28/08/2006
74. La cosa ultima. Il principio escatologico di Rosino Gibellini
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Si tiene ad Assisi dal 27 agosto al 01 settembre 2006 la 49° Settimana di studio della Associazione Professori e Cultori di Liturgia sul tema “la morte e i suoi riti”. In questo contesto Rosino Gibellini svolge il tema «Il dibattito della teologia contemporanea sulle “realtà ultime”». Riproduciamo la conclusione della relazione.


Se dovessimo alla fine stringere il trattato sui novissimi, per fargli esprimere la sua punta di verità dogmatica e di spiritualità esistenziale, ne risulterebbe un’escatologia breve, quasi il principio escatologico della teologia cristiana.

Von Balthasar già nella sintesi del 1957 si orientava nell’«enorme delta» delle numerose correnti, riconducendo gli éschata all’éschaton, alla “cosa ultima”. Citando Agostino: «Ipse (Deus) post hanc vitam sit locus noster», continuava: «È Dio il “fine ultimo” della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da Lui, il purgatorio per chi è purificato da Lui. Egli è colui per il quale muore tutto ciò che muore e che risuscita per Lui e in Lui». E continuava con una precisazione cristologica: «Ma Egli lo è precisamente nel senso in cui è orientato verso il mondo, nel Figlio suo Gesù Cristo che è la rivelazione di Dio e perciò il compendio dei “fini ultimi”». Qui von Balthasar opera una concentrazione cristologica; potremmo anche dire: una rigorizzazione del discorso sui novissimi.

Karl Rahner prospetta i novissimi come un prolungamento di ciò che già sperimentiamo nella fede: «La conoscenza degli éschata non è una comunicazione supplementare all’antropologia e cristologia dogmatica, ma è nient’altro che la loro trasposizione nel modo del compimento». O anche: «La fonte propriamente originaria degli enunciati escatologici è l’esperienza dell’agire salvifico di Dio tramite Gesù Cristo in noi stessi».

Gisbert Greshake interpreta la complessità delle questioni escatologiche in queste proposizioni, dove la congiunzione “e” viene sempre sottolineata: «L’escatologia è un edificio altamente differenziato. […] Essa parla della vicinanza e della lontananza di Dio; della presenza e dell’assenza del suo futuro,- di un futuro, che è insieme promessa consolante, come anche provocazione all’azione -, che sfonda le strutture della storia, e che tuttavia si delinea anticipatamente nella storia; che pensa il singolo e la salvezza di tutti; che sa dello sprofondare di tutte le cose nel nulla e di una “nova creatio” che non abbandona niente al nulla».

Abbiamo, inoltre, già ricordato la sintesi operata da Edward Schillebeeckx, prospettando le quattro grandi metafore, che esprimono l’éschaton: la metafora sociale del Regno di Dio; la metafora personalista della risurrezione della carne; la metafora cosmica del cielo nuovo e della terra nuova; la visione cristologica della parusia Cristo.

La visione del ritorno di Cristo alla fine del tempo ha ispirato a Teilhard de Chardin una pagina intensa (del 1924, pubblicata postuma nel 1959): «In quell’istante, ci insegna s. Paolo (1 Cor 15,23ss.), quando il Cristo avrà vuotato di se stesse le potenze create (rigettando ciò che è fattore di dissociazione e sovranimando ciò che è forza d’unità) egli consumerà l’unificazione universale. […] Così risulterà costituito il complesso organico Dio e Mondo – il Pléroma – realtà misteriosa che noi non possiamo dire più bella d’un Dio solitario (infatti Dio poteva fare a meno del Mondo), ma che non possiamo neppure pensare assolutamente gratuita, assolutamente accessoria, senza rendere incomprensibile la Creazione, assurda la Passione del Cristo, e non interessante il nostro sforzo.

Et tunc erit finis.

Come una marea immensa, l’Essere avrà dominato i fremiti degli esseri. In seno ad un Oceano tranquillizzato, ma di cui ogni goccia avrà coscienza di rimanere se stessa, la straordinaria avventura del mondo sarà terminata. Il sogno di ogni mistica, l’eterno sogno panteista, avranno trovato la loro piena e legittima soddisfazione. “Erit in omnibus omnia Deus”». Anni fa in un congresso teilhardiano a Firenze l’astronomo Toraldo di Francia, allora direttore dell’osservatorio astronomico fiorentino, confessava in un intervento pubblico, al quale ero presente: Sono un agnostico, ma leggendo Teilhard de Chardin capisco il suo tentativo di trovare un senso all’avventura del mondo e alla nostra vita. Se Dio è il nome del senso, anch’io posso pregare: “In Te, Domine, speravi”.

Vorrei terminare con un grande teologo, Jürgen Moltmann, la cui meditazione ha rinnovato l’escatologia cristiana da Teologia della speranza (1964), che trova il suo contrappunto nella teologia della croce di Il Dio crocifisso (1972), fino a L’avvento di Dio (1995) e al breve libro Nella fine – l’inizio (2003). Un’opera che, nel tempo, elabora sistematicamente una «escatologia integrale», che integra l’escatologia personale, l’escatologia storica e l’escatologia cosmica. L’escatologia ha sempre a che fare con la fine, ma essa non ha come tema la fine, ma la ri-creazione di tutte le cose. Il principio dell’escatologia cristiana è così formulato: «alla fine, un nuovo inizio». L’escatologia ha una dimensione apocalittica, in quanto l’apocalittica mette a tema la fine del mondo. L’apocalittica preserva la dottrina cristiana della speranza da un ottimismo superficiale, ma l’escatologia dice riferimento ad una speranza, secondola quale «nella fine» si ha «un nuovo inizio», nel senso di nova creatio, e non di una immersione e di un perdersi nel ciclo della natura. Un’apocalittica senza escatologia non rientra in una prospettiva biblica, ma sarebbe una teoria della catastrofe, mentre l’escatologia, pur considerando la fine (è la dimensione apocalittica dell’escatologia), implica sempre la categoria del novum e alimenta una speranza «creativa». In una recente intervista Moltmann ha ricordato le sue discussioni con il filosofo ebreo Ernst Bloch, autore de Il Principio speranza (1959), che prospetta l’Experimentum Mundi nella sua processualità come un esperimento speranza, il quale domandava con insistenza all’amico teologo che cosa ci attende veramente dopo la morte. E su questo voleva una risposta non evasiva. La risposta del teologo è: «Noi siamo attesi».


Rosino Gibellini*

[Rosino Gibellini, Dottore in teologia e in filosofia, Direttore letterario dell’Editrice Queriniana di Brescia, dove ha fondato e redige “Biblioteca di teologia contemporanea” e “Giornale di teologia”. È autore di: La teologia del XX secolo; ha edito l’opera in collaborazione: Prospettive teologiche per il XXI secolo].




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