02/04/2004
30. La teologia di Congar sulle vie dell’unità e della nuova cattolicità Ricordando il centenario della nascita del teologo francese (Sedan, 13 aprile 1904 – Parigi, 22 giugno 1995) di Rosino Gibellini
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In occasione del centenario della nascita di Yves Congar (1904-1995) si è tenuto nel convento di S. Domenico di Pistoia un Seminario di studio sul tema: “Un maestro da ricordare. – Un servizio teologico da continuare”. L’opera di Congar è stata rivisitata da Alessandro Salucci op, Vincenzo Caprara op, Fabrizia Giacobbe op, Claudio Monge op, Aldo Tarquini op, Alessandro Cortesi op, Bruno Alberto Simoni op. Riportiamo una parte della relazione finale di Rosino Gibellini.


La figura di Congar si colloca all’interno della grande teologia francese, che va sotto il nome di «teologia del rinnovamento» (théologie du renouveau) o, sotto quello, allora polemico di nouvelle théologie, che si sviluppa dalla «germinazione degli anni Trenta» (secondo l’espressione di Chenu) fino al concilio Vaticano II, e oltre, lungo il processo di ricezione del concilio. Congar è l’ecclesiologo, che apre l’ecclesiologia cattolica all’ecumenismo. E in questa operazione è stato un pioniere. Il teologo evangelico Jürgen Moltmann in un bilancio del Novecento teologico (del 1988) osserva che il percorso della teologia del XX secolo ha portato la chiesa cristiana dall’epoca pre-ecumenica all’epoca ecumenica. Ed è in questo percorso epocale, che si inserisce l’opera di Congar. Ma è un percorso non concluso, ancora aperto in avanti. Scrive Moltmann nello studio citato: «Il cammino del movimento ecumenico è abbastanza chiaramente riconoscibile: ha condotto dall’anatema al dialogo, e quindi dal dialogo alla cooperazione; condurrà dalla cooperazione alla comune professione di fede. La decisione a questo proposito può essere presa solo da un concilio cristiano generale».

Congar ci passa in eredità \«l’amore alla Chiesa», ad una chiesa capace di riforma, come si esprime nel rapido volumetto, pubblicato all’indomani della conclusione del concilio, Cette Eglise que j’aime (1968); e «la passione per l’unità», come si esprime nel libro autobiografico, Une passion: l’unité (1974). In questo senso il teologo domenicano si inserisce e alimenta un grande movimento spirituale, che ha trovato espressione soprattutto nella prima metà del XX secolo.

È stato Romano Guardini nei primi anni Venti del secolo appena scorso ad uscire in quell’espressione, che può essere assunta come diagnostica di uno dei lineamenti della teologia del XX secolo: «Un processo di incalcolabile portata è iniziato: il risveglio della Chiesa nelle anime». Un risveglio, che era connesso nell’analisi del giovane teologo italo-tedesco con il risveglio culturale ad un nuovo senso della realtà come realtà vissuta e al senso comunitario. Svaniva, sulle macerie della prima guerra mondiale, l’incanto per l’idealismo e per l’io astratto, e la coscienza cristiana iniziava a percepire la chiesa come via verso la personalità, e insieme, come via verso la comunità. Le «Lezioni sulla Chiesa», tenute da Guardini all’università di Bonn nel 1921 e pubblicate nel 1922 con il titolo Il senso della Chiesa, avevano entusiasmato il suo uditorio e i suoi lettori, che le avvertivano «come un colpo d’ala, un soffio di cristianesimo originario, pentecostale», in quanto additavano «nuove vie verso un rapporto vivo tra chiesa e personalità, verso una crescita umana autentica fondata sulla libertà interiore, che sfocia in una comunità di grazia». La celebre espressione di Guardini del 1922 troverà eco, a sua volta, in campo ecumenico, nell’opera del teologo protestante Otto Dibelius, Il secolo della Chiesa (Das Jahrhundert der Kirche, 1927), che anticipa i fermenti che si concretizzeranno nella Chiesa confessante, che renderà attiva la resistenza al nazionalsocialismo. Ma credo che si possa dire che l’interprete più puntuale e più efficace di quel movimento di spirito e di pensiero sia stato Yves Congar, il teologo che ha fatto scoprire alla chiesa cattolica l’ecumenismo.

Annota Congar nel suo Diario del concilio, in data 18 novembre 1963, quando stava per iniziare la discussione sull’ecumenismo, che si sarebbe conclusa con l’approvazione del decreto Unitatis Redintegratio (21 nov. 1964): «È un momento storico. In questa mattina del 18 nov. ci raccogliamo in preghiera, ascoltiamo, attendiamo nella speranza. La chiesa sta per pronunciarsi in maniera definitiva a favore del dialogo. Forse si stupirà essa stessa di vedersi convinta, ad una tale profondità, di cose di cui non aveva affatto idea solo qualche anno fa [...]. Chi ha deposto questo seme? E chi l’aveva posto in me, già 35 anni fa? Ma chi fa sì che ad ogni notte succeda un’aurora? E ad ogni inverno una primavera?». Il giovane Congar infatti era arrivato all’ecumenismo nel lontano 1929 (quando la teologia cattolica era ancora sotto la cappa pesante dell’anti-modernismo), durante gli anni della sua formazione teologica, e all’ecumenismo dedicherà opere rilevanti, che anticipano ed insieme accompagnano il cammino della comunità ecclesiale.

Il libro Cristiani disuniti, del 1937, reca come sottotitolo Princìpi per un «ecumenismo» cattolico, dove la parola «ecumenismo» è messa tra virgolette, perché il suo uso non era autorizzato. E questo indica l’estrema cautela con cui il teologo cattolico doveva affrontare il campo minato della teologia ecumenica. La stessa cautela guida Congar nell’affrontare il tema scottante della riforma in Vera e falsa riforma nella Chiesa del 1950 (quello che è ritenuto il libro più grande di Congar), dove non si parla di riforma della chiesa, ma di riforma nella chiesa, e dove si precisano le condizioni generali di un «sano riformismo», che non è riforma della dottrina, ma riforma che si sviluppa nella vita concreta della chiesa: riforma come rinnovamento. Per rendersi conto della cautela, con cui doveva procedere nel suo lavoro pionieristico Congar, si potrebbe citare il volumetto di Rahner, Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance (1975), dove il teologo tedesco propone un progetto ecclesiologico di riforma strutturale della chiesa. Durante il concilio, nel 1964, esce Cristiani in dialogo, che già nel titolo quasi fotografa l’intenso cammino percorso, e dà il senso del «soffio dello Spirito» - un altro grande tema del teologo francese.

A 45 anni da Cristiani disuniti Congar pubblica il suo corso tenuto all’Institut Catholique di Parigi Diversità e comunione (1982), che rappresenta il punto d’arrivo di un lungo itinerario ecclesiologico ed ecumenico. A che punto è l’ecumenismo? Per Congar, un buon cammino è stato percorso, che ha portato ad un reale avvicinamento, ma ora, dopo tanti progressi, l’ecumenismo appare come bloccato e segna il passo. Il problema è come procedere oltre, e sempre più il nodo inestricabile appare l’ecclesiologia, ossia la diversa struttura che si sono date le chiese nella lunga storia della separazione. Per Congar, due vie restano escluse: la via del ritorno dei cristiani non-cattolici all’ovile della chiesa cattolico-romana: questa posizione sarebbe indice di integrismo ecumenico (e, in definitiva, era questa la posizione dello stesso Congar in Cristiani disuniti, anche se espressa con tutta l’apertura allora possibile); e la via del differimento dell’unità fra i cristiani all’escatologia, come miracolo che Dio compirà alla fine dei tempi: questa posizione sarebbe una fuga dai compiti storici e sarebbe indice di pessimismo ecumenico. Dunque: né ritorno all’ovile romano, né rimando sine die dell’unità. La unitatis redintegratio rimane un compito storico per le chiese cristiane. Il problema resta fino a che punto la comunione tolleri le diversità: il modello ecumenico da perseguire nella teoria e nella prassi deve configurarsi come «unità della fede e unità/diversità delle sue formulazioni». Congar è andato sempre più convincendosi della necessità di coniugare la «cattolicità» con la «diversità» e con il «pluralismo». Se in Cristiani disuniti, la «cattolicità della chiesa è la capacità universale della sua unità»; in Diversità e comunione, la cattolicità si coniuga con la diversità e con il pluralismo, visto «come valore interno dell’unità».

Il più grande ecumenista della chiesa cattolica si confida nelle sue Conversazioni d’autunno (1987) – a mezzo secolo da Cristiani disuniti (1937) – : «Ho incominciato con una formazione tomista ben accentuata, che d’altronde non voglio rinnegare, perché è una buona formazione dello spirito; ho incominciato con affermazioni solide: era l’idea di cattolicità che all’epoca mi pareva comprendere le diversità; oggi sono più sensibile alle diversità [...]. Raccomando un riferimento al tronco comune delle nostre origini».

Congar, inoltre, nel corso accademico parigino sottolinea quattro dimensioni dell’ecumenismo. Vi è l’ecumenismo teologico o dottrinale, al quale attiene la riflessione teologica di Congar, e a questo riguardo sono da registrare proposte ancora più avanzate, come quella di Heinrich Fries e Karl Rahner, in Unione delle Chiese – possibilità reale (1983); e del teologo evangelico Oscar Cullmann nella sua sintesi ecumenica L’unità attraverso la diversità (1986), che sono risultate non del tutto convincenti per l’ecumenista Congar, che però conviene con Rahner nell’importante affermazione: «La teologia cristiana per il pagano di oggi è la miglior teologia ecumenica». Vi è l’ecumenismo istituzionale che ha registrato l’accordo sulla giustificazione sottoscritto nelle ultime settimane del XX secolo, e che «rappresenta perciò un punto di partenza da cui occorre adesso muovere per arrivare a un accordo anche circa i problemi ancora controversi» (Peter Neuner). Vi è un ecumenismo spirituale, che Congar ha sorprendentemente scoperto nel 1929 e praticato per tutta la vita. Vi è infine un ecumenismo pratico, quando le comunità cristiane agiscono insieme al servizio dell’umanità nel mondo, anche se il teologo Congar avverte: «Ci si perdonerà, tuttavia, perché questa è la nostra vocazione, se consideriamo soprattutto l’aspetto dottrinale, evidentemente decisivo, del compito ecumenico».

Questo problema della coniugazione tra unità e diversità si fa più urgente, e non più dilazionabile, in quanto si osserva nella pubblicistica degli ultimi decenni, uno spostamento dal dibattito ecclesiologico al dibattito sul futuro del cristianesimo, sul quale esistono, ormai, alcune decine di studi, a partire da un testo, sfidante, dello storico francese Jean Delumeau, Il cristianesimo sta per morire? (1977). Secondo lo storico francese il cristianesimo nella sua storia ha subito deviazioni per il suo intreccio con il potere, di cui la chiesa sta pagando ancora il prezzo. Si tratta, ora, sotto la spinta della de-cristianizzazione, di «voltare finalmente pagina» per operare il passaggio da una religione oppressiva e repressiva (è noto che Delumeau ha illustrato storicamente lo strumento ecclesiastico della «pedagogia della paura») a un cristianesimo aperto, e si avanza la proposta di un «Credo fondamentale» e di una «unità» da realizzare «nella diversità». Nonostante l’allarmante analisi e l’interrogativo inquietante, Delumeau è convinto della «solidità del cristianesimo» e della sua indubbia «capacità di adattamento», ma avverte: «Ecco la verità del cristianesimo d’oggi, ed ecco il suo futuro quale può essere intravisto secondo una prospettiva umana. Non sarà autorità, ma libertà; non sarà potere, ma umiltà; non sarà uniformità, ma diversità; non sarà quantità (ma lo storico è perfettamente consapevole della rilevanza della quantità numerica per una religione che avanza la pretesa all’universalità), ma qualità».

Questa espressione del «voltar pagina», che si trova nel saggio di Delumeau, è stata recentemente ripresa nel volume in collaborazione, Chrétiens, tournet la page! (2002), «Cristiani, voltate pagina!», in cui un gruppo di storici, sociologi e teologi riprende il tema del futuro del cristianesimo e avanza la proposta di una nuova «configurazione» della chiesa cattolica (e del cristianesimo), che sappia iscrivere una istituzione pesantemente gerarchica e clericale nei nuovi contesti della mondializzazione e del pluralismo delle culture e delle religioni.

Su questo fronte si colloca, con una sua movenza particolare, il teologo cattolico nordamericano Robert Schreiter, già discepolo di Schillebeeckx all’università di Nimega, e detentore della cattedra di «Interculturalità», istituita in onore di Schilleebeckx all’università di Nimega, con The New Catholicity (1997). Nell’analisi di Schreiter, alla sfida della globalizzazione, che ha subito una accelerazione con i fatto politici intercorsi nel 1989, la chiesa può rispondere con un concetto rinnovato e dilatato di cattolicità, e cioè una cattolicità capace di includere le differenze e di praticare uno scambio e una comunicazione interculturale. Scrive il teologo americano: «Mi sembra che un concetto rinnovato e dilatato di cattolicità potrebbe servire bene come una risposta teologica alla sfida della globalizzazione. Esso può fornire un quadro teologico, a partire dal quale la chiesa potrebbe comprendere se stessa e la sua missione nelle mutate circostanze ».

La teologia di Congar è dunque da riprendere, storicizzandola, e cioè inserendola nei nuovi esigenti contesti, culturali e teologici, a cui abbiamo fatto cenno. Certo, ci sono pagine nell’opera del grande teologo, che sono già entrate, anche per merito suo, nella coscienza cattolica ed ecumenica, ma ora si tratta di recuperare, di rileggere e di rimeditare i suoi «scritti riformatori"» come si è espresso recentemente Jean-Pierre Jossua; scritti che sono destinati ad aiutare la nuova generazione a pensare e vivere la chiesa, e ad agire la sua riforma, lungo il cammino dell’ecumenismo, che rappresenta uno degli eventi maggiori, «inatteso e ancora incompiuto» (Peter Neuner), della teologia del XX secolo.

Ma si deve dire che Congar ci ha sorpreso anche dopo la sua morte (22 giugno 1995). Postumi sono stati editi tre Diari: il primo, Journal de la guerre (1914–1918), nel 1997; il secondo, Diario di un teologo (1946–1956) nel 2001; il terzo, in due tomi, Il mio diario del Concilio nel 2002. Recensendoli – e vorrei terminare con questo pensiero – il gesuita spagnolo González-Faus ha osservato: «Curiosamente, la migliore ecclesiologia del XX secolo non è un trattato sulla Chiesa, ma il Diario di un teologo. Di un uomo buono, penetrante, vulnerabile e limitato come tutti, martirizzato dalla curia romana, e di cui Giovanni Paolo II affermò che “era stato un dono di Dio alla sua Chiesa”».


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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
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