Per secoli la teologia è stata la regina delle discipline e si è intrecciata vigorosamente con la filosofia e la stessa arte, con esiti fecondi ma pure prevaricanti. Anche chi sa poco o nulla di storia del pensiero occidentale conserva in un angolo della sua memoria, ad esempio, il nome di Tommaso d'Aquino, pensatore di assoluto valore nella teologia, nella filosofia, nell'etica e nell'estetica (la tesi di laurea di Umberto Eco proprio su quest'ultimo aspetto lo attesta). Anche il secolo scorso, pur registrando il fenomeno sempre più aggressivo della secolarizzazione, ha visto sfilare personalità teologiche di alto profilo in dialogo con la cultura laica: pensiamo a Barth, Bultmann, Bonhoeffer, Daniélou, De Lubac, Guardini, von Balthasar, Rahner, Congar, per arrivare allo stesso Ratzinger e a Moltmann.
Abbiamo citato quest'ultimo, simile a un patriarca (classe 1926), per convocare una triade di personaggi per i lettori che desiderano affacciarsi anche su questo territorio di ricerca, ai nostri giorni – ahimé – poco lussureggiante, a differenza appunto del Novecento. L'occasione per allestire questo trittico è estrinseca, basata com'è su un anniversario. Nel 1972, infatti, approdavano in libreria tre saggi teologici che conservano una loro attualità a distanza di mezzo secolo.
Partiamo proprio dal teologo di Amburgo Jürgen Moltmann, docente in più università tedesche, fino all'ascesa sulla cattedra della prestigiosa Tubinga nel 1967. Famosa era stata la sua Teologia della speranza (1964; Queriniana 1970), in evidente controcanto col Principio speranza di Ernst Bloch, ma anche in contrappunto coi maggiori teologi tedeschi di allora, da Schweitzer a Barth, da Bultmann a Pannenberg. In completamento necessario a questa cristologia escatologica, retta appunto dalla speranza, nel 1972 egli elaborava Il Dio crocifisso (Queriniana 1973), stimolato anche dallo scandalo della shoah, capace di terremotare l'ottimismo della fiducia religiosa.
La sorgente della speranza è la risurrezione di Cristo che è, però, un uomo crocifisso, solidale con la storia umana, caduca, tragica, misera. Vissuta da lui, il Figlio divino, essa diventa storia di Dio stesso. Un Dio «patetico», cioè dotato di pathos che condivide realmente e non metaforicamente la sofferenza e il limite umano, rivelandosi ben diverso dal gelido e imperiale Motore immobile aristotelico. Suggestiva, al riguardo, è la fusione dei due volti, trascendente e immanente, che opererà Dante nel suo Credo pronunciato davanti a san Pietro: «Uno Dio solo ed etterno, che tutto 'l ciel move, non moto, con amore e con disio» (Paradiso XXIV, 130-132). Da un lato, l'immobilità perfetta della trascendenza divina («non moto») che è, però, motore dell'universo; d'altro lato, ecco invece «l’amore e il disio», qualità personali di comunione con l'umanità.
In sintesi, per Moltmann, una croce senza risurrezione è solo segno di fallimento e Gesù resterebbe al massimo un eroe; una risurrezione senza la croce sarebbe solo un miracolo, un'epifania astratta del divino e del nostro futuro. Questo aggancio pesante col presente storico della croce ci permette di passare al secondo autore, il brasiliano Leonardo Boff, classe 1938, alfiere della teologia della liberazione, che cinquant'anni fa pubblicava il suo Gesù Cristo liberatore (Cittadella 1973). Cristo è entrato nella storia non per invitare l'umanità a decollare verso un regno dei cieli mitico e misticheggiante. Egli è venuto per edificare un solido mondo nuovo nel terreno molle e inquinato della nostra storia, e il cristiano è colui che, come il suo Signore, annuncia e costruisce concretamente questo regno di giustizia, libertà e verità. Per questo, l'ortoprassi è espressione e verifica dell'ortodossia.
A questo punto, introduciamo il terzo personaggio, il gesuita canadese Bernard Lonergan (1904-1984), considerato dal card. Martini uno dei suoi maestri ideali e uno dei pensatori più completi e rigorosi. Aggiungo la mia testimonianza personale perché io sono stato per un biennio alunno di Lonergan all'Università Gregoriana di Roma ove teneva la cattedra di teologia trinitaria. Le lezioni (come gli esami) erano allora in latino e il suo, nonostante fosse segnato dall'accento inglese, era un latino raffinato che scandiva un'architettura logica perfetta e impegnativa. Ed è proprio in questa linea che si colloca il saggio del 1972 Il metodo in teologia (Queriniana 1975) che, superando la frammentazione, si consacra a disegnare un progetto di radicale ripensamento dell'epistemologia teologica, in confronto con la cultura moderna.
È impossibile descrivere la mappa sistematica, vasta e complessa, di questo «sapere la fede». Come accadrà per un altro suo saggio decisivo, Insight del 1957 (Paoline 1961), dedicato all'«intelligenza/intuizione» della fede, quelle pagine erano simili a una cattedrale teologica con otto cappelle ideali: la ricerca, l'interpretazione, la storia, la dialettica, il fondamento, la dottrina, la sistematica, la comunicazione. A suggello di questa commemorazione cinquantenaria, lasciamo la parola a uno dei grandi teologi evocati in apertura, lo svizzeroKarl Barth, che così ammoniva i suoi colleghi: «Tra le scienze la teologia è la sola che tocchi mente e cuore arricchendoli. Si avvicina alla realtà umana e getta uno sguardo luminoso sulla verità divina... Ma è anche la più difficile ed esposta a rischi. In essa è più facile cadere nello scoraggiamento o, peggio, nell’arroganza. Più di ogni altra scienza può diventare la caricatura di se stessa».
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