Una frase del nostro maestro dei novizi mi accompagna dai tempi del mio noviziato domenicano: «Vivere il celibato consacrato significa accettare la scomodità e il rischio di lasciare la porta della propria vita affettiva largamente socchiusa». Sposarsi di solito permette di chiudere, per quanto è possibile, la porta a tutte le altre possibilità e di costruire un rapporto affettivo nel tempo con il proprio coniuge. Niente di simile nella vita consacrata che, oltretutto, suscita per natura confidenze, scambi a cuore aperto, e nutre molto facilmente una raffigurazione idealizzata della persona celibe «in vista del Regno dei cieli».
È forte la tentazione di chiudere quella dannata porta con ogni mezzo. Il più naturale è porsi, per quanto possibile, fuori dalla portata del rischio del rapporto, separarsi. Ciò significa, in primo luogo, non porsi più in una situazione di alterità in cui il rapporto è fatto di scambio reciproco, in cui ognuno si lascia raggiungere, si lascia toccare. È questo bisogno di separazione, in parte necessaria, la ragion d’essere della clausura monastica.
Il clericalismo, di cui Papa Francesco non smette di denunciare la pericolosità per la Chiesa, ha in parte origine da questo desiderio legittimo di mettere la propria vita affettiva al riparo dalle correnti d’aria. Ma la clausura clericale può presto rivelarsi, sia per i sacerdoti sia per le persone che li frequentano, anche se con le intenzioni più pure da entrambe le parti, una protezione tanto più illusoria in quanto può nascondere il rischio della seduzione reciproca.
Tale rischio è aggravato dal fatto che il bisogno di una giusta distanza si coniuga con la propensione di ogni istituzione umana a produrre i propri strati, i propri codici e le proprie élite. La Chiesa non solo non fa eccezione, ma ha addirittura una propensione particolare a sacralizzarli. Che cosa abbiamo fatto del comandamento di Gesù ai suoi discepoli «e non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Matteo 23, 9)? Quando capiremo finalmente che con queste parole Gesù auspica vivamente una Chiesa di fratelli e di sorelle e non una Chiesa scissa tra sacerdoti e fedeli, così come ha denunciato papa Francesco nella sua lettera sugli abusi sessuali dello scorso 22 agosto? «Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo».
Pertanto, lungi dall’essere un baluardo contro gli assalti dell’affettività, questo isolamento clericale, anche sotto forma di autorità degli uni sugli altri — che, se non si fa attenzione, l’ordinazione sacerdotale genera in modo così naturale — può creare le condizioni favorevoli a ogni sorta di eccesso, di abuso di potere. Tali abusi scioccano ancor di più in quanto spesso toccano le corde più delicate dell’anima delle persone che li subiscono. I danni umani sono ancora più terrificanti. E se commessi su bambini, sono criminali e devono essere trattati come tali.
Periodicamente si levano voci che invocano tali abusi a sostegno della rivendicazione del «matrimonio dei sacerdoti», panacea per tutti i mali della Chiesa. È di fatto un altro modo di soccombere ancora una volta alla tentazione di sbattere questa dannata porta socchiusa. Sarebbe davvero un peccato se la Chiesa cattolica romana si riallacciasse alla sua tradizione millenaria di ordinazione di uomini sposati per un simile motivo, di mancanza.
Ben lungi dall’essere una frustrazione affettiva perversa e pericolosa per il contesto, il celibato consacrato è un tesoro del cristianesimo. Oggi ancor più che in passato, ha in sé un’incredibile carica profetica ed è un cammino di felicità e di realizzazione umana. Quant’è bello provare questa libertà di una vita come fratelli e come sorelle in un rapporto di alterità e di uguaglianza assoluta in dignità. Quant’è bello assaporare la castità di un rapporto di amicizia tra uomini e donne, certo raramente scevro della sua parte di seduzione reciproca, in un mondo in cui il desiderio è l’oggetto di tutte le polarizzazioni.
Dio, quant’è bello questo rapporto, Dio, quanto è vertiginoso. Significa accettare il rischio di questa porta socchiusa, non abbassare mai del tutto la guardia e guardare in faccia la nostra fragilità umana piuttosto che nasconderla dietro a protezioni illusorie. Significa l’umiltà e l’annullamento dell’amico dello sposo, che esulta di gioia alla voce dello sposo (cfr. Giovanni 3, 29), più che la sicurezza di un “uomo di Dio” che potrebbe sorprendersi a dimenticare che rimane comunque un uomo.
© 2018 by L’Osservatore Romano
© 2018 by Teologi@Internet
Forum teologico diretto da Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)