La fine del mondo, come fine di tutte le cose (secondo la formulazione del saggio di Kant del 1794), è un tema, cui tentano di avanzare risposte, sotto forma di ipotesi, la scienza, la filosofia, e la teologia come scienza della religione.
Il cosmologo tedesco Harald Fritzsch ha scritto il libro Vom Urknall zum Zerfall. Die Welt zwischen Anfang und Ende (München 1983), «Dall’esplosione originaria al crollo finale. Il mondo tra inizio e fine» (tradotto in italiano con titolo mutato e meno espressivo, Galassie e particelle, Torino 1985). È una (ma non l’unica) delle ipotesi cosmologiche recenti, che prospetta il divenire dell’universo dal big bang al big crunch. Anche se esistono altre cosmologie e altri modelli di universo, esse convergono nel prospettare «un universo tra l’inizio e la fine», e, dunque, un universo non eterno, ma di tempo finito, anche se indefinito.
Le religioni parlano di escatologia come di una dimensione della cosmologia, parlano dell’“ultimo” (éschaton), o delle “ultime cose” (éschata), e convengono nel credere che il mondo, il tempo, l’uomo e l’umanità vanno incontro a Dio secondo un ideale di salvezza e redenzione, variamente proposta e descritta dalle diverse religioni. Il discorso escatologico è, dunque, un discorso non solo sulla fine, ma sull’aldilà dell’uomo e sull’aldilà del mondo, ed è un discorso non curioso, ma fatto per orientare l’azione dell’uomo nel mondo, come ha osservato anche Kant in La fine di tutte le cose (Berlin 1794).
Per l’induismo e il buddhismo, il mondo viene considerato un’apparenza, e la liberazione è un dissolvimento dell’io nel Tutto. Non si parla propriamente di escatologia, come fanno ebraismo, cristianesimo, islamismo. Qui mi focalizzo sull’escatologia cristiana, che l’ermeneutica biblica e teologica del XX secolo ha profondamente rinnovato.
L’escatologia ha sempre a che fare con la fine, ma essa non ha come tema la fine, ma la ricreazione di tutte le cose. L’escatologia ha una dimensione apocalittica, in quanto l’apocalittica mette a tema la fine del mondo (con segni premonitori, come l’Anticristo, il millenarismo, e con immagini di catastrofe, che i fondamentalisti assumono alla lettera e amplificano nelle loro speculazioni e fantasie, ma che invece necessitano di una attenta ermeneutica nel contesto dell’escatologia). L’Anticristo è interpretabile come figura della violenza del male in atto nella storia del mondo; il millenarismo come regno millenario della pace è interpretabile come la controfigura di una speranza e di una prassi, alternative alla desertificazione del creato; il catastrofismo delle immagini dà espressione al crollo di un mondo vecchio, segnato da peccato, male e morte. L’apocalittica specula sulla fine, l’escatologia attende «l’avvento di Dio».
L’apocalittica preserva la dottrina cristiana della speranza da un ottimismo superficiale, ma l’escatologia è la speranza che “nella fine” si ha un “nuovo inizio”. Un’apocalittica senza escatologia non rientra in una prospettiva biblica, ma sarebbe una teoria della catastrofe, mentre l’escatologia, pur considerando la fine (è la dimensione apocalittica dell’escatologia), implica sempre la categoria del novum, e alimenta una speranza “creativa” e “militante”. In una recente intervista (2003) il teologo Jürgen Moltmann, ricordando il filosofo Bloch autore de Il Principio speranza (1959), si è così espresso: «Bloch ha fatto spesso delle osservazioni piuttosto semplici sulla morte. Ma Il Principio speranza incomincia: “Che cosa attendiamo noi propriamente?”. Ma poi viene la domanda seguente: “Che cosa ci attende?”. E su questo voleva una risposta». E la risposta del teologo è: «Noi siamo attesi».
© 2009 by Multiverso. Rivista interdisciplinare dell’Università di Udine (dicembre 2009)
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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)