15/05/2008
114. La fede si fa viva nell’amore Che cosa può dire di utile un vescovo della diaspora della Germania dell’Est sulla fede cattolica? di Joachim Wanke (vescovo di Erfurt, Turingia - Germania)
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Pubblichiamo un secondo testo, interessante sotto il profilo pastorale, di Joachim Wanke. Si tratta della Conferenza tenuta in occasione della Giornata dei consigli pastorali parrocchiali della diocesi di Innsbruck (8 marzo 2008). Joachim Wanke, vescovo di una delle diocesi più secolarizzate dell’Unione Europea, è stato invitato a rispondere alla domanda: «Che cosa può dire di utile un vescovo della diaspora della Germania dell’Est sulla fede cattolica?».


Desidero innanzitutto dire che voi siete ricchi! Ricchi non materialmente, ma nel senso usato da Paolo una volta per i cristiani di Corinto al fine di motivarli per una colletta efficace a favore dei fratelli a Gerusalemme. Egli non temette di richiamarsi a Cristo scrivendo: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà (2 Cor 8,9)».

E voglio parlare di questa ricchezza, con cui Cristo ci ha resi ricchi, una ricchezza che resiste a «tignola e ruggine» e che nessun ladro può portare via poiché essa si dà in un amore in grado di fare nuovi i nostri cuori affaticati.

Ma lasciatemi fare un’altra premessa. Voi fate esperienza di qualcosa che difficilmente risparmia una diocesi alle nostre latitudini: e cioè una profonda insicurezza nella fede che raggiunge anche il cuore delle nostre comunità. Le persone non partecipano alla liturgia, si staccano dai gruppi parrocchiali e dal collaborare in parrocchia, certo svolgono ancora questa o quella attività nei giorni festivi o nelle associazioni, ma non riescono a combinare nulla nel quotidiano con Dio e con la fede. E se questa alienazione interiore dura da tempo, spesso basta un piccolo impulso, un risentimento di qualsiasi genere per uscire dalla chiesa. Spesso rimane un’amarezza, a volte addirittura un odio per tutto ciò che ha a che fare con la chiesa. E questo il più delle volte non è in grado di intercettarlo neppure un’attenta cura pastorale. Credo che anche voi, che nei consigli pastorali garantite una vivace vita comunitaria, soffriate molto di questo. È come se fosse venuta dal cielo una gelida brina che si è disposta sulla ovvietà della fede, sull’attaccamento a questa e sulla gioia, tratti che hanno contrassegnato le generazioni dei nostri padri e madri, dei nostri nonni e di quanti ci hanno preceduto.


I. La necessità della fede oggi – stimolati a crescere da una più ampia libertà

Esistono senza dubbio alcune motivazioni per questa erosione della fede e della chiesa. Un punto decisivo è questo secondo me: nella moderna società sono fondamentalmente mutate le condizioni per la fondazione e la conservazione dei valori. Se applichiamo questo al nostro tema, ciò vuol dire che è stata tolta all’essere-cristiano la caratteristica dell’ovvietà, il nocciolo della maggior parte dei problemi che oggi vengono dalla sua stessa natura per un cristiano attento.

Per esprimermi con una immagine, immaginiamo che un uomo scopra dopo alcuni anni di matrimonio felice che oltre alla propria moglie esistono molte altre donne degne del suo amore. L’esperienza originaria di un amore che ne ha motivato il sì e che fonda la sua fedeltà durevole nei confronti di questa compagna concreta si allarga fino a diventare un’esperienza della contingenza: io sono qui, adesso, ma potrei anche essere una persona completamente diversa!

Che cosa può avvenire? Che ci sia una contestazione del suo antico amore non è in sé ancora nulla di tragico. Il problema è solo nel modo in cui egli reagisce. Diventa una “farfalla”, nel senso che pensa di aver trovato il nuovo fiore migliore del precedente, oppure è spinto dall’incertezza di trovare nel primo e vecchio amore una nuova condizione? Le contestazioni sono in certo qual modo delle opportunità. Aiutano a crescere nella qualità di una convinzione, di un atteggiamento; in questo caso nell’amore sponsale.

Noi oggi ci ritroviamo proprio in questo processo di approfondimento, di condensazione o intensificazione qualitativa della nostra fede cristiana in Dio. Quello che ci è chiesto è una fede di qualità, che non faccia naufragio di fronte alle sfide, ma cresca.

E ancora. L’ampliato spazio di esperienza per le singole persone ha portato con sé la dilatazione dell’ambito delle libertà e, con questa, il moltiplicarsi delle possibilità di azione. Come si possa andare incontro a questa trasformazione delle condizioni generali per una fede religiosa responsabile nel’età moderna rimane la grande sfida di una spiritualità cristiana attuale ed attenta. Nessuno/a, che oggi voglia essere cristiano/a, può passare oltre l’esperienza che è attuale: io adesso sono qui, così, ma potrei anche essere tutt’altra persona.

Avvertiamo all’interno della chiesa come questo ampliamento degli orizzonti spirituali della modernità, qui schizzato brevemente, renda molte persone profondamente insicure. Alcune dicono: atteniamoci a tutto ciò che può sorreggere le antiche certezze! Sono in senso ampio i “tradizionalisti”, che del resto esistono anche in politica! Di fatto chi conosce solo ciò che gli compete si atterrà a questo stimandolo l’unica cosa sicura e la sola vera. Chiamo ciò l’“immobilità di chi ha poco viaggiato”, il riflusso nel ghetto spirituale, la via della chiusura, del muro mentale.

Certamente questo non ha visto alla distanza alcun futuro. A mio avviso le liberazioni dell’essere umano, spesso ottenute con molto impegno e dolore, in epoca moderna stanno – nelle loro più grandi possibilità di azione – nelle intenzioni della storia di Dio con noi umani. L’essere liberi da tutto ciò che può venirci dalle pretese eccessive, dalla necessità di orientamento e dalle contrarietà è nonostante tutto anche un bene supremo, una grande opportunità. Dio si aspetta da noi e per un buon motivo la libertà. Ciò che non cresce nella libertà, non si sviluppa! Ciò rimane nel caso migliore un ammaestramento. Per me è una visione importante maturata negli anni della Repubblica democratica (DDR) e la ritengo tale non solo politicamente ma anche dal punto di vista della cura pastorale.

Pure noi cattolici della Germania orientale, che ci ritroviamo oggi nella corrente di una società liberale, in cui molti si ammalano, in ultima analisi viviamo più dignitosamente di prima, quando i comunisti ci tennero uniti come comunità con la pressione e le vessazioni. Adesso, nella corrente della libertà, si mostra se la nostra fede in Dio ha sostanza oppure se è solo abitudine. E ancora una volta: ciò che non cresce in libertà, non si sviluppa.

Altri, di fronte alle sfide e alle dissuasioni molteplici a cui siamo oggi sottoposti, rovesciano via l’acqua sporca con il bambino. Dispongono della libertà a piacere. A differenza dell’“immobilità di chi ha poco viaggiato” è “l’indifferenza di coloro che sono già stati in tutti i posti”, e che non “sperimentano” più nulla. Essi sono incapaci di riconoscere ciò che loro compete, perché l’estraneo e l’inusitato non hanno più niente da dire. Ad essi manca, come d’altro canto a chi si è irrigidito, la forza dell’empatia, del reale accoglimento dell’altro e degli altri, per sperimentare di nuovo da questa prospettiva il valore e la preziosità della propria opzione di vita (sia essa la decisione per la propria compagna o quella per Dio e Padre di Gesù Cristo).

Quel che con scarne parole cerco di descrivere è, a mio avviso, una premessa irrinunciabile per essere cristiani nell’atmosfera spirituale della nostra cultura europea occidentale: l’essere disponibili ad una contemporaneità attenta, critica, ma soprattutto autocritica.

Il cristiano oggi non può stigmatizzare la libertà a causa del rischio in essa contenuto. Egli deve arrischiare l’equilibrio di un cammino di fede che conserva delle proprie pretese e che si legherà ad un disagio e pure ad alcune perplessità. È parte del profilo di un cristiano vivere la propria fede in Dio di fronte alla pluralità di altri progetti di vita, a volte del tutto rispettabili, religiosi e non religiosi. Egli si dovrà trovare nella situazione di reggere una situazione in cui con la sua fede non sarà in grado di svolgere alcun ruolo esclusivo, automaticamente prefissato nel dialogo con le religioni e le visioni del mondo. Dovrà imparare faticosamente a fondare meglio e in profondità la propria decisione per Dio e, insieme, a pronunciare in modo costantemente nuovo il suo sì in una contingenza e in una libertà più grandi.

Ciò che ci consola è la vecchia esperienza, valida anche oggi, per cui la libertà vera può accompagnarsi solo ad un vincolo profondo, esistentivo – come avviene in un matrimonio riuscito, in cui l’uno libera l’altra proprio perché i due si amano. Questo vale anche per altri legami personali, che hanno la caratteristica di liberarci. E non esiste nulla di più bello che fare esperienza di questo – ad esempio, nell’infanzia l’essere accolti, voluti e amati dai genitori o, nella vecchiaia, essere circondati da persone che non mi lasciano come una patata bollente. Chi vuole scalare la montagna ha bisogno della corda. E questa ci lega ma ci schiude nella salita a nuovi orizzonti, a esperienze e a felicità nuove.

Lo ammetto: il vecchio Adamo che è in noi teme di vincolarsi. Il decidersi per Dio (e per un/una compagno/a al mio fianco) è diventata oggigiorno preziosa materia rara. E se è Dio che vuole condurci in modo consapevole attraverso queste prove? rappresentiamo forse, noi i nati in questo tempo, l’avanguardia di un cristianesimo che riuscirà a legare nuovamente la tradizione che ci ha raggiunti con una decisione personale? Non lo so.

Ma di una cosa sono certo: di fronte alla situazione spirituale qui rappresentata il cristiano oggi ha da vivere la propria fede. Non può passare accanto a questa esperienza di liberazione spirituale e religiosa. Deve essere davvero “contemporaneo” di chi oggi non crede senza farsi in tutto uguale a lui/lei. Su questo vanno misurate le cose che dice, ciò che pensa, quel che prova, il suo stile di vita, la capacità di provare simpatia ed empatia, da ultimo, il suo atteggiamento fondamentale di profonda solidarietà con le persone di oggi. «Sono qui, ora, e sebbene sappia che tu – mio vicino, mio collega di lavoro – e che voi, figli miei o nipoti, vivete diversamente, senza Dio e senza chiesa, io non posso condurre la mia esistenza al di fuori della fede in Dio, in cui mi so protetto e accolto!».

E qui voglio compiere un secondo passo per indicare la via in cui la nostra fede così sollecitata e provocata è in grado di restare vigorosa. La nostra fede deve abbandonarsi all’amore. E questo in un duplice senso; vale a dire sapersi amati e insieme amare e abbandonarsi nell’amore. Questo vale anche per la chiesa e per noi vescovi che siamo così preoccupati per la chiesa e le nostre comunità. Davanti a Dio non conta che cosa facciamo per l’autosostentamento della chiesa. Per Dio conta se siamo capaci – come Gesù ci è stato d’esempio – di lasciarci andare e di amare.


II. La fede che rimane viva nell’amore

Inizio da un’esperienza che abbiamo fatto nella nostra diocesi lo scorso anno in occasione della festa di santa Elisabetta di Turingia. La grande santa dell’amore verso il prossimo è la nostra patrona e per questo ne abbiamo particolarmente ricordato gli ottocento anni della nascita.

Non so se riesco a spiegarmi: nell’anno dedicato a Elisabetta ho incontrato tra noi meno cristiani di cattivo umore. E sempre per quanto riguarda quest’anno e i preparativi assolutamente faticosi per il grande pellegrinaggio di settembre con oltre 30.000 fedeli, non hanno dominato i lamenti e le rimostranze. In un certo senso sono stati tutti più felici che mai nonostante il forte impegno e la preparazione con il necessario dispendio di tempo: professionisti e volontari, i preti e i laici. E anche quanti non sono cristiani hanno partecipato alla cooperazione senza chiedere il proprio tornaconto.

Che Elisabetta abbia davvero una sorta di arma miracolosa con cui è in grado di migliorare un po’ l’inerzia della nostra natura segnata dal peccato?

È stato certamente il suo modo gioioso di attendersi tutto da Dio di non lasciarsi mettere sotto dalle mancanze e dalle avversità terrene. La sua amicizia con Dio e con Cristo l’ha conservata anche nei giorni peggiori. La sua esistenza mostra che credere in Dio, puntare tutto su di lui non è un giogo ma altresì fonte di energia – proprio come un’amicizia, un amore su cui si può costruire nei giorni buoni e in quelli cattivi.

E dico ancora una volta: l’anno elisabettiano con le sue molte manifestazioni è stato un annuncio riuscito di Dio fatto nella Germania centrale. Questo anno ha indicato che chi prende sul serio il cielo è adatto per la terra. Questo è stato per me la quintessenza dell’anno celebrativo.

Generalmente da noi si inserisce nella testa di molte persone l’idea che la persona religiosa è inadatta per la vita reale. La biografia di Elisabetta ci mostra il contrario. E questo lo hanno scoperto con meraviglia tante persone invalidate dalla vecchia ideologia della Germania democratica e dalla sua critica alla religione. Non è certamente vero che la religione e il cielo sono cose solo per «gli angeli e i passeri», come una volta ha detto con sarcasmo Heine. È piuttosto vero che chi non conosce il cielo avrà problemi con la terra. E colui che toglie l’audio a Dio non comprende più se stesso. Come vescovo sono davvero grato: Elisabetta ha predicato meglio di me. Che cosa voglio di più?

Penso che qui tocchiamo il punto della nostra fede e di come essa può rendere vivo il modo in cui la viviamo tra di noi nelle parrocchie.

A questo proposito vengo a parlare un po’ della caritas – non solo della Caritas come ente assistenziale della chiesa, ma in primo luogo della caritas che è Dio stesso e a cui vuole condurci.

«Dio è amore» – è in effetti il messaggio fondamentale della fede cristiana. Non a caso papa Benedetto ha dedicato all’amore la sua prima enciclica. La creazione, l’intero dramma della salvezza intorno alla colpa e al reinserimento dell’essere umano nella sua perduta dignità ha il suo senso ultimo nella volontà stupefacente di Dio di avere «persone che amino con lui» (Duns Scotus). Pertanto ogni esistenza cristiana ha buon esito, in ultima analisi, se è un perdersi in un mistero che sarà tutta la nostra beatitudine, ovvero essere amati senza una fine e senza misura.

Il dedicarsi caloroso di santa Elisabetta ai poveri e ai malati che tutti i contemporanei testimoniano unanimemente, ha la propria motivazione ultima nella scoperta dell’amore di Dio che si è rivelato irrevocabilmente e definitivamente nella croce del Signore nostro Gesù Cristo. Chi è amato, cambia: questo si legge in modo sorprendente nella biografia di Elisabetta.

Questa giornata in comune dei consigli pastorali l’avete intitolata: “Creare spazi di vita – aprire spazi di fede”. Il mio consiglio è molto semplice ed è quello di fare delle vostre parrocchie, dei vostri gruppi e delle vostre case degli ambiti di umanità, di carità e di amore vissuto – e sperimenterete i miracoli!

La caritas di Dio e la nostra, spesso miserevole e frammentaria, la caritas del quotidiano, dipendono in modo misterioso dalla vitalità delle nostre parrocchie. Per prima cosa un pensiero su due affermazioni centrali della nostra fede – la chiesa come comunità del Cristo risorto e innalzato al cielo sa che il proprio Signore è presente in mezzo ad essa in due modi.


a/ Nella sua Parola e nei sacramenti

Dove viene proclamata la parola di Dio, il vangelo della chiesa, Cristo opera. E dove la chiesa celebra i sacramenti, battezza, offre l’eucaristia, è Cristo che in mezzo a noi prega e offre il proprio sacrificio. Dunque la presenza di Cristo è nell’annuncio e nella liturgia della chiesa. Come prova biblica cito il discorso della missione rivolto ai discepoli in Lc 10: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16) oppure il mandato della cena di Gesù: «[…] il mio corpo […] nel mio sangue […]. Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19s.).

Per l’altro verso, che non ci appare proprio così vivo ai nostri cuori, Cristo è presente


b/ Nei piccoli, nei minimi, nei poveri, nei malati, ecc.

Servire i deboli e i poveri è un servizio che noi facciano al Signore. La più importante testimonianza di questo è la pericope sul giudizio del mondo di Mt 25 con la sua quintessenza: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Sarebbe da citare anche Mt 18 dove si parla dell’“ordine” nella chiesa: qui viene fondata la vita della chiesa come comunità attenta ai piccoli. Questi “piccoli” non possono venir disprezzati, altrimenti disprezziamo lo stesso Signore. Viene ingiunta la cura di coloro che si sono persi, la responsabilità per il fratello che sbaglia, la misericordia che dobbiamo accordarci gli uni gli altri; dunque la presenza di Cristo attraverso la diaconia e una “fraternità” fondata sull’amore di Cristo.

Entrambi questi modi fondamentali della presenza di Cristo sono stati per così dire scritti nel registro genealogico della chiesa. E questi ne sono i segni basilari: l’annuncio della lieta notizia per i secoli a livello regionale e su scala mondiale, cosa che comprende anche la celebrazione del servizio liturgico a Dio (in senso ampio); e la diaconia che incomincia tra le proprie fila nel rapporto fraterno degli uni verso gli altri e tiene presente il servizio reso in vita e nella morte di Cristo fino alla fine dei tempi. (Il mio predecessore, il vescovo Hugo Aufderbeck era solito dire che la chiesa non è una democrazia, perché tutti noi abbiamo un solo Signore; ma non è neppure una monarchia, perché siamo tutti fratelli!).

Da queste considerazioni si vede che agire per amore del prossimo nella chiesa è più di una mera motivazione, un’“autenticazione” della fede, o un ornamento aggiuntivo della fede, per quanto ciò si può dire a buon diritto (l’amore “frutto” della fede, fides caritate formata: «La fede […] opera per mezzo della carità», così Gal5,6). La caritas (nel suo senso più generale e, dunque, il dedicarsi al prossimo, il movimento di alienazione da me, dal Noi verso l’altro, gli altri, e particolarmente verso quanti sono nel bisogno) è la fede attualizzata. La caritas ha ugualmente un carattere sacramentale. Essa rende presente Cristo come segno, un rimando eloquente, ma pure effettivo e sanante come l’eucaristia. I grandi santi dell’amore del prossimo hanno saputo questo, per esempio san Vincenzo, che diede l’esempio di tralasciare in caso di necessità la preghiera comunitaria per stare presso un ammalato. In modo grandioso ciò è stato illustrato dal grande matematico e filosofo Blaise Pascal, scomunicato temporaneamente durante il disordine giansenista, il quale non potendo ricevere la santa comunione, fece venire a casa propria dei morenti curandoli personalmente per poter “comunicare” in questo modo con Cristo.

Negli ultimi secoli la correttezza del concetto di fede è stato così tanto sottolineato dalla Riforma e della Controriforma che l’idea della presenza di Cristo nei poveri non è più, nel sentire religioso di molti cristiani, così presente come lo è, ad esempio, la devozione eucaristica (al tabernacolo).

Ciò significa che la caritas (anche con l’accento posto sull’“amore comune, organizzato istituzionalmente del prossimo”) non è un’attività pastorale fatta sul campo. È l’altra faccia della cura d’anime. È l’“annuncio fatto con le mani”. È – secondo Hans Urs von Balthasar – “sacramento della sorella e del fratello”, elargito davanti alle “porte delle chiese”. E viceversa la cura pastorale con le sue realizzazioni è pensabile solo sullo sfondo di una cura piena di fede per l’uomo concreto con i suoi limiti e necessità.Naturalmente c’è bisogno, accanto al nostro dedicarci in prima persona al prossimo, di una caritas che sia organizzata e istituzionalmente assicurata. Nella divisione del lavoro del nostro mondo, dove spesso è richiesto un aiuto competente, non può essere che così. E qui non è il caso di motivarla ulteriormente.

La necessità di questo legame si mostra del resto molto bene nella nota parabola del samaritano misericordioso (Lc 10,30-35). Là si racconta di due prestazioni d’aiuto: l’acuto bisogno del samaritano, che (casualmente!) discende per la via e la prestazione di soccorso professionale (!) dell’“istituzione” rappresentata dall’albergatore della locanda. Il samaritano nella storia prosegue il suo cammino. Egli delega le proprie cure (con una spesa di due denari!) all’oste e al suo personale, sebbene voglia vedere più tardi il malcapitato e in ogni caso si faccia garante per lui (anche finanziariamente).Si potrebbe vedere in questo racconto quasi una “storia di fondazione” neotestamentaria dell’associazione della Caritas! L’aiuto attivo per colui che «incappò nei briganti» non può darsi senza il samaritano e senza l’oste alla locanda.

Eppure c’è una domanda decisiva rivolta a noi oggi: pensiamo allo spunto del “passare a vedere più tardi”! Esiste anche ora un “venire a vedere” nella fase successiva della prestazione d’aiuto, come è messo in pratica dal samaritano misericordioso? E, trasferito al connubio di assistenza sociale locale e comunità parrocchiale, potremmo chiederci: nella comunità “hanno la parola” coloro che lavorano e si occupano di assistenza, di luoghi a ciò preposti, o di una istituzione della Caritas? le nostre comunità hanno una sensibilità perché agli operatori sociali che hanno a che fare con le persone sia affidata anche l’assistenza delle parrocchie? può mai succedere (conservando l’anonimità degli interessati) un “passare a vedere più tardi”, mentre si esprime la cura comune degli operatori istituzionali e dei credenti, posti di fronte all’urgenza di un bisogno?Considerando questo sono giunto ad un’ultima serie di riflessioni.


III. Ciò che rende vive le nostre comunità – l’attiva cura dei deboli

Lo abbiamo visto: la lode a Dio della liturgia è importante, ma altrettanto lo è la lode a Dio dell’amore fattivo per il prossimo. Le comunità parrocchiali devono respirare con due polmoni.

Vedo in questo equilibrio della vita della comunità che è da tarare di nuovo il seguente guadagno spirituale


1. Chi si pone dalla parte del bisognoso si fa più aperto a Dio

Le nostre comunità sono spesso etichettate come “borghesi”. Proprio a motivo dell’attuale situazione sociale esistono tendenze a creare una comunità in cui domina il ceto medio mentre i “piccoli”, gli svantaggiati restano fuori. La necessità vera si nasconde volentieri. Tra gli svantaggiati metto la serie intera di disabilità in cui possono essere lasciati gli esseri umani: impedimenti, malattie, solitudine, dipendenze, bisogni materiali, richieste eccessive, e altro. Ho proposto nel nostro vescovado di istituire nelle comunità (oltre a quelle dove già ci sono gruppi della santa Elisabetta o di san Vincenzo) piccole unità della caritas che si preoccupino perché le comunità consapevolmente abbiano un occhio per le necessità del loro ambiente e sviluppino una fantasia di aiuto.

Noi pastori d’anime, e tutti coloro che in fondo hanno responsabilità nella comunità, dobbiamo fare in modo che possibilmente tutti nelle nostre parrocchie divengano sensibili per i bisogni che oggi sono presenti nei nostri ambiti. Dove questo avviene, là iniziamo a vedere “con gli occhi di Dio”. Noi ci apriamo con le nostre necessità a colui che può e vuole rendere ricchi tutti noi.


2. I confini spirituali e di fatto della parrocchia sono ampliati grazie alla caritas

In maggioranza ci sono più persone impegnate socialmente di quelle che vengono in chiesa o partecipano alla vita liturgica della comunità. O se riuscissimo a far capire questo a quanti sono battezzati e che ora sono lontani dalla comunità o hanno preso le distanze dalla chiesa: nel vostro servizio concreto al prossimo (a tempo pieno, a titolo onorifico, nei gruppi di autosoccorso, ecc.) voi professate la vostra fede agendo. Non sarebbe un “appropriarsi” di queste persone che si sono distanziate, ma a mio avviso un’opportunità di dare loro diritto d’asilo nella comunità di servizio a Dio, dalla quale essi (per diversissimi motivi) si sono allontanati. Si tratta del riconoscimento, della stima del loro impegno. E se bisognasse costruire dei ponti?


3. Includere la collaborazione caritativa a tempo pieno con la sua “competenza” arricchisce la vita comunitaria

Non è un mistero: anche tra i collaboratori alla caritas si ritrova una stanchezza nel partecipare alla vita della chiesa, una distanza dalla fede, specie se sopraggiungono problemi biografici. È importante che quanti sono attivi a tempo pieno nel servizio alla caritas nelle parrocchie riconoscano che quanto fanno ha a che fare con la loro fede. O certo, che il loro lavoro professionale possa condurli più vicini a Cristo, che dunque abbia una dimensione spirituale.

Possiamo inoltre essere d’aiuto perché queste persone da se stesse siano e restino motivate spiritualmente in modo nuovo e da parte loro “contagino” quante prestano servizio a mero titolo di volontariato. Talvolta questi operatori sociali ecclesiastici o no dovrebbero “farsi avanti” nella comunità, nel servizio liturgico, dovrebbero essere messi al centro, dovrebbero essere interrogati sul loro servizio e riferire le proprie esperienze.


4. Alcuni parrocchiani sono disponibili a nuove forme di impegno sociale

I gruppi della san Vincenzo, di santa Elisabetta o della caritas, quando ci sono, sono per l’intera comunità una benedizione. Ma esistono anche nuove forme di impegno: in varie forme di progetti, in diverse forme di visite, nelle molte associazioni. Esistono gruppi di autosoccorso per differenti richieste. Ci sono a volte dei centri di volontariato, una sorta di “borsa” dell’aiuto volontario, in cui confluiscono operatori e situazioni di bisogno. C’è anche un vasto campo di nuove possibilità di cooperazione – ancora sconosciuto a noi sacerdoti – tra lavoro professionale e volontariato, dove le parrocchie possono significativamente inserirsi. Fortunatamente conosco, ad esempio, alcune iniziative di lavoro negli ospizi dove da noi spesso lavorano insieme cristiani e non cristiani.


5. L’attività parrocchiale e gratuita della caritas arricchisce l’opera sociale di carattere professionale

È noto che proprio la grande specializzazione di molti servizi sociali riduce di molto la dimensione globale, umana dell’aiuto. L’opera sociale volontaria è spesso più vicina alle persone dei servizi specialistici. L’attività non professionale è spesso in modo generoso spontanea. È importante nella misura in cui assicura l’aiuto professionale e attribuisce ad esso “persistenza”.

Del resto le nostre parrocchie con la loro azione sociale si collocano tra il mercato e lo stato, la piena liberalizzazione e l’assoluta statalizzazione delle prestazioni sociali. Le nostre comunità sono inoltre un fattore importante dello sviluppo umano della nostra società. E dovremmo dirlo (o farcelo dire) con consapevolezza di noi stessi!Sarebbero alcuni spunti che – come credo – si potrebbero trattare in uno dei prossimi incontri dei vostri consigli.

Infine un ultimo punto, una specie di appendice al mio invito a fare di nuovo più diaconiche le nostre comunità. Ci chiediamo a volte nelle nostre parrocchie come possiamo rendere attivi così tanti cristiani che vivono con fatica la dimensione liturgica. Posso solo dirvi che a noi, nell’anno organizzato per ricordare santa Elisabetta, l’iniziativa Sette opere di misericordia per la Turingia oggi ha avuto una buona risonanza.

La misericordia ha avuto in epoche diverse anche un’impronta differente. In un mondo che non conosceva l’istituto della sepoltura era un’opera di misericordia seppellire i defunti. Da un’opera di misericordia è poi venuta successivamente una ovvietà sociale. Nel frattempo – di fronte all’alto costo per l’inumazione – è di nuovo un’opera di misericordia consentire a chi è senza lavoro e alle vedove con un piccolo reddito una sepoltura dignitosa e finanziariamente accessibile.

Senz’altro le classiche sette opere di misericordia restano valide: dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, dare ospitalità ai forestieri, seppellire i morti, o le sette opere spirituali di misericordia come istruire, consigliare, consolare e rimproverare.

Tuttavia muta la forma. Come è possibile oggi vedere la misericordia in una società in cui l’assicurazione sociale e l’assistenza sono garantite ampiamente dallo stato?

Ho fatto dire alle persone in occasione dell’anno dedicato ad Elisabetta che cosa oggi comprendano per misericordia. Membri delle parrocchie, collaboratori della caritas e diaconi hanno fatto la stessa domanda a persone che si trovano in stato di necessità. La domanda era: «Quale opera di misericordia sarebbe secondo voi oggi particolarmente necessaria?». Ne sono venute interessanti e riflessive risposte. Queste sono affluite nella formulazione di sette opere di misericordia per la Turingia allo stato attuale. Questa formulazione non me la sono inventata. È opera di un lavoro comunitario e pertanto sono anche per me particolarmente significative e convincenti e sono le seguenti.


1. Dire a una persona: tu qui appartieni

Quello che fa spesso fredde e spietate le nostre comunità è il fatto che in esse le persone sono poste ai margini: i disoccupati, i bimbi mai nati, i malati psichici, gli stranieri, e così via. Il segnale comunque sia mandato – «Tu non sei un estraneo!», «Tu sei dei nostri!», cioè della nostra comunità parrocchiale – è un’opera di misericordia molto attuale.


2. Io ti ascolto

Una preghiera spesso ascoltata e pronunciata è la seguente: «Abbi un po’ di tempo per me!», «Sono così solo/a», «Nessuno mi ascolta!». La frenesia della vita moderna, l’economizzazione delle cure e delle prestazioni sociali spingono all’agire più veloce ed efficace possibile. Manca spesso – contro la volontà di essere d’aiuto – il tempo di ascoltare l’altro/a. Avere tempo, poter ascoltare – un’opera di misericordia, paradossalmente proprio nell’epoca della comunicazione tecnicamente perfetta e supermoderna, così urgente come non lo è stata mai!


3. Io parlo bene di te

Ognuno di noi ne ha già fatto esperienza: in un colloquio, un incontro, una discussione – ci sono persone che vedono immediatamente nelle circostanze o in una provocazione il buono e il positivo nell’altro/a. Naturalmente a volte bisogna anche mettere il dito nella piaga, si deve esercitare la critica e dichiarare il proprio disaccordo. Quel che oggi spesso manca è la stima dell’altra persona, una buona disposizione fondamentale per l’altro/a e le sue richieste, e l’attenzione alla sua personalità. Parlare bene degli altri – non potrebbe essere a volte più misericordioso anche chi è critico nei confronti della chiesa?


4. Faccio un tratto di strada con te

Non si aiutano molte persone solo con un buon consiglio. Nel mondo complicato di oggi c’è bisogno sovente di un aiuto iniziale, come una specie di primo passo da fare insieme finché l’altro/a abbiano il coraggio e la forza per proseguire da soli. Il segno di quest’opera di misericordia è contenuto nella frase: «Fallo! Vieni, ti aiuto a incominciare!». I nostri operatori sociali sanno di cosa parlo.

Solo che qui non c’è una prestazione di aiuto sociale. Si tratta di persone che forse hanno il desiderio di vedere Dio. Esse hanno bisogno di gente che parli e risponda loro, che compia con esse un tratto di una possibile via alla fede e che le aiuti a ritrovare la comunità dopo una lunga assenza senza dover passare per la gogna.


5. Condivido con te

Anche per il futuro non ci sarà una giustizia perfetta sulla terra. C’è bisogno di aiuto per coloro che non possono aiutarsi da sé. Condividere denaro e averi, possibilità e opportunità rimarrà necessario in un mondo che ha un’assistenza così perfetta. Di fronte alla crescente anonimità sociale acquista nuovo peso il vecchio detto: «Il dolore condiviso è un mezzo dolore; la gioia condivisa è una doppia gioia!».


6. Ti vengo a trovare

La mia esperienza dice che è meglio cercare l’altro/a a casa sua che aspettare la sua venuta. La visita crea comunione. Sorprende la persona dove si sente più sicura e forte. La cultura di visitare le persone nelle nostre parrocchie è molto preziosa. Non facciamo che si perda! Andiamo anche da coloro che non fanno parte dei nostri ambiti. Appartengono a Dio e questo dovrebbe essere sufficiente. Infine


7. Prego per te

Chi prega per gli altri, li vede con occhi diversi. Li incontra diversamente. Anche i non cristiani sono riconoscenti quando si prega per loro. Un luogo nella città, nel paese, dove regolarmente e in rappresentanza della comunità gli abitanti si trovano a pregare per i vivi e i morti è una benedizione. Dite come mamme, come papà ai vostri bambini, ai vostri nipoti: prego per te! Facciamolo gli uni per gli altri, là dove ci sono tensioni, dove le relazioni sono fragili e le parole non ottengono più nulla. La misericordia di Dio è più grande della nostra perplessità e afflizione.

Sono convinto che queste semplici parole saranno in grado di muovere oggi la misericordia delle nostre comunità. Da noi in Turingia hanno fatto molto. Elisabetta ci ha “mosso” nel senso più vero del termine! Perché non dovrebbe essere possibile questo anche da voi?




© 2008 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco a cura della Redazione Queriniana
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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