Pubblichiamo questo interessante testo di John Polkinghorne, teologo anglicano e docente emerito di fisica matematica all’università di Cambridge (Gran Bretagna), noto anche in Italia per i suoi saggi “Il mondo dei quanti” (Garzanti 1986); “Scienza e fede” (Mondadori 1987); “Credere in Dio nell’età della scienza” (Cortina Raffaello 2000); “Quark, caos e cristianesimo. Domande a scienza e fede” (Claudiana 1997). Si tratta del testo di una conferenza recentemente tenuta all’università di Udine.
Gli scienziati sono mossi dal desiderio di comprendere cosa succede nel mondo. La loro ricerca ha raggiunto finora grandi successi, allargando i propri obiettivi ben oltre quei processi quotidiani la cui comprensione potrebbe plausibilmente essere spiegata dalla necessità evolutiva che ha sviluppato il nostro cervello per essere all’altezza di questo compito (1) . La scienza ci aiuta a capire il regno della fisica subatomica e la natura dello spazio-tempo dell’universo, sistemi assai lontani dall’aver un impatto diretto su di noi e con caratteristiche la cui comprensione richiede modalità di pensiero alquanto differenti da quelle richieste dalla necessità quotidiana.
Tuttavia il successo della scienza è stato ottenuto grazie alla natura limitata della propria ambizione nel ricercare spiegazioni. Essa non tenta di domandare e di rispondere a ogni quesito che si potrebbe legittimamente porre. Si limita invece a investigare i processi naturali, attenendosi alla domanda sul come le cose siano accadute. Altre domande, come quelle relative al significato e allo scopo sono deliberatamente scartate. Questa presa di posizione scientifica è semplicemente una strategia metodologica, senza alcuna implicazione che altre domande, che potremmo definire domande sul perché, possano essere completamente rilevanti e necessarie per ottenere una comprensione totale della questione.
Eppure, anche in relazione al proprio campo di ricerca autocircoscritto, la scienza non può funzionare come una disciplina completamente a se stante, in grado di rispondere in modo esaustivo alle proprie domande sul come. Le questioni relative alla causalità illustrano questo punto. La presa in considerazione della causalità è certamente limitata da ciò che la scienza ha da dire, ma il risultato di questo dibattito non è interamente determinato solo dalla scienza. Capire la natura della causalità richiede anche la considerazione di atti di decisione metafisica. La teoria quantistica lo dimostra piuttosto chiaramente (2). Il mondo quantico è necessariamente caratterizzato dalla presenza di imprevedibilità intrinseche il cui accesso epistemologico è limitato dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Questo è quanto può dire la fisica. Ma ci si può chiedere se questi fenomeni emergano da un’ignoranza inevitabile di alcuni dettagli più precisi relativi ad una realtà fisica la cui natura sottesa è fondamentalmente deterministica, o se siano espressione della natura intrinsecamente indeterministica del mondo quantico. In base all’evidenza empirica offerta dalla fisica, risulta che sono possibili entrambe le risposte. Mentre la maggioranza dei fisici concorda con Niels Bohr nel fornire la seconda risposta, sussiste una teoria ingegnosa elaborata da David Bohm (3) che dimostra che anche la prima risposta è plausibile. La scelta tra queste due opzioni non può essere operata su basi puramente scientifiche, ma bisogna fare ricorso ai criteri meta-scientifici, quali giudizi di economia, eleganza e naturalezza (l’assenza di pianificazione/contrivance).
Coloro che hanno sete di conoscenza non l’appagheranno solo ricorrendo alla scienza. Mentre alcuni scienziati ostentano una sorta di scetticismo professionale nei confronti del pensiero metafisico, la realtà è che nessuno può fare a meno di una prospettiva più ampia di quella meramente scientifica. La scientista riduzionista che proclama che la conoscenza scientifica è tutto ciò di cui disponiamo, o di cui abbiamo bisogno, fa un’affermazione che non deriva dalla scienza stessa, propriamente concepita. Gli esseri umani pensano naturalmente e immancabilmente in termini metafisici così come parliamo in prosa.
Nulla viene dal nulla, e qualsiasi schema metafisico deve essere stabilito su un fondamento inesplicato e inderivato, che poi servirà come base per uno sviluppo interpretativo successivo. Nella tradizione occidentale ci sono stati due punti di partenza dell’indagine metafisica fondamentalmente distinti. Uno esamina l’esistenza del mondo materiale come principio base e considera le leggi della natura come fondamento per le spiegazioni successive. David Hume fu uno degli esponenti di spicco di questa metafisica materialistica. L’altro approccio considera l’esistenza di un Agente divino autosufficiente come fondamento base e vede sia il mondo sia la storia regolati dal volere di questo Agente come espressione del suo progetto. Teismo è quella parte della metafisica che cerca di capire l’universo in termini del suo esistere come creazione divina.
Argomentazioni a favore o contro queste due grandi tradizioni di pensiero hanno imperversato per molti secoli. Di recente, è stata proposta una sorta di nuova difesa a favore della posizione teistica—o forse si potrebbe meglio dire che si tratta di una vecchia difesa riapparsa in vesti intellettuali nuove. All’interno della corrente di pensiero del “disegno intelligente” (Intelligent Design, ID), questo nuovo movimento afferma di essere capace di discernere gli aspetti scientifici del nostro sapere del mondo vivente la cui esistenza non può essere compresa se non attraverso il ricorso all’azione diretta di un’intelligenza disegnatrice che opera nel corso della storia. Mentre i sostenitori di questa visione sono molto cauti nel dichiarare qualsiasi cosa di definito sulla natura di questa intelligenza attiva—è una tattica del loro discorso di evitare l’uso di parole come Dio o Creatore—sembra abbastanza chiaro che la teoria sottesa al movimento ID sia quella di offrire una particolare difesa tacita a favore della metafisica teistica. Prima di tentare una valutazione di questo movimento di pensiero, è necessario dare uno sguardo preliminare ai vari contesti scientifici e teologici attraverso i quali deve essere esaminato.
Scienza
Abbiamo visto che la fisica non determina la metafisica, ma la limita certamente, quasi come le fondamenta di una casa non determinano l’edificio sulle quali verrà eretto, eppure ne limitano la forma possibile. Ci sono cinque aspetti della visione della scienza o della realtà che sono particolarmente rilevanti alla presente discussione.
1. Descrizioni frammentarie. La fisica procede attraverso l’analisi dettagliata di campi fondamentali: la fisica subatomica, la fisica della materia condensata, la meccanica del continuo, e cosi via. In ogni campo, si può raggiungere una comprensione ragguardevole dei processi coinvolti, ma le relazioni tra i diversi settori sono spesso lungi dall’esser comprese in modo soddisfacente. Per essere del tutto franchi, il contributo della fisica alla descrizione di un nesso causale del mondo è particolarmente incostante (4).
Un esempio convincente della natura frammentaria della comprensione della fisica è fornito dalle perplessità che rimangono ancora irrisolte riguardo al modo in cui la fisica quantistica e quella classica possano relazionarsi l’un l’altra. La questione si presenta ancora problematica dopo ottant’anni di grandi successi ottenuti nella computazione. Sappiamo fare le somme, ma non capiamo completamente cosa accade. La difficoltà più nota è quella relativa al problema della misurazione. La fisica quantistica si basa sul principio della superposizione, che permette la combinazione di stati che il pensiero newtoniano, o il buon senso, direbbe che sono strettamente non mescolabili. Un elettrone può essere in uno stato che è un misto tra l’essere ‘qui’ e ‘lì’. Non solo questa possibilità riflette la stranezza inafferrabile del mondo quantistico, ma si collega anche alla natura probabilistica della fisica quantistica. Se la posizione di un elettrone in tale stato di superposizione è in realtà misurabile, a volte il risultato sarà ‘qui’ e a volte ‘lì’. Il formalismo permette di calcolare con incredibile precisione le relative possibilità di ottenere queste due risposte, ma non c’è una spiegazione teorica soddisfacente comunemente condivisa sul perché un particolare risultato si presenti in una data occasione. Questa aporia scientifica è il problema della misurazione. In altre parole, è imbarazzante per un fisico dover ammettere che non capiamo come l’oscuro mondo dei quanti e il chiaro mondo della fisica classica siano connessi l’un l’altro attraverso il ponte della misurazione. Come risultato, c’è un grande buco della scienza nella descrizione della struttura causale della fisica.
Un secondo esempio di incertezza risiede nell’incapacità di conciliare in modo coerente la teoria quantistica con quella del caos. I sistemi caotici posseggono una tale spiccata sensibilità nel più piccolo dettaglio delle loro circostanze che la previsione del loro futuro comportamento richiederà presto un grado di conoscenza esatta che l’incertezza di Heisenberg rifiuta. Ciò implica che dovrebbe esserci un intreccio delle due teorie, ma, di fatto, i due formalismi per come sono attualmente configurati sono incompatibili. La teoria quantistica ha una scala, fornitaci dalla costante di Planck, ma il carattere frattale della dinamica caotica indica che non possiede una scala, poiché presenta le stesse caratteristiche in qualsiasi misura venga presa in esame. Le due teorie insieme non sono dunque compatibili.
La fisica è incapace di offrire un resoconto uniforme di ciò che accade nel mondo. È chiaro che ha fallito nell’impresa di stabilire la chiusura causale dell’universo in base ai principi della fisica.
2. Imprevedibilità. La scienza del ventesimo secolo ha scoperto l’esistenza di imprevedibilità intrinseche al processo fisico. Le prime si manifestarono a livello subatomico della fisica quantistica, e in seguito più tardi se ne scoprirono altre a livello microscopico della teoria del caos. È importante spiegare pienamente la portata del termine ‘intrinseco’. Non stiamo facendo riferimento a situazioni dove tecniche di misurazione migliori, o strumenti di calcolo più potenti potrebbero risolvere le imprevedibilità. L’imprevedibilità è una proprietà epistemologica che si riferisce a ciò che possiamo o non possiamo sapere riguardo il comportamento futuro. Non c’è nessun nesso logico fondamentale tra l’epistemologia e l’ontologia (il che è il nostro caso). Come già abbiamo visto nel principio di indeterminazione di Heisenberg, è necessaria una decisione metafisica su che tipo di interpretazione ontologica adottare (deterministica o indeterministica?). È una strategia perfettamente coerente e accettabile per interpretare le imprevedibilità fisiche come segnali della presenza di apertura causale, permettendo l’operazione di influenze causali sopra e sotto quelle che risultano dallo scambio di energia tra costituenti che è stata la storia tradizionale raccontata dalla scienza. Un ovvio candidato per questo principio causale addizionale potrebbero essere gli atti di volontà degli agenti umani intenzionali. Un’altra possibilità potrebbe essere l’azione provvidenziale divina, continuamente operante all’interno della natura (5). Una scienza onesta non è nella posizione di rifiutare entrambe le possibilità.
3. Relazionabilità. Il pensiero newtoniano ha concepito il processo fisico in termini di collisioni di particelle che si muovono in un contenitore di spazio assoluto e nel corso dello svolgimento del tempo assoluto. Il ventesimo secolo ha sostituito questa visione con qualcosa nel complesso più intrinsecamente relazionale. La teoria di Einstein della relatività generale combinò spazio, tempo e materia in un singola descrizione integrata. La materia incurva lo spazio-tempo e la curvatura dello spazio-tempo influenza i percorsi della materia. Nel mondo dei quanti, una volta che due particelle hanno interagito rimangono mutualmente intrecciate, divenendo effettivamente un singolo sistema cosicché, quand’anche si separassero nella distanza, l’agire sull’una produrrà un effetto immediato sull’altra. (Questo è il famoso ‘effetto EPR’). Anche il mondo subatomico, parrebbe, non può essere trattato atomisticamente.
4. Complessità emergente e evolutiva. L’universo 13.7 miliardi di anni fa era solo una piccola palla, quasi uniforme, di energia in espansione. Oggi è un cosmo vasto, abitato da strutture ricche e diverse. Quella palla di energia è diventata la dimora dei santi e degli scienziati. I processi che hanno prodotto questa incredibile trasformazione feconda sono stati di natura evolutiva, sia nel caso si consideri la storia del cosmo agli albori, nel corso del quale l’universo divenne grumoso e denso di stelle e galassie, sia nel caso dei 3.5 miliardi di anni di storia dello sviluppo della vita sulla Terra. Il processo evolutivo è il risultato di una fertile interazione di due tendenze contrastanti che potremmo definire ‘Caso e Necessità’. La Necessità sta a rappresentare la regolarità del mondo in base a delle leggi. Il Caso indica la particolarità contingente, il fatto che questo accada invece di quello. La serie di eventi possibili è così vasta che anche tra 13.7 miliardi di anni solo una piccola frazione di ciò che sarebbe potuto accadere in realtà accadrà. Potremmo fornire molte illustrazioni dell’interazione simbiotica tra queste due tendenze.
La scienza ha imparato a riconoscere che la vera innovazione può emergere soltanto in regimi che possiamo dire che si trovino ‘al margine del caos’, un regno dove l’ordine e la contingenza si collegano per costituire il dominio del caso e della necessità. La pura necessità corrisponderebbe ad un mondo troppo rigoroso in natura da permettere l’apparizione di qualsiasi innovazione. Il puro caso corrisponderebbe ad un mondo troppo caotico che non permetterebbe alcuna novità di sopravvivere. Senza un grado di mutazione genetica, non esisterebbe nessuna forma di vita, non ci sarebbe alla base nessuna delle specie metastabili su cui il processo di vaglio della selezione naturale potrebbe agire.
La potente fecondità dell’universo si manifesta attraverso l’apparizione puntuata di intere nuove forme di complessità, le cui nature non erano prevedibili in base a ciò che le aveva precedute: la vita che nasce dalla materia inanimata; la coscienza dalla vita; l’autocoscienza umana (proprio gli stessi strumenti attraverso i quali l’universo divenne cosciente di se stesso, e quindi facendo della scienza una possibilità eventuale) (6).Tuttavia, non è chiaro in quale senso il pensiero evolutivo convenzionale costituisca la descrizione scientifica completa di come tutto ciò sia accaduto. Si è appena riusciti di recente a studiare il comportamento dei sistemi moderatamente complessi, considerati nel loro insieme piuttosto che decomposti in parti costituenti. Attualmente la maggior parte di questo lavoro è allo stadio della storia naturale di considerare semplicemente esempi specifici, spesso modelli generati al computer. Comunque, è già chiaro che i sistemi complessi manifestano spesso poteri incredibili di autoorganizzazione spontanea, entrando a far parte della generazione dei nuovi modelli di struttura e comportamento. È totalmente concepibile che l’apparizione della novità sia in parte influenzata dalla formazione di modelli olistici delle leggi della natura, un genere non considerato in precedenza dalla scienza e ancora ben lontano dall’essere compreso completamente (7).
5. Potenzialità sintonizzata. Gran parte della discussione sul significato evolutivo si è concentrato sul caso, una delle due metà della dualità, ma la necessità non dovrebbe essere considerata da meno. Uno sviluppo sorprendente della comprensione scientifica è stato il riconoscimento che la regolarità dettata dalle leggi abbia dovuto ottenere una forma quantitativamente precisa molto specifica, visto che per la vita a base carbonica è stato possibile evolversi ovunque nel corso della storia del cosmo. Un universo capace di essere la dimora della vita è davvero un universo molto speciale. Mentre la vita sembra che si sia sviluppata solo circa 10 miliardi di anni fa nella storia del cosmo, il nostro universo era gravido di questa possibilità dal momento del big bang in poi, nel senso che la sua matrice fisica di partenza possedeva già la qualità giusta per farlo accadere. La sintesi delle osservazioni scientifiche che portarono a questa conclusione straordinaria e imprevedibile è stata definita con il termine di Principio Antropico (8). Un esempio sarà sufficiente a indicare il tipo di pensiero che è alla base.
Poiché l’universo agli albori è molto semplice, produce conseguenze molto semplici. Gli unici elementi chimici che può generare sono i due tra i più semplici, idrogeno e elio. Per manifestare la vita c’è bisogno di molta più diversità di risorse chimiche. In particolare, serve il carbonio, la cui capacità di generare catene lunghe di molecole risiede alla base di tutti gli esseri viventi. C’è solo un posto in tutto l’universo dove il carbonio può essere prodotto: nelle fornaci nucleari interne delle stelle. Siamo esseri che proveniamo dalla polvere delle stelle, generati dalle polveri delle stelle morte. La persona che per prima capì questa evoluzione fu Fred Hoyle. In un momento di grande intuito, ha realizzato che la produzione di carbonio stellare era possibile, in modo affascinante e delicato, perché sussisteva un effetto di intensificazione (una risonanza come diciamo di solito) con l’esatta energia per permettere ciò che altrimenti sarebbe stato uno sviluppo mancato. Hoyle ha inoltre realizzato che se le forze nucleari fossero state leggermente differenti, non ci sarebbe stata alcuna giusta risonanza e di conseguenza nessuna vita a base carbonica. Malgrado l’impegno all’ateismo durato tutta una vita, risulta che egli abbia affermato che l’universo sia un ‘affare losco’. In altre parole, Hoyle non poteva credere che l’esistenza del carbonio fosse semplicemente un incidente felice. Dato che non nutriva nessun interesse per la parola ‘Dio’, disse che doveva esserci un’Intelligenza che aveva fissato le leggi della natura per manifestare l’universo in quel modo. Potremmo dire che Hoyle sentì che aveva percepito il disegno intelligente presente nella matrice del mondo. Questo sarebbe, naturalmente, alquanto diverso dalla tesi del movimento ID che sostiene di discernere un tipo diverso di disegno intelligente, presente nelle reali strutture dettagliate di alcuni esseri viventi. La prima visione si collega alle regole del gioco cosmico; quest’ultima alle mosse specifiche di quel gioco.
Teologia
La precedente discussione si è concentrata sulle intuizioni scientifiche relative a ciò che potrebbe riscuotere largo consenso nella comunità scientifica competente. Ma la comprensione totale delle implicazioni di queste scoperte sorprendenti richiede la loro collocazione in un contesto più avanzato di intelligibilità permesso da una prospettiva metafisica a tutto tondo. Abbiamo già osservato che non ci sarà nessuna inevitabilità logica o unicità necessaria riguardo a questo procedimento, e di conseguenza non ci sarà nessun consenso universale su quale schema meta-scientifico adottare. La tesi di questo saggio è che vedere l’universo come creazione divina offre un ambito di comprensione più intellettualmente soddisfacente. Esplorare questa argomentazione richiede l’identificazione di alcune delle risorse intuitive offerte dal teismo. I concetti di particolare rilevanza sono tre:
1. Creazione. Vedere il mondo come creazione è credere che la mente di Dio sia soggiacente al meraviglioso ordine e che il volere di Dio sia dietro la sua ricca storia. Il potere straordinario della mente umana di capire le strutture profonde del mondo—lo stesso fatto che ha reso la scienza possibile, ma che la scienza stessa non sa spiegarsi—può essere reso intelligibile attraverso l’antico credo che gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio (Genesi 1: 26-27). La bellezza razionale svelata nella fisica fondamentale, che permette agli scienziati il premio della meraviglia come ricompensa di tutto il lavoro svolto nelle loro ricerche, non è più vista dunque come un incidente felice, ma è riconosciuta come puro riflesso della Mente del Creatore, incontrata attraverso la matrice meravigliosamente ordinata della creazione.
La sintonizzazione antropica di quella matrice, la quale è stata necessaria a permettere la straordinaria fecondità della storia del cosmo e della terra, è concepita da un punto di vista teistico come dono offerto dal Creatore per permettere alla creazione di compiere il progetto divino della sua storia creativa.
Queste intuizioni si riferiscono tutte agli aspetti delle leggi della natura che una metafisica materialistica tratterebbe come un semplice fatto rudimentale, ma il cui carattere significativo sembra richiedere una spiegazione se vogliamo davvero colmare la nostra sete di conoscenza. Vedere l’universo come creazione significa discernere un disegno intelligente costruito all’interno della sua matrice fisica. Sotto questa prospettiva, Dio non è raffigurato come il grande Artefice, limitando strutture ingegnose e particolari, ma come il magnifico Ordinatore della potenzialità e dell’ordine inerente senza il quale il mondo sarebbe un caos piuttosto che un cosmo. Questa comprensione si incontra con la critica di Hume dei fisico-teologi del diciottesimo secolo, personaggi come John Ray e William Paley il cui fascino per l’adattamento (aptness) funzionale degli esseri viventi era un tema a livello degli organismi simile a quelli di adesso fatti dal movimento ID a livello dei meccanismi molecolari.
Hume affermò che la figura di Dio proposta dai fisico-teologi era troppo antropomorfa, in quanto consideravano l’atto della creazione come se fosse paragonabile ad un falegname che costruisce una nave. Ma manifestare un mondo dotato di potenzialità inerente è piuttosto diverso dal manipolare materiale esistente in modo da produrre forme nuove. Nella terminologia ebraica, il primo caso è definito bara (un termine particolare usato solo per la creazione divina), invece del termine ‘asah (parola comune per ogni forma di creazione).
2. Chenosi. La teologia cristiana concepisce l’amore come la natura di Dio. Di conseguenza non può né raffigurare il Creatore come uno Spettatore deistico indifferente che, avendo messo in moto il tutto lo lascia poi andare semplicemente da solo, né come un Burattinaio cosmico che tira le fila nel teatro della creazione. Il dono dell’amore deve sempre includere un giusto grado di indipendenza concessa all’oggetto d’amore. Prendendo atto di ciò, questa visione ha condotto molti teologi contemporanei a concepire l’atto della creazione come un atto di chenosi del Creatore, prevedendo un’autolimitazione divina in modo da permettere all’alterità creata di essere veramente se stessa e, in realtà, di autogenerarsi (9). L’idea creazionista del farsi da soli (vecchia quanto la reazione iniziale di Charles Kingsley alla pubblicazione dell’Origine della specie) è il modo teologico di interpretare l’evoluzione, vista come esplorazioni mescolate del caso attraverso cui la potenzialità divina dell’universo è portata a realizzare specificamente la sua attuazione. Si può sostenere che il mondo caratterizzato da quel genere di fecondità evolutiva sia un bene maggiore confronto ad una creazione già pronta. Ma quel bene ha un costo necessario. Sussiste un lato oscuro inevitabile al processo evolutivo, poiché l’esplorazione contingente risulta non solo in nuovi generi di fecondità, ma porta anche a dei confini irregolari e vicoli ciechi. In un mondo in evoluzione, la morte di una generazione è il costo necessario per la vita della nuova che segue. Sappiamo che l’evoluzione biologica è stata determinata dalla mutazione genetica, ma se i microbi sono capaci di mutare e produrre nuove forme di vita, allora le cellule somatiche saranno capaci, attraverso lo stesso processo, di mutare e di diventare a volte maligne. Un aiuto ci viene qui dato dalla teologia in quanto si confronta con le perplessità della Teodosia. L’angosciosa realtà del cancro non è un qualcosa di gratuito, come se il Creatore, se fosse stato un po’ più competente o un po’ meno crudele l’avrebbe facilmente eliminato. È il costo necessario della creazione nella quale le creature sono permesse di farsi da sole.
3. Provvidenza. Abbiamo visto dunque che una valutazione onesta del sapere effettivo della scienza sul nesso causale del mondo è compatibile con una visione più sottile e flessibile del suo processo piuttosto che concepire la creazione come un pezzo gigantesco di orologio cosmico. Non sussistono motivazioni scientifiche adeguate che ci richiedano di scartare una metafisica dell’agente, includendo la possibilità di un’interazione provvidenziale divina nel corso dello svolgimento della storia (10). L’idea di un universo in divenire, aperto sul futuro, permette una comprensione della divina provvidenza operante all’interno della natura creata, invece di vederla contro di essa, il cui carattere, dopo tutto, è in sé espressione della volontà del Creatore. Si è proposto in precedenza che il luogo della flessibilità causale necessaria possa risiedere negli oscuri domini dell’imprevedibilità intrinseca che sono stati scoperti dalla scienza. Se questo è il caso, ne consegue che il processo del mondo non può essere considerato a parte e non si possono specificare minuziosamente gli eventi uno per uno, come se si potesse affermare che la natura ha fatto questo, gli esseri umani faranno quello, e la divina provvidenza la terza cosa. Sussiste un coinvolgimento intrinseco. Gli atti della provvidenza si possono discernere attraverso la fede, ma non saranno mai dimostrabili tramite l’esperimento.
Cosa dire allora dei miracoli? Il Cristianesimo deve affrontare la questione, poiché alla base di questo credo risiede la resurrezione di Cristo e nessuno potrebbe far finta di credere che un uomo che risorga dalla morte per giungere ad una vita nuova di gloria infinita sia riuscito nell’impresa attraverso una strumentalizzazione intelligente delle imprevedibilità dei quanti e del caos. In questo caso ci deve essere stata un’azione diretta di Dio di una natura completamente senza precedenti. Dal momento che la scienza si interessa di cosa accade di frequente, non può logicamente escludere la possibilità di eventi unici. Eppure la stessa teologia vieta di concepire Dio come un mago celeste capriccioso che fa giochi di prestigio solo per stupire la gente. Se eventi unici come i miracoli in realtà accadono, ciò può essere solo perché circostanze senza precedenti lo hanno reso una possibilità che è in armonia con la coerenza del volere divino (11). Se Gesù era incarnazione come Figlio di Dio, come credono i Cristiani, allora la sua resurrezione può in effetti essere vista come forma coerente dell’azione divina, e concepita anche come segnale e sigillo all’interno della storia di ciò che Dio voleva fare per tutta l’umanità oltre la storia (1 Corinzi 15: 22). Questo approccio interpreta la questione dei miracoli come eventi che aprono delle finestre sui livelli più profondi della natura divina, permettendone un’intuizione più profonda di quella rivelata dall’esperienza quotidiana. Corrisponde a ciò che il Vangelo secondo Giovanni chiama “segni”.
Il disegno intelligente
Il concetto di provvidenza appena proposto raffigura Dio come colui che interagisce incessantemente con la creazione per mezzo di un’azione continua che ha sede all’interno divinamente ordinato della natura. Azioni divine speciali in circostanze speciali di svelamento rivelatorio non sono escluse, ma l’aspettativa è che questi atti saranno relativamente rari e che accadranno per ragioni altamente significative. Se lo scopo dei miracoli è effettivamente quello di costituire dei segni di significato profondo, non saranno sparsi in modo avventato e generoso per tutta la storia. Infatti, l’esame delle storie dei miracoli biblici dimostra che si concentrano intorno a periodi di particolare importanza nella storia della salvezza: l’Esodo, l’alba della profezia di Isreaele, la vita di Gesù Cristo e la fondazione della Chiesa.
Benché il linguaggio attentamente scelto del movimento ID rifugga dall’uso della parola ‘miracolo’, il suo quadro dell’evolversi della storia della vita porta la chiara implicazione che sia disseminato da numerosi interventi miracolosi, atti discontinui nei quali entità nuove vengono create in modo speciale. In quale altro modo si potrebbe supporre il sorgere nell’esistenza di sistemi disegnati complessi se non attraverso un’azione diretta dell’intervento divino compiuta da un’agente disegnatore intelligente? Bisogna chiedersi quale prova potrebbe essere fornita a sostegno di un’affermazione estremamente forte come questa.
William Dembski ha avviato le ricerche per identificare il tipo di prova in grado di sostenere in modo logico e convincente la presenza di un disegno intelligente (12). Il suo concetto chiave è ciò che chiama il criterio di specificazione di complessità. Ci sono tre elementi che vengono identificati come necessari al funzionamento del criterio: contingenza, complessità e specificazione.
La contingenza sta a significare che l’entità non è qualcosa che era destinata a divenire attraverso processi di necessità inesorabile. Quando si usa un computer, cliccando su ‘stampa’, il testo risultante corrisponderà immancabilmente alle parole che apparivano sullo schermo. Qualunque intelligenza abbia preso parte alla stesura originale del testo, nessuna altra intelligenza è stata coinvolta nel produrre una copia automatica. La complessità indica che l’entità non è così semplice da formarsi attraverso un puro caso. Se si battono quattro lettere a caso sulla tastiera, queste corrisponderanno di rado ad una parola inglese ed è sufficientemente probabile che, quando ciò accade, all’evento non viene attribuito nessun grande significato. Ma se si battono a macchina cento lettere a caso e si scopre che possono essere suddivise in una sequenza di parole inglesi, si può giustamente pensare che l’evento richieda un’ulteriore spiegazione. La specificazione è la condizione più elusiva da definire. Richiede la presenza di un modello il cui carattere è così naturale da indicare un ruolo per l’intelligenza nella sua formazione. Se si dovesse scoprire che quelle cento lettere corrispondono alle parole di un sonetto di Shakespeare, allora sicuramente c’è un qualcosa che accade di natura altamente superiore. Un problema con la condizione di specificazione risiede nell’identificazione della presenza di significato. Se le cento lettere formassero la traduzione del sonetto nella lingua Urdu, sarebbe anche questo un fatto rilevante, ma che passerebbe probabilmente inosservato ad un parlante inglese monoglotta.
Sembra ragionevole concordare sul fatto che un atto di disegno intelligente debba soddisfare in qualche modo il criterio di specificazione di complessità. Ciò che è più controverso è l’asserzione che la soddisfazione del criterio sia una condizione sufficiente per provare il disegno intelligente. Dopo tutto, la tesi darwiniana della selezione naturale propone precisamente un modo in cui gli effetti di vagliatura dello smistamento ambientale e della preservazione, che operano di continuo su piccole differenze fortuite e che si accumulano durante lunghi periodi di tempo, possono provocare conseguenze per l’adattamento di entità viventi nei loro ambienti contingenti e complessi, e che possono essere considerati nel soddisfare la specificazione, non nel senso presente, ma nel senso che i risultati sono funzionalmente efficaci ad un alto grado. È stata precisamente l’abilità del pensiero evolutivo a spiegare la manifestazione del disegno senza bisogno di invocare l’intervento diretto del disegnatore, che ha sovvertito le argomentazioni dei fisico-teologi. Comunque in entrambi i casi c’è bisogno di molto di più che di generalizzazioni. Ciò che sarà convincente è l’attenta analisi di casi particolari.
Qui i teorici del movimento ID si rivolgono ad un concetto che è stato discusso a fondo da Michael Behe. È l’idea della complessità irriducibile che Behe definisce come ‘un singolo sistema composto da diverse parti interagenti che contribuiscono alla funzione di base, e per il quale la rimozione di una qualunque delle parti causerebbe la cessazione del funzionamento del sistema’ (13). Risulta chiaro che l’evoluzione di questo sistema, a meno che venga trattato come isolato, non potrebbe essere spiegato dalla nozione darwiniana dello sviluppo graduale incrementale, in cui ad ogni stadio si ritiene raggiunta un ulteriore grado di sopravivenza efficiente. Behe crede di essere in grado di identificare alcuni di questi sistemi di complessità irriducibile. Uno dei suoi esempi preferiti è quello delle ciglia che permettono agli organuli di nuotare. Questo discorso corrisponde alla controparte molecolare delle difficoltà sollevate subito dopo la pubblicazione dell’Origine della Specie, che si chiedeva come gli organi complessi quale l’occhio si fossero evoluti. Lo stesso Darwin si era dibattuto su questo punto, sebbene ricerche successive siano state capaci di fornire percorsi evolutivi plausibili, e il fatto che gli occhi si sono sviluppati diverse volte indipendentemente nel corso della storia evolutiva fa pensare che non c’è un vero problema. Sono realmente differenti le materie a livello molecolare?
Non credo che Behe abbia stabilito l’esistenza irrefutabile della complessità irriducibile. Non è sufficiente considerare un sistema singolo come se fosse semplicemente isolato. Il processo evolutivo è costituito da molte trame complesse, e caratterizzato dalla cooptazione improvvisa di sotto-sistemi, che si sviluppano per uno scopo e successivamente vengono appropriati per un altro scopo completamente differente. Risulterebbe molto difficile provare che non c’era un percorso attraverso il quale si fosse evoluta una struttura identificata come complessa irriducibile, così come risulterebbe difficile stabilire con certezza il vero tragitto del suo sviluppo evolutivo. Allo stato attuale, un verdetto aperto è il massimo che si possa avanzare. Tuttavia, dato che l’affermazione del movimento ID è potenzialmente di tale rilevanza, l’onere della prova spetta sicuramente a coloro che se ne fanno promotori. Non credo che quell’onere sia stato ancora adempiuto.
Se venisse stabilita la complessità irriducibile, sarebbe un successo scientifico di enorme portata. In effetti si potrebbe ritenere una scoperta da premio Nobel. Le frequenti polemiche rivolte al movimento ID—che non è scientifico perché non si basa su esperimenti—sono ingiuste. Le scienze storiche osservative non hanno accesso diretto alla verifica sperimentale. La loro ricerca dipende dal proporre la migliore spiegazione di una serie complessa di processi, i cui dettagli sono conosciuti solo in modo frammentario. Il contributo di Darwin nell’Origine possiede proprio questa caratteristica. Gli ideatori ID si stanno domandando una questione scientifica importante. Il problema è che non conoscono ancora la risposta.
Una critica importante dell’ID è che il suo programma teologico nascosto sia fondato su una strategia errata. Si può concepire un Dio ordinatore della natura sia se agisce attraverso i processi della natura oppure in qualsiasi altro modo. Non c’è una distinzione che debba essere imposta tra la spiegazione naturale e il lavoro del Creatore. Il volere di Dio è altrettanto espresso nel processo evolutivo che risulta nella continua esplorazione della potenzialità, così come in qualsiasi degli eventi presunti di intervento divino. Dio è presente sia nel caso sia nella necessità della creazione.
Evoluzione Teistica
Quest’ultima argomentazione esprime esattamente come l’evoluzione teistica interpreta la dottrina della creazione. La necessità antropicamente sintonizzata dell’universo è vista come manifestazione del volere del suo Creatore, mentre la divina provvidenza si crede che lavori all’interno le contingenze della storia del cosmo, secondo la visione già data della continua azione provvidenziale operante all’interno della natura. Per usare una metafora musicale utilizzata da Arthur Peacocke (14), la “fuga” della creazione non è l’esecuzione di uno spartito fisso già scritto nell’eternità, ma è un’improvvisazione che si dispiega meravigliosamente al quale partecipano il Creatore e le creature. Questo processo di collaborazione è reso possibile dall’amore chenotico del Creatore per la creazione, attraverso cui le creature possono essere se stesse e farsi da sé. La magnifica fuga della creazione giungerà alla sua risoluzione finale, poiché è una convinzione interamente coerente che Dio realizzerà determinati compiti lungo vie contingenti (15). Nel frattempo, il contrappunto attuale concorda con le intenzioni del Musicista divino consoni alla forma del suo sviluppo, anche se è presente un’influenza notevole delle creature sui dettagli armonici. Non è stato decretato per tutta l’eternità che l’Homo sapiens dovesse apparire nella nostra specificità contingente a cinque dita, ma la nascita di esseri autocoscienti capaci di comprendere e venerare il proprio Creatore fu disposto dalla volontà divina.
L’equilibrio raggiunto tra l’orientamento del Creatore e l’indipendenza delle creature è una questione delicata, non facile da definire. È una questione teologica ben conosciuta, in quanto è semplicemente quella della grazia e del libero arbitrio, ma estesa all’intero cosmo. Abbiamo già osservato che riconoscere l’indipendenza accordata alle creature concede alla teologia un aiuto nell’affrontare le perplessità della malattia e del disastro. Dio non vuole direttamente che avvenga né un omicidio o un terremoto, ma entrambi possono accadere nell’ambito di una creazione che è molto più sottile e flessibile di un teatro divino di marionette. Il concetto dell’evoluzione teistica ci aiuta inoltre a capire le imperfezioni apparenti del disegno osservate in esseri evoluti. Gli organi rudimentali come l’appendice umana che al momento non svolge nessuna funzione utile sono semplicemente degli avanzi derivanti dalle necessità funzionali di un tempo, piuttosto che caratteristiche oziose di un disegno imperfetto. Qualsiasi persona che abbia sofferto di mal di schiena sarà consapevole che lo scheletro umano non è disegnato in modo perfetto e intelligente per la deambulazione bipede.
Un aspetto irritante di una parte del discorso religioso contemporaneo è il modo in cui ci si è impadroniti di parole importanti nel tentativo di farne una proprietà privata di una minoranza. Come altri teisti, sono un creazionista nel vero senso di credere che la volontà divina sia la sorgente della manifestazione dell’universo e che lo scopo divino sia espresso nella sua storia, ma non sono certo un ‘creazionista’ nel senso stravagante nord americano che dà un’interpretazione letterale senza riserve dei primi due capitoli della Genesi. Credo anche in un disegno intelligente costruito all’interno della matrice fisica del mondo che trova un’espressione iniziale attraverso processi che sono guidati, ma non solamente determinati, da Dio, ma non credo che il Creatore abbia scelto di agire attraverso atti episodici di intervento diretto, come se il grande atto della creazione avesse bisogno di una continua riparazione ricostruttiva delle sue parti.
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Citazioni
1. Si veda J.C. Pilkinghorne, Exploring Reality, SPCK/Yale University Press, 2005, cap. 3.
2. Per le nozioni sulla fisica quantistica si veda ad esempio J.C. Pilkinghorne, Quantum Theory: A very short introduction, Oxford University Press, 2002.
3. D. Bohm e B. Hiley, The Undivided Universe, Routledge, 1993.
4. Polkinghorne, Exploring Reality, cap. 2.
5. J.C. Polkinghorne, Belief in God in an Age of Science, Yale University Press, 1998, cap. 3.
6. Si veda P. Clayton, Mind and Emergence, Oxford University Press, 2004.
7. S. Kauffman, The Origins of Order, Oxford University Press, 1993.
8. J.D. Barrow e F.J. Tipler, The Cosmological Anthropic Principle, Oxford University Press, 1986; J. Leslie, Universes, Routledge, 1989.9. Si veda, J.C. Polkinghorne, (ed.), The Work of Love, SPCK/Eerdmans, 2001.
10. Si veda, R.J. Russell, N. Murphy, e A.R. Peacocke (eds), Chaos and Complexity, CTNS/Osservatorio Vaticano, 1995; R.J. Russell, P. Clayton, K. Wegter-McNelly e J.C. Polkinghorne (eds), Quantum Mechanics, CTNS/Osservatorio Vaticano; e nota 5.
11. J.C. Polkinghorne, Science and Providence (2nd ed.), Templeton Foundation Press, 2005, cap. 4.
12. W. Demski, Intelligent Design, InterVarsity Press, 1999.
13. M. Behe, Darwin’s Black Box, The Free Press, 1996, p. 39.
14. A.R. Peacocke, God and the New Biology, Dent, 1986, pp. 97-99.
15. Per una discussione approfondita si veda D. Bartholomew, God of Chance, SCM Press, 1984, cap. 4.
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Traduzione dall’inglese del dr. Stefano Mercanti, Università di Udine
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)