roccia della dottrina della Chiesa, e si rallegrò quando… vide venirle incontro l’uomo storico Gesù. Egli, però, non si fermò, ma passò oltre il nostro tempo e ritornò nel suo” (631-632). E il suo tempo, di 2000 anni fa in Israele, ci è estraneo. Tutto è già da tempo così lontano che, come si dice in Svevia, “quasi quasi non è più vero”. Tuttavia, secondo Albert Schweitzer, quale uno “sconosciuto e anonimo” egli viene incontro a noi come agli uomini presso il lago di Genezaret, e dice soltanto: “Seguimi”, e ci pone davanti ai compiti che egli deve affrontare nel nostro tempo. Qui, soltanto la sovratemporale “volontà morale” lega noi oggi a Gesù di Nazaret, il quale visse e morì 2000 anni fa in terra di Giudea. Questo è il risultato cui giunse Albert Schweitzer, poiché egli non poteva credere alla risurrezione di Gesù.

Nel frattempo i presupposti dello storicismo non sono per noi più così scontati. Il rapporto storico con la storia conduce alla conoscenza di “fatti” e a separarli dalle interpretazioni. Tuttavia, i fatti si possono conoscere o non conoscere. Essi sono diventati muti e noi non li comprendiamo. In realtà, però, non ci sono fatti senza interpretazioni. In ogni fatto abita il suo significato e i fatti stessi cominciano a parlarci a seconda della problematica con cui ci avviciniamo ad essi. Lo storicismo ha “storicizzato” e ridotto al silenzio la storia viva, sciogliendo così il presente dal suo passato. Ma se la storia non ha più nulla da dirci, perché dobbiamo occuparci di essa?

Attraverso che cosa, propriamente, una persona della storia diventa storica? Attraverso il suo passato, attraverso la sua morte. Il Gesù storico è il Cristo morto, per dirlo in modo duro, ma con chiarezza. “Noi storici – così scriveva un noto uomo di scienza di Göttingen, quale fu Reinhard Wittram – facciamo uno strano mestiere: abitiamo città dei morti, ci occupiamo di ombre, censiamo gli scomparsi… La storia passata è una città dei morti. Non andiamo mai oltre questo” (Das Interesse an der Geschichte, Göttingen 1958, 16.30). E’ stato questo l’errore degli studiosi della Leben-Jesu-Forschung: il fatto di indagare la storia di un morto e considerare Gesù sotto la prospettiva della storia di morte? Come appare la storia di Gesù se noi, sulla base della sua risurrezione, la leggiamo come la “Storia di un vivente”, come Eduard Schillebeeckx ha titolato il suo libro su Gesù? Ci troviamo allora forse sulla stessa lunghezza d’onda degli evangelisti, i quali raccontano la vita di Gesù, la sua opera e la sua morte, alla luce della risurrezione, rendendolo così attuale? Non dobbiamo considerare il passato come l’insieme dei tempi perduti, ma lo possiamo considerare anche come “futuro passato”, come ha proposto Reinhard Koselleck. Ci interroghiamo allora sul futuro presente nel passato.


2. Negli anni Venti del secolo scorso comparve il metodo della storia delle forme (Formgeschichte), i cui rappresentanti in Germania furono Martin Albertz e Rudolf Bultmann. Si lasciò da parte l’indagine sui fatti e si ricercarono i significati. Così si trovò che tutte le testimonianze del Nuovo Testamento hanno il loro specifico “Sitz im Leben”: se è un detto il Sitz im Leben va cercato in un dialogo, se è una parabola in un discorso religioso, se parti di una liturgia o un annuncio in prediche, se canti o preghiere nella comunità. I testi vennero letti nei loro contesti e per ottenerne la migliore comprensione si indagarono i contesti sociali che i testi lasciano riconoscere. Certo, gli interessi erano assolutamente ambivalenti: si investigarono i contesti sociali, economici e politici per comprendere meglio i testi, oppure si usarono i testi per ricercare i contesti? Alla fine, io penso, è il testo che fa diventare contesto il suo Sitz im Leben, e non viceversa; non tutti gli esegeti, però, sono della mia opinione. Anche dalle diverse moderne “teologie contestuali” si apprende di più sui contesti della povertà in diversi paesi che sul testo biblico che parla della loro liberazione. Il metodo della storia delle forme è un metodo tipico delle scienze sociali, per chi lo utilizza determina la base socioeconomica della sovrastruttura spirituale e religiosa. Rudolf Bultmann, che seppe utilizzarlo magistralmente in esegesi, deve averlo capito: mentre utilizzava questo metodo per spiegare i vangeli sinottici, egli lo trasformò nella interpretazione esistenziale per comprenderli teologicamente, di modo che l’interpretazione del testo permettesse, al tempo stesso, al lettore l’interpretazione di se stesso. Per questa interpretazione la religione è “una questione privata” (Privatsache), priva di qualsiasi rilevanza sociale o politica.


3. Dopo il metodo della storia delle forme venne sviluppato il metodo storico-sociale. Ora noi siamo ben informati sulle condizioni economiche in terra di Giudea e della città di Gerusalemme e, inoltre, sulla società schiavistica dell’impero romano. Seguirono i metodi dell’antropologia culturale, che io ho imparato a conoscere dagli scritti dello studioso di Nuovo Testamento Gerd Theissen (Evangelische Theologie, fasc. 6, 2008). Nella teologia questo è considerato come “cultural turn”: la conoscenza della chiesa diventa scienza della cultura religiosa e nello studio del Nuovo Testamento l’ermeneutica scientifico-culturale prende il posto del paradigma ermeneutico-biblico. Al posto della responsabilità ecclesiale della teologia si ricerca la rilevanza culturale della religione cristiana. L’esegesi antropologico-culturale arricchisce l’esegesi storico-sociale di prospettive culturali. Come Paolo, così anche i cristiani delle origini si sono posti in relazione con le culture del giudaismo e della Grecia, per quanto questo possa essere avvenuto in modo critico. Riguardo alle immagini di Gesù dei vangeli ci sono sia analogie interne alle culture come pure analogie tra le culture: ad esempio, Gesù il taumaturgo, i taumaturghi presenti nel giudaismo e nella Grecia del suo tempo, e gli sciamani attivi in culture lontane o nel presente. In prospettiva antropologico-culturale l’antico codice di onore e vergogna acquista significato per la venerazione del Crocifisso, e il codice di purità e impurità è importante per la comprensione della guarigione, da parte di Gesù, della donna emorroissa. L’esegesi antropologico-culturale fa prendere coscienza dell’ambiente della Bibbia. La Bibbia viene da un mondo diverso ed è ambientata in un’altra cultura, rispetto alla nostra. L’antropologia culturale può documentare l’aspetto irritante e ciò che è ritenuto folle della fede cristiana, come anche gli adattamenti cristiani al mondo quotidiano dell’antichità, come si vede, ad esempio nelle tavolette domestiche per la vita familiare cristiana. In Germania la moderna teologia protestante della cultura, che è venuta dopo la vecchia teologia liberale, mostra un forte interesse legittimatorio nei confronti delle prime culture cristiane.

Ho così descritto soltanto uno sviluppo dei metodi praticati nell’esegesi del Nuovo Testamento. C’è, inoltre, una molteplicità di altri metodi per leggere i testi: metodi linguistici, retorici, psicologici. Tutti questi metodi sono utilizzabili universalmente e applicabili anche al Corano, alla Bagavadgita o al Taoteking. C’è anche una pluralità di interessi con cui i testi vengono letti. E ora ecco la mia domanda teologica, che ho sopra annunciato: Come andrebbero letti i testi del Nuovo Testamento, qualora si vogliano leggere nel senso dei loro autori e nel senso di ciò di cui essi parlano? In tal caso, da oggetti della ricerca essi diventerebbero soggetti del discorso, e noi diventeremmo in primo luogo uditori della parola. Che cosa, infatti, vogliono dirci i testi del Nuovo Testamento? Per dirlo in modo chiaro e semplice: essi vogliono annunciarci il Vangelo di Gesù Cristo, vogliono raccontarci e comunicarci il Vangelo per risvegliare la fede. Naturalmente, si possono indagare i drammi di Shakespeare che parlano di re anche dal punto di vista storico-critico, per conoscere la storia di questi re, ma si può allora comprendere il loro dramma?

Per spiegare la cosa in modo un po’ forte, ricorro ad un incubo: io mi immagino di salire sul pulpito, in una chiesa, per annunciare il vangelo e, se possibile, per suscitare la fede. Però non ci sono uditori delle mie parole: sui banchi siede uno storico, che analizza criticamente i fatti di cui io parlo; e poi c’è uno psicologo che analizza la mia psiche, così come la rivelo attraverso il mio discorso; e inoltre c’è un antropologo della cultura, che osserva il mio stile personale; e ancora un sociologo, che indaga la classe sociale di appartenenza, della quale mi considera un rappresentante, e così via. Tutti analizzano me e il mio contesto, ma nessuno ascolta ciò che io voglio dire. E la cosa peggiore: nessuno mi contraddice, nessuno vuole discutere con me su ciò che io ho detto.


2. Esegesi teologica di testi teologici

Naturalmente, con il mio incubo ho evidenziato la critica e fatto apparire alcuni miei colleghi non nella miglior luce. Ma un buon studio del Nuovo Testamento non si esaurisce nell’impiego di quei molteplici metodi della interpretazione contestuale, bensì è sempre concentrato sulla lettura e l’ascolto attento dei testi stessi e sul comprendere l’oggetto di cui essi parlano. Poiché i testi del Nuovo Testamento, come quelli dell’Antico Testamento, sono testi teologici, nello studio del Nuovo Testamento si tratta di esegesi teologica. Obiettivo di ogni studioso del Nuovo Testamento della mia generazione, che io conosca, è di scrivere, almeno una volta nella vita, un commento ad uno scritto biblico e quale ideale massimo è considerato il fatto di redigere una intera teologia del Nuovo Testamento, come quella prodotta da Rudolf Bultmann. Non tutti raggiungono l’obiettivo e soltanto pochi riescono a realizzare l’ideale al punto di poter misurarsi con il libro di Bultmann. Con queste osservazioni penso di poter riottenere l’approvazione degli esegeti di Nuovo Testamento qui presenti, poiché in definitiva nel Nuovo Testamento si tratta di testi teologici e non di documenti storici o di analisi sociologiche relative a quel tempo.

Se si vuol comprendere i testi del Nuovo Testamento nel senso dei loro autori, si deve entrare in rapporto con il loro messaggio cristiano, il messaggio che essi intendono comunicare. Io devo comprendere che cosa essi vogliono annunciare, raccontare o descrivere come Vangelo di Gesù Cristo. Ciò non significa che io debba essere d’accordo o che soltanto dei cristiani possano oggi comprendere i cristiani di allora. Né io devo essere necessariamente un credente per poter studiare teologia. Ma l’esegesi teologica di testi neotestamentari prende i testi alla lettera e cerca di afferrarne il contenuto. In questo giocano un ruolo importante, a cui occorre prestare sempre attenzione, il contesto, il kairos e la comunità di origine di questi testi, ma i testi non hanno solamente questi ambienti di riferimento, bensì anche il loro specifico contenuto, tanto che noi dobbiamo considerare le loro affermazioni anche secondo quello che viene detto.

Una indagine teologica sulla teologia dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, nel suo tempo e nella sua situazione, è però soltanto un lato dell’esegesi teologica. Dall’altro lato si pone la domanda su ciò che questo messaggio teologico può significare per noi oggi. Qui si leva il ponte ermeneutico from what meant to what it means (da ciò che ha significato a ciò che significa), e qui inizia il lavoro del teologo. Egli deve leggere la Lettera di Paolo ai Romani come se essa non fosse scritta soltanto ai cristiani di Roma di allora, ma anche a lui, lettore, e ai suoi contemporanei di oggi. Può allora, il teologo, prescindere dal lavoro teologico dell’esegeta del Nuovo Testamento e far apparire come per incanto la sua propria esegesi?

Prendiamo ad esempio Karl Barth. Il suo libro La Lettera ai Romani apparve nel 1922, diede vita alla nuova teologia dialettica e fu per molti l’opera teologica più importante della prima metà del XX secolo. La prefazione inizia con le frasi:

“Paolo ha parlato ai suoi contemporanei come un figlio del suo tempo. Ma assai più importante di questa verità è quest’altra, che egli parla, come profeta e apostolo del Regno di Dio, a tutti gli uomini di tutti i tempi”.
“Tutta la mia attenzione è stata rivolta a penetrare con lo sguardo attraverso l’aspetto storico, secondo lo spirito della Bibbia, che è lo Spirito eterno”.

Ci si deve confrontare con il testo e con ciò che si trova in esso fino a che il muro tra il primo secolo e il nostro secolo diventa trasparente, fino a che Paolo parla là e l’uomo ascolta qui, fino a che “il dialogo tra il documento e il lettore è tutto concentrato sul contenuto in questione… in quanto io, colui che comprende, devo spingermi avanti fino al punto in cui mi trovo ancora quasi solo davanti all’enigma dell’oggetto e quasi non più davanti all’enigma del documento”, dunque fino al punto in cui “dimentico che io non sono l’autore, ma lo lascio parlare in mio nome e, parimenti, egli può parlare in suo nome”.

Gli esegeti del Nuovo Testamento del suo tempo, legati al metodo storico, erano inorriditi: Adolf von Harnack relegò l’opera di Barth, nella sua biblioteca, nello scomparto “Bella letteratura”; soltanto Rudolf Bultmann l’accolse benevolmente, perché egli comprese questa forma di appropriazione esistenziale da teologo, anche se da storico trovò strano che Barth non si sia affatto interessato “alla lingua straniera giudeo-volgare-cristiano-ellenistica di Paolo”. In effetti Barth provoca i suoi lettori, già nella prefazione, con la dichiarazione che, se avesse dovuto scegliere tra il metodo storico-critico e la vecchia dottrina dell’ispirazione, egli avrebbe adottato decisamente questa: “La sua validità è più grande, più profonda, più importante, perché il compito che si propone è l’intelligenza stessa del testo”. Barth, però, non dovette scegliere e rifiutò l’alternativa che viene ancor oggi posta da fondamentalisti. Egli non si era neppure buttato sulla Lettera ai Romani con la “Hybris di un pneumatico” (Julicher), in modo del tutto impreparato e spregiudicato. Egli, dopo Calvino, aveva utilizzato il commento, dal punto di vista biblico-teologico assai preciso, dell’esegeta del Nuovo Testamento di Tubinga, Johann Tobias Beck, ma senza citarlo particolarmente, suppongo perché egli voleva provocare la corporazione [degli esegeti], la quale poi lo punì negandogli attenzione. Ma questa è storia passata: Karl Barth ha fissato in modo molto pertinente il lato presente del ponte ermeneutico, il ponte da ciò che ha significato a ciò che significa (what it meant to what it means). A mio parere, non c’è nessuno tra i teologi del XX secolo che lo abbia fatto meglio, più radicalmente e più efficacemente. Comprendi ciò che leggi, così a fondo che esso vive in te e si esprime attraverso di te? Paolo scrive nel suo tempo da apostolo alla comunità di Roma, ma ciò che egli dice in quanto apostolo di Cristo è, nel contenuto, così straordinario che attraversa i tempi e promette un futuro, davanti al quale ci troviamo anche noi oggi.

Barth non ha trovato molti seguaci che adottarono il suo tipo di meditazione teologica dei testi neotestamentari. Tuttavia oggi c’è una serie di filosofi che cercano questo incontro diretto con le idee dell’apostolo Paolo e sviluppano la loro filosofia in dialogo con la Lettera ai Romani, come un tempo Kierkegaard credette di poter vivere la “contemporaneità” con il Nuovo Testamento. Sono Alain Badieu, Giorgio Agamben e Slavoj Zizek. Essi si entusiasmano per la radicalità e i paradossi presenti nel pensiero di Paolo.

Io stesso credo che noi abbiamo bisogno di entrambe le cose, della New Testament Theology e della Present Theology. Credo anche che la New Testament Theology perde interesse se non tende alla teologia del presente e che la teologia del presente perde il suo fondamento se non si pone in ascolto della teologia del Nuovo Testamento. Purtroppo, però, nei due campi non ci sono molti teologi che leggono gli scritti gli uni degli altri. Perciò nel prossimo paragrafo affronto la questione:


3. Che cosa possono dirsi reciprocamente l’esegesi del Nuovo Testamento e la teologia

Credo che noi dobbiamo accuratamente distinguere la teologia del Nuovo Testamento e la teologia del presente, intrecciandole tuttavia l’una con l’altra.

1. La teologia del presente non dovrebbe attribuire i propri pensieri all’apostolo Paolo, per poi divulgarli con la di lui autorità. Karl Barth ha di fatto scritto la sua Lettera ai Romani come se Paolo e lui stesso fossero una sola persona, e per questo anche il suo titolo suona semplicemente Lettera ai Romani. Per amore di Paolo si deve rispettare il carattere peculiare e la estraneità della teologia dell’apostolo, che risale a 2000 anni fa. Si deve avere rispetto pure per la propria libertà e per la propria responsabilità teologica. Non ci si può appropriare della teologia di Paolo, né è lecito consegnarsi alla sua teologia al punto di rinunciare a se stessi. Il presente deve conservare il suo diritto nei confronti della tradizione. Molte cose nei vangeli e nelle lettere dell’apostolo sono condizionate dal tempo e non esprimono lo “Spirito eterno”. Molte cose vanno decise oggi e per queste decisioni non troviamo nessun orientamento nella Scrittura. Perciò io distinguo tra il vangelo di Gesù Cristo, che vale per tutti i tempi fino a che egli ritorni, e la forma che il testo ha trovato nel Nuovo Testamento, 2000 anni fa.


2. Perciò la teologia del presente, a differenza della teologia del Nuovo Testamento, deve entrare in un intenso dialogo con il testo e il suo autore su ciò che è detto nel testo. Per dirlo in modo pratico: Io leggo il testo secondo l’edizione critica del Nuovo Testamento greco (ed. Nestle/Aland) e interpello i rispettivi commentari sul passo in questione, poi confronto ciò che ivi viene detto con altri passi che esprimono la stessa cosa, mi domando inoltre se ciò che è inteso in questo passo basta e se è stato espresso bene, con il risultato che accetto il testo oppure lo critico, prima di scrivere il mio testo o di tenere la mia predica. Accettazione e critica non si orientano secondo lo spirito del presente, ma in base al confronto tra ciò che è detto e ciò che è da dire. Questo è il circolo tra esegesi del testo e esegesi del contenuto (oggettiva).

Fornisco un esempio al positivo e due al negativo:

a) Le affermazioni di Paolo sul significato del dono di Cristo fino alla morte di croce e sulla sua risuscitazione dai morti introducono tanto in profondità nei misteri della salvezza che io mi immergo in questi testi solo con grande stupore e cerco di continuare a pensarli anche al futuro. Non arrivo a nessuna fine e non prendo affatto distanza dalla critica: solo ascolto il vangelo di Dio.

b) I riformatori e tutti i teologi protestanti pensano allo stesso modo la dottrina della giustificazione nella Lettera ai Romani, ossia “che l’uomo viene giustificato per grazia”. Anch’io lo credo e ritengo che questi capitoli siano il vangelo dei peccatori. Tuttavia, quanto più vi rifletto e confronto la dottrina paolina sulla giustificazione con il messaggio del regno di Dio annunciato da Gesù ai poveri secondo i vangeli sinottici, mi sorgono dubbi se l’apostolo non abbia inteso unilateralmente soltanto la giustificazione dei peccatori, non però la giustificazione delle vittime. Secondo il cap. 7 della Lettera ai Romani, l’uomo è colui che fa il male e che tralascia il bene. Però, dove sono gli altri esseri umani, che “patiscono ingiustizia e violenza” e sono diventati vittime dei peccati di chi compie il male? Dio non procura forse “giustizia a coloro che soffrono violenza”? Non fa giustizia agli “orfani e alle vedove” che sono privi di aiuto? A partire da Paolo e da Agostino, e dai riformatori in poi, nella dottrina ecclesiale sulla giustificazione e nel sacramento ecclesiale della penitenza noi siamo unilateralmente centrati su chi compie il male. Non dobbiamo considerare e annunciare la giustizia di Dio, che crea vita, tenendo presenti anche le vittime? Qui, a mio avviso, in nome di ciò che ci è comune, è necessaria una integrazione della teologia dell’apostolo: il vangelo delle vittime.

c) Con questo arrivo, infine, a toccare due punti critici in cui si avanza una critica alle affermazioni di Paolo, che non riguarda soltanto il tempo in cui sono state fatte, ma a mio avviso anche il loro contenuto: ciò che Paolo scrive in 1Cor 14 e in 1Tm 2 sulla sottomissione della donna all’uomo e sul silenzio della donna nella liturgia oggi non è solo anacronistico, ma non corrisponde neppure al messaggio di Gesù Cristo, di cui Paolo stesso scrive: “… non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28); e non corrisponde nemmeno alla realtà della sua collaboratrice Phoebe, guida di comunità, e della sua con-apostola Junia (Rm 16,1.7). Esso contraddice infine il messaggio pasquale delle donne. Dunque in questi passi io non lo seguirò, ma lo contraddirò.

Una cosa analoga vale dei Giudei che, secondo quel che si dice, “hanno ucciso il Signore Gesù” (1Ts 2,14.15). Paolo sapeva bene che erano stati Ponzio Pilato e i Romani “ad uccidere” Gesù, non i Giudei. Di essi al massimo si può dire che hanno rifiutato il messaggio di Gesù. Che per questo motivo i Giudei “sono nemici di tutti gli uomini” e “non piacciono a Dio”, io nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani, capitoli che mi convincono, non lo trovo. “Dopo Auschwitz”, poi, quel passo della Lettera ai Tessalonicesi è inopportuno, e non è una buona testimonianza del vangelo ai Giudei e ai pagani.


4. Perché dobbiamo leggere il Nuovo Testamento, perché dobbiamo comprenderlo e interpretarlo per il presente?

La questione ermeneutica è la questione del ‘come’: come devo comprenderlo? L’ermeneutica non dà risposte alla questione del ‘perché’: perché devo comprenderlo? Essa presuppone la risposta positiva. Perciò: perché facciamo questo sforzo?

– Forse perché il Nuovo Testamento è il documento fondativo della tradizione cristiana e ha caratterizzato la storia della nostra cultura europea? Per questo, però, basterebbero la ricerca storica sui documenti e la loro storia degli effetti nel cristianesimo.

– Forse perché il Nuovo Testamento viene letto, spiegato e predicato in ogni liturgia della Chiesa? Questo è vero: il Nuovo Testamento non ha il suo Sitz im Leben soltanto nella terra di Giudea di 2000 anni fa, ma anche sugli altari e sui pulpiti delle chiese e nelle mani dei lettori di oggi. La parola che suscita la fede, che motiva l’amore e incoraggia alla speranza, rende presente Cristo. Per comprendere questa parola l’esegesi teologica e una corrispondente teologia ecclesiale del presente sono necessarie. Ma tutto questo basta?

– Adesso io parlo da teologo: il ponte ermeneutico, a cui si è più volte accennato, che porta dal Gesù storico e dal suo Vangelo a noi oggi, è il ponte sul fiume Lete, il fiume della dimenticanza. Esso è anche il ponte sul fiume di ciò che passa, poiché in fondo è, in primo luogo e in definitiva, il ponte dal Gesù storico al Cristo presente. È il ponte della risurrezione, posto sull’abisso della morte. Solo in forza della sua risuscitazione dalla morte di croce nell’anno 33, ad opera di Dio, Gesù è oggi presente. Se partiamo dalla presenza del Risorto, allora ricordiamo la vita, l’opera e la morte di Gesù come “la storia di un vivente”, proprio come gli evangelisti hanno raccontato la sua vita e la passione alla luce della sua risurrezione.

Il ponte ermeneutico ha il suo fondamento in questa svolta indeducibile e inattesa dalla morte alla vita, che noi riconosciamo avvenuta in Gesù Cristo: la sua fine temporale divenne il suo inizio eterno. Sul ponte ermeneutico percepiamo la storia della morte di Gesù Cristo nella luce del futuro della vita. Guardiamo indietro al futuro passato di Cristo e viviamo nel presente di colui che verrà. Nella storia di morte degli storici Gesù diventa ‘storico’ e rimane a noi estraneo; nella storia di futuro della vita eterna noi lo comprendiamo e addirittura accendiamo la fiamma della speranza sui cimiteri della storia, poiché Gesù non solo è risuscitato dalla sua morte di croce, ma è risuscitato “dai morti” anche come il primogenito di coloro che si sono addormentati e come l’autore della vera vita. In tal modo si raggiunge l’orizzonte universale di ciò di cui parla il Nuovo Testamento. Nel Cristo della Chiesa c’è più che la chiesa: si tratta della venuta di Dio e del futuro del nuovo mondo della vita, che supera la morte.

Comprendiamo ciò che leggiamo? Quando leggiamo il Nuovo Testamento e ne abbiamo profonda intelligenza, ci avviciniamo a ricordi sorprendenti e alla accecante luce di una grande speranza.

Filippo aveva dunque probabilmente ragione, quando “cominciando da questo passo della Scrittura annunciò il vangelo di Gesù”.




© 2009 by Festival della teologia, Piacenza
© 2009 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini