18/02/2019
423. LA FEDELTÀ È AL SERVIZIO DELL'AMORE
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Teologa moralista, la domenicana Véronique Margron ha appena pubblicato in lingua italiana Fedeltà – Infedeltà. Questione viva per i tipi di Queriniana. In questa intervista l’autrice racconta la genesi del libro e spiega l’arte della fedeltà, che è difficile perché mette ogni essere umano – come le sue debolezze, la sua finitezza e la sua complessità – di fronte alla propria storia.


 

 

D.: Come le è venuta l’idea di scrivere un libro su questo argomento?

R.: Quest’opera fa seguito a una conferenza che ho tenuto in occasione di un pellegrinaggio a Lourdes. Nel servizio di assistenza c’erano persone divorziate, separate, divorziate-risposate o nel bel mezzo di una situazione complicata. Ho voluto approfondire queste questioni – al contempo spirituali e teologiche, ma anche esistenziali – che irrompono nella vita a volte scarmigliata e complessa di molti di noi.

 

D.: Lei dice che l’adulterio andrebbe al di là del mero fatto di “tradire”. L’assenza di comunicazione ne è un sintomo, per esempio. Fin dove arriva quest’ultima, e dove comincia l’adulterio?

R.: Il comandamento del decalogo “Non commettere adulterio”, ricollocato in un contesto teologico, evoca certamente il fatto di tradire il coniuge. Ma quel che trovo interessante è che questa trasgressione – la menzogna riguardo all’impegno preso – ne trascina con sé un’altra, che è il rifiuto di impegnarsi per l’avvenire. In tal senso si può considerare adultera una relazione che non vuole prendere in considerazione il proprio futuro. La responsabilità comune degli sposi esige di prendersi cura dell’avvenire comune, non solamente del piacere nell’istante presente. Non progettarsi-proiettarsi in avanti ha per conseguenza l’erosione del consenso, il riprendersi la parola data.

Quando una coppia riflette su quello che può sopportare in un dato momento della propria storia, deve tentare di prendere in considerazione l’ampiezza di ciò che è in gioco. Non si tratta solo – come si dice prosaicamente e in maniera fin troppo disinvolta – di “dare un taglio” al contratto matrimoniale. Ben altro è in gioco: è il senso dell’impegno autentico l’uno verso l’altro, che coinvolge la carne e la parola.

 

D.: Dalla carne e dalla parola viene “l’importanza di essere consapevoli”: fare delle scelte oculate ed evitare i capricci?

R.: Sì, per me esiste una gravità della carne: “gravità” non nel senso del tragico, ma nel senso che la carne impegna sempre oltre ciò che cade sotto la vista. La carne non è solamente il desiderio sessuale: la carne è un’intera storia. Noi raccontiamo “a pelle”, simbolicamente, la nostra storia a ogni persona che incontriamo, ce la portiamo incisa sopra. Quindi quello che tocca il corpo, nel campo della sessualità, del desiderio, del dono, coinvolge molto più di una trasgressione semplicemente fattuale e sessuale. Quello che tocca il corpo ci impegna e partecipa della storia che scriviamo con l’altro.

 

D.: Lei insiste molto sulla nostra condizione umana: relazioni necessarie tra esseri di carne – e non, appunto, dei puri spiriti. Lei ricorda, inoltre, che bisogna accettare la propria fallibilità. Fino a che punto l’idealizzazione di sé e dell’altro ci fa correre il rischio dell’infedeltà?

R.: L’idealizzazione presenta un rischio di infedeltà, perché l’essere di carne con il quale io vivo – e questo anche in una comunità religiosa – non corrisponde all’ideale che me ne sono fatto. Se la mia relazione si fonda su questa sola immagine idealizzata, non posso amare l’essere di carne e sangue, sempre fallibile, che mi sta di fronte e che corrode l’immagine idealizzata che me ne faccio. Voglio dire: esiste una “fedeltà radicale” a qualcosa (o qualcuno), che sa di un’“infedeltà al reale”… 

 

D.: Lei dedica molto spazio al posto che la libertà gioca riguardo alla fedeltà. Attualmente buona parte delle cause di nullità di matrimonio religioso, tra cattolici, si fonda sull’immaturità, il difetto di libertà o della conoscenza di sé. Lei che ne pensa?

R.: Per la Chiesa – e questo è un immenso contributo dato al nostro sviluppo sociale – l’impegno nel matrimonio, come nella vita religiosa, non si concepisce che libero. La libertà del consenso è una conditio sine qua non della realizzazione del sacramento del matrimonio. Senza il consenso non c’è sacramento. La libertà del consenso deve potersi valutare: conoscenza delle conseguenze del matrimonio, sufficiente conoscenza di sé e dell’altro, posto riservato alla fede (dal momento che ci si sposa di fronte a Dio e nella Chiesa) ecc. Il consenso esige quindi la capacità di soppesare la libertà. Nondimeno – e questo vale per ciascuno di noi – sarebbe presuntuoso dire che le nostre scelte sono state o sono totalmente libere, come un cielo senza nuvole. Siamo segnati da una storia, un’educazione, dei condizionamenti… o dal nostro inconscio. Tutto questo, però, non irretisce la libertà. La libertà si esercita e si valuta al cuore di ciò che viviamo – e non al di fuori. Nelle procedure di nullità matrimoniale, la Chiesa cerca sempre la realtà di questa libertà che caratterizza il sacramento.

 

D.: Lei offre un criterio di discernimento, per quanto riguarda la fedeltà: ciò che rende vivi e capaci di desiderio. È il principale?

R.: Sì, è fondamentale. La fedeltà è una virtù e la vita virtuosa ci aiuta ad amare, a credere, a sperare, a realizzarci compiutamente. La virtù non è questione di ostinazione. La vita virtuosa sbaglia nel suo fine, se persegue la fedeltà per se stessa e non la verità del legame all’altro. Come diceva il filosofo Vladimir Jankélévitch nel suo Trattato sulle virtù: «La fedeltà a una cretinata non è altro che una cretinata in più». La fedeltà è virtuosa nella misura in cui sostiene un legame che fa vivere, è una dinamica in cui ci si trascina a vicenda e ci si consolida reciprocamente.

 

D.: Restiamo su Jankélévitch: «L’importante è essere fedeli a ciò che si ama, e fedeli per amore – non per costrizione o per ascesi». Come bisogna interpretare questa frase?

R.: Nell’esistenza ci sono sempre costrizioni, e una certa ascesi è ovviamente necessaria. Però è impossibile amare ed essere fedeli nel lungo periodo per sola costrizione o per sola ascesi. Il rischio è di amare meno gli esseri di carne che lo sforzo, affermando una volontà di onnipotenza: non deviare di un passo dal proprio tracciato, a dispetto dei turbamenti e delle tragedie. Questa forza di volontà potrà anche sembrare magnifica, ma si fonda anzitutto su di una volontà di potenza.

 

D.: Un sacrificio, ma solo in apparenza…

R.: Sì, una maniera di mostrare la propria capacità di gestire tutto quanto succede. Come quelli che dicono: «Io so che sarò fedele per tutta la vita». Da parte mia, io spero di essere fedele (nell’ombroso sottobosco delle mie “infedeltà ordinarie”) alla ricerca di Cristo – l’unico veramente fedele senza ombra di dubbio – nel cuore della vita che ho scelto. Sta a me, alla mia responsabilità, fare tutto – con il desiderio e la volontà – per restare fedele nella trincea della vita reale. È la fedeltà che sta al servizio dell’amore: non l’amore al servizio della fedeltà! L’impegno di una coppia sta anzitutto nel costruire un avvenire comune, nel mettere in atto tutto perché l’amore attraversi il tempo. La fedeltà esiste per essere al servizio di questo progetto – non è il progetto che sta al servizio della fedeltà.

 

D.: Tra la fedeltà a sé e la fedeltà all’altro, come trovare il giusto equilibrio?

R.: La fedeltà a se stessi, a quello che io credo giusto per la mia vita, si articola con la società nella quale vivo, in un costante dialogo. Non è che ci costruiamo ognuno di noi la propria torre d’avorio, per poter poi dire un giorno: «Adesso sono abbastanza forte, posso rivolgermi all’esterno». È il significato simbolico della pelle, che protegge il nostro essere interiore e ci mette in contatto con l’esterno. Non si può separare una cosa dall’altra, sennò non si respira più.

 

 

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