29/08/2014
294. LA NOVITA' DI DIO E L'UNICITA' DELL'ESSERE UMANO Sul libro di Angelo Bertuletti, «Dio, il mistero dell’Unico» di Massimo Epis
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Bertuletti

La pubblicistica teologica più recente registra, da una parte, una moltiplicazione dei saggi e dei contributi che rende difficoltoso l’orientamento in una produzione tanto vasta ed eterogenea; dall’altra soffre la mancanza di opere in grado di offrire una sintesi connotata da originalità e consistenza teorica. Il cultore della teologia rimane così esposto al rischio della dispersione e della ripetizione stanca. Il volume di Bertuletti non si presta a semplificazioni; il lettore, però, viene ripagato, perché è nobilitante scoprirsi direttamente coinvolti in un dialogo serrato con le figure di maggior rilievo della tradizione teologico-filosofica occidentale.

L’obiettivo del testo coincide con il compito fondamentale della teologia: dare ragione dell’universalità del discorso cristiano su Dio al di là della giustapposizione fra l’approccio razionale e quello rivelato, ovvero del dualismo tra l’interrogazione universale e l’autocomprensione della fede. Poiché la razionalità filosofica pone come criterio della verità del sapere la sua accessibilità alle condizioni universali dell’esperienza, si tratta di mostrare che si dà una universalità della questione di Dio ch’è condizione interna alla verità cristologica. È in questo senso che viene ricompresa come irrinunciabile l’istanza della teologia naturale.

Lo svolgimento ha l’andatura di una decostruzione delle principali figure della concettualità teologica. L’ipotesi teorica orientativa è che l’irriducibilità della teologia alla filosofia (non c’è nessuna fondazione filosofica della teologia, perché non c’è accesso alla verità teologica esterno alla sua effettività cristologica) e l’autonomia della filosofia (in ragione del carattere originario dell’antropologia) rispondono allo stesso principio. Nel paradigma biblico, infatti, il concetto di Dio è inseparabile dall’esperienza che ne costituisce la via di accesso; esperienza nella quale l’idea teologica e l’antropologia formano una unità indissolubile, perché la rivelazione pone l’alterità non come semplice preliminare o destinatario, ma come sua componente.

Oggi è quasi impossibile definire la teologia filosofica senza un chiarimento del ruolo determinante della metafisica (è la grande lezione di Heidegger, al di là delle sue conclusioni), quindi passando dalla rivisitazione delle principali figure della sua tradizione, assumendo come criterio interpretativo la teoria fenomenologica sulla struttura originaria della verità. Essa si qualifica come un nuovo inizio del pensiero critico, nel superamento dell’esteriorità – ereditata dalla tradizione metafisica – fra il pensiero e l’intuizione, in nome dell’a priori correlazionale: la correlazione è la forma della verità, perché la verità non si manifesta se non realizzando, nella sua stessa fenomenalità, l’a priori della coscienza ch’è la condizione del suo riconoscimento. Non si può parlare della verità se non a procedere dalla forma della sua fenomenalità, in rapporto alla quale l’atto della coscienza è costitutivo (non per mera adeguazione, ma per reciproca determinazione).

La differenza ontologica non riguarda una struttura del reale preordinata all’attuazione, ma ciò che questa riconosce come la condizione immanente della sua verità per il fatto che la realizza. Infatti, poiché il sé non può porsi come incondizionato se non in quanto si sa autorizzato, l’evidenza originaria dell’atto implica già sempre il riconoscimento della trascendenza, il quale ha la stessa qualità epistemica dell’atto di totalizzazione del sé. Le condizioni dell’affermazione realistica di Dio sono inseparabili dalle condizioni dell’affermazione realistica dell’io come un sé.

Luogo originario della significazione ontologica – dell’assoluto, quindi, e non semplicemente ontica – è l’esperienza della ipseità nella differenza interpersonale. Nell’asimmetria della relazione ad altri si attesta la qualità trascendente dell’istanza che mi costituisce responsabile di me e di altri. Analogamente, la questione del male non problematizza l’intero dell’esistenza se non in quanto esso occulta o nega l’evidenza di un’istanza, la quale si dimostra più originaria del male, poiché è da essa che il male deriva il suo carattere totalizzante. In ciò consiste il privilegio paradossale del male: esso rivela l’intenzione del bene come più originaria del male che la problematizza. Se si nega la precedenza dell’intenzione del bene come costitutiva dell’originario della coscienza, è soppressa la condizione radicale di una riflessione che porta sul senso totale dell’esistenza.

Lo spazio del religioso è quello di una trascendenza o alterità assoluta, che solo una manifestazione-donazione, irriducibile all’autoposizione della coscienza, può dischiudere, ma che proprio così si dimostra il termine unicamente adeguato della sua intenzione trascendente. Essa dice il senso positivo della finitezza nello stesso atto che ne sancisce l’insuperabilità. Il nome di “Dio” non è secondario per l’indagine filosofica, perché fa riferimento al telos e all’origine dell’ingiunzione autorizzante la mia ipseità. L’intenzionalità che termina alla realtà di Dio risponde alla stessa necessità per la quale il soggetto non accede alla coscienza di sé se non nell’atto totalizzante di sé. L’affermazione del realismo dell’ipseità e della trascendenza stanno o cadono insieme.

È nel quadro di questa rilettura del significato ontologico dell’attuazione umana che appare come la conoscenza di Dio connaturale all’uomo abbia una qualità teologale, poiché la rivelazione di Dio non solo la presuppone, ma la integra come condizione interna del suo stesso realismo. Nell’evento cristico la fede riconosce l’Assoluto come libertà originaria, che espone se stessa alla storia, per presentare all’uomo la figura del compimento senza sostituirsi al suo svolgimento. Nella realizzazione cristologica della rivelazione di Dio la reciprocità tra teologia e antropologia viene ricondotta nel mistero stesso di Dio: l’atto dell’uomo è perfezione della verità stessa di Dio. La verità cristologica di Dio sostituisce alla gerarchia platonica di cosmologia e teologia l’unità di teologia e antropologia. Proprio perché la storia investe l’Essere di Dio nel suo fondamento, si realizza una reciprocità la cui pensabilità richiede una revisione dell’ontologia metafisica. In gioco è la possibilità di pensare la verità cristologica non solo come il contenuto fondamentale della fede, ma come il principio della sua evidenza. La Trinità è la verità eterna di Dio, perché l’evento cristologico è la sua rivelazione: identico con Dio in quanto nuovo.


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Angelo Bertuletti
DIO, IL MISTERO DELL'UNICO

Biblioteca di teologia contemporanea 168
pagine 608

 

Massimo Epis
TEOLOGIA FONDAMENTALE
La ratio della fede cristiana


Nuovo Corso di Teologia Sistematica vol. 2 
pagine 704

 

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