Il quotidiano AVVENIRE in data 12 aprile 2003 ha pubblicato un testo del teologo Jürgen Moltmann, tratto da un più ampio testo edito nell’opera Prospettive teologiche per il XXI secolo (a cura di Rosino Gibellini).
In questo brano Moltmann svolge il tema della speranza cristiana in un tempo di incertezze e di conflitti quale è il nostro tempo.
Proponiamo queste riflessioni di grande intensità teologica e spirituale per i nostri lettori.
Prima di approfondire alcuni agganci tra le speranze storiche del XIX secolo nei confronti del XX secolo, vorrei ritornare all’“angelo della storia” di Walter Benjamin: egli guarda al passato, con gli occhi spalancati su un cumulo di rovine che s’innalza fino al cielo. È ancora immobile, perché la “bufera dal paradiso” s’impiglia nelle sue ali, così che non riesce a spalancarle. Ma che cosa vorrebbe fare quest’angelo? Per che cosa è stato inviato? «Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto». Non lo può fare finché la bufera non gli consente di dispiegare le ali. Per Benjamin la “bufera” è appunto quello che noi chiamiamo “progresso”. L’immagine biblica che si staglia sullo sfondo è quella delineata in Ezechiele 37: la risurrezione e la ricomposizione d’Israele. Il profeta viene condotto dallo Spirito del Signore in un’ampia «pianura che era piena di ossa».
«Destare i morti e ricomporre l’infranto» è la speranza di futuro rivolta al passato. Non c’è futuro storico in cui ciò possa accadere. Bisogna che si dia un futuro per l’intera storia e con esso una motivazione trascendente. Uomini mortali, infatti, non sono capaci di risuscitare ciò che è morto. E chi ha frantumato non può ricomporre le macerie. Non c’è futuro umano capace di “risanare” i delitti del passato. Per poter convivere con questo passato di macerie e vittime, senza rimuoverlo e senza sentirsi costretti a ripeterlo, noi abbiamo bisogno di questa speranza trascendente di morti che risorgono e di lacerazioni che si risanano.
Fondata sulla risurrezione di un Cristo frantumato, la speranza cristiana di futuro, nel suo nucleo, è speranza di risurrezione. Se non c’è speranza per il passato non c’è nemmeno speranza per il futuro, perché ciò che diviene è destinato a passare, ciò che nasce un giorno morirà, e quel che ancora non c’è un giorno non ci sarà. La speranza della risurrezione non è orientata verso un futuro nella storia, bensì al futuro per la storia, dove si risolveranno le tragiche dimensioni della storia e della natura. Qualificare il futuro della storia con la risurrezione dei morti significa incontrare in essa anche il nostro passato. E con i morti incontriamo i caduti, i morti per il gas, gli assassinati e “gli scomparsi”: i morti di Verdun, Auschwitz, Stalingrado e Hiroshima ci aspettano.
Solo chi si ricorda può guardare negli occhi questo futuro che ha il nome di “risurrezione dei morti”. E chi guarda a questo futuro può davvero far memoria del passato e vivere alla sua presenza. Una “cultura del ricordo”, di cui oggi molti si chiedono il senso, dev’essere sorretta da una “cultura della speranza”, poiché privo di speranza in un futuro del passato e dei trapassati il ricordo sprofonda nella nostalgia e alla fin fine nell’oblio impotente, oppure quel che si ricorda è talmente persistente che non riusciamo più a liberarcene, perché non ci abbandona mai. «Ricordare è affrettare la redenzione» è la scritta che campeggia sullo Yad Vashem, il luogo di commemorazione della vittime dell’Olocausto a Gerusalemme. E parlando da storico, Leopold von Racke diceva che «i morti sono morti, ma noi li richiamiamo in vita. Camminiamo con loro “occhi negli occhi” e da noi essi pretendono la verità».
Se stabiliamo un confronto tra Benjamin ed Ezechiele, vediamo che quella bufera che va sotto il nome di “progresso”spira nella direzione contraria. Essa viene “dal paradiso”, dice Benjamin, cioè sospinge gli uomini sempre più lontano dalla patria d’origine. Il vento della risurrezione non soffia dal passato verso il futuro, ma dal futuro verso il passato e riporta sulla scena ciò che più non ritorna: i morti, e risana ciò che insanabilmente giace decomposto: le rovine. Lo cogliamo già nello Spirito della Pentecoste, il quale infonde la vita con le «meraviglie del mondo futuro» (Eb 6,5).
In quale rapporto stanno queste due bufere – “progresso” e “risurrezione” – tra loro? Come combinare insieme la speranza trascendente in Dio e le speranze immanenti degli uomini? Io credo che si tratti di un rapporto di controsenso. Proprio perché e in quanto la fede nella risurrezione apre il futuro ai trapassati, chi vive al presente prende coraggio per il futuro. Proprio perché c’è una grande speranza di superare la morte e il tempo trascorso, prendono forza anche le nostre piccole speranze di tempi migliori e non diventiamo preda della rassegnazione e del cinismo. In un’età solcata dall’angoscia, noi speriamo “comunque” e non desistiamo. Abbiamo il “coraggio di essere” malgrado il non-essere, come pertinentemente Paul Tillich osservava. Ma allora le nostre limitate speranze di futuro suoneranno come risposta al futuro che Dio riserva ai trapassati.
Rosino Gibellini (ed.), Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana 2003, pp. 432, € 35,00
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