20/02/2008
108. L’Enciclica «Humanae vitae» (1968) compie quarant’anni Un’occasione per riflessioni che portano oltre la controversia sulla contraccezione di Dietmar Mieth (Facoltà di teologia cattolica, Tubinga, Germania)
Ingrandisci carattere Rimpicciolisci carattere
L’enciclica Humanae vitae (= HV) è stata un tema assai discusso nella teologia morale cattolica e anche un continuo punto di riferimento pubblico per una critica alla chiesa nei mezzi di comunicazione. In effetti l’enciclica ha esercitato un forte influsso sulla teologia morale, ma anche sulla dogmatica e, non da ultimo, sulla predicazione del magistero. A questo riguardo è fuori discussione che l’enciclica, nella sua presa di posizione sull’amore come senso del matrimonio, distinto, anche se non separato, dalla fecondità come scopo del matrimonio, ha agito da battistrada. Ciò è stato rafforzato dall’esortazione apostolica Familiaris consorzio (1981). Il permanente punto critico è stata la proibizione dei mezzi contraccettivi (e non solo di quelli abortivi). Poiché per questo divieto la chiesa si richiamava alla continuità della sua autorità e alla sua concezione del diritto naturale, la portata dell’autorità magisteriale divenne il punto centrale della discussione, proprio come il modo di far ricorso al diritto naturale. Vista da Tubinga, la critica di Hans Küng all’affermazione e alla motivazione dell’infallibilità era il vertice di una linea di discussione, mentre il vertice dell’altra era la fondazione di una scuola cattolica di “morale autonoma” da parte di Alfons Auer e Franz Böckle. Le conferenze episcopali, ad esempio in Svizzera, Austria e Germania, si richiamavano alla dottrina della coscienza dei fedeli. Oggetto di discussione fu di continuo anche il fatto che la dottrina della contraccezione non veniva recepita dai fedeli, e non per debolezza, ma per convinzione. Qui, accanto alla questione della coscienza, si trattava della questione del sensus fidelium nella formazione morale all’interno della chiesa.

Io però non entro qui nel merito del dibattito che la norma ecclesiale ha provocato e che è durato fino alla discussione sull’enciclica Veritatis splendor. La questione è piuttosto di gran lunga più generale e riguarda quali cambiamenti sono subentrati, a mio parere, nella concezione di un’etica cristiana. E la seconda questione è come si possa, di fronte a questi cambiamenti, guardare ancora avanti.

Soprattutto nel modo in cui HV venne trasformata dal magistero in un simbolo della fedeltà di teologi e teologhe alla chiesa, essa ha indotto la teologia morale europea e, da lontano, anche quella nordamericana a interpretare il diritto naturale in modo nuovo come diritto razionale autonomo e a cercare al riguardo un collegamento con Tommaso d’Aquino che, malgrado momenti di contestazione, si è ampiamente imposto. A questo proposito non si trattò né di autonomia nel senso dell’autodeterminazione, dell’arbitrio e della scelta (in contrapposizione al movimento Pro choice), né, nonostante alcuni richiami a Immanuel Kant, di autonomia nel senso kantiano, come “autoobbligazione” in libertà, bensì piuttosto della autonoma razionalità della realtà, e/o della indipendenza della spiegazione, razionalmente aperta, della verità della creazione. Non lasciare fagocitare questa autonoma fonte conoscitiva da un cristomonismo e da un ecclesiomonismo da esso dedotto fa parte della tradizione del diritto naturale. Ciò è fino ad oggi riconoscibile nella dottrina sociale cattolica, anche se lì non diviene oggetto di una riflessione profonda. La conoscenza eticamente rilevante non dovrebbe quindi entrare in azione innanzitutto come una conoscenza ufficialmente “battezzata”. Da qui scaturirono nuove rilevanze per la gnoseologia morale nel contesto teologico: il riferimento alle scienze umane e sociali (in Francia particolarmente accentuato), ma anche nuovi sforzi per il dibattito filosofico, sia in seguito alla recente ricezione di Kant, sia in seguito al dibattito sulla giustizia sviluppatosi attorno a John Rawls.

Il terreno qui guadagnato, in primo luogo anche nel dibattito sociale secolare (per esempio in Germania), presentò però anche il conto delle perdite. Da una parte, la teologia della liberazione e le teologie politiche hanno fondato spesso cristologicamente soprattutto i loro approcci eticamente rilevanti e hanno così evitato l’autonomia di un “ethos mondiale” (mundial ethic nel senso di Alfons Auer) in base al diritto naturale e alla teologia della creazione; dall’altra il religious turn ha rivolto lo sguardo piuttosto alla forza (a)morale delle religioni e di un possibile consenso sull’“ethos mondiale” (global ethic nel senso di Hans Küng) e, da un’altra parte ancora, il mondo scientifico, politico e mediale in Europa, fluttuante tra il secolarismo e il laicismo, si è interessato sempre meno ad un’etica motivata teologicamente, che tuttavia argomentava filosoficamente. Situata tra queste “cattedre” la «morale autonoma nel contesto cristiano», anche se a livello accademico si impose sempre più, nonostante intralci magisteriali, non da ultimo sulla base delle sue differenziazioni, ha potuto guadagnare terreno sociale solo allorquando i suoi rappresentanti seppero procurarsi ascolto con competenza etica pratica, indipendentemente dalla loro fede.

Di tutto questo in realtà non è stata causa e non è responsabile HV, ma alcune o perfino molte cose senza questa enciclica avrebbero preso un’altra piega negli sviluppi successivi. Di questo parere fu anche il cardinale di Vienna Christoph von Schönborn, quando nel discorso in occasione del pensionamento del teologo morale viennese Gunter Virt, il 16 marzo 2007, alludendo alla fissazione (e anche al processo di fissazione) della teologia morale su questo punto, la definì «infelice». Io deploro, tra l’altro, in particolare l’autofissazione del magistero, nella quale la proibizione di metodi artificiali di contraccezione agì spesso come il cappello di Gessler per Guglielmo Tell *.

Secondo Christoph von Schönborn questo conflitto impedì una piena ricezione del concilio Vaticano II. Lo sguardo è stato diretto, come se fosse ammaliato, sull’“autonomia” delineata in Gaudium et spes, mentre anche altri documenti conciliari (sulla rivelazione e sulla chiesa) avrebbero però potuto fornire basi alla teologia morale. Penso che questo bilancio non riguarda gli scritti della teologia morale, ma piuttosto la ricezione e l’ampiezza di influsso di questi scritti.

Certamente sta anche al magistero disinnescare il conflitto. Un ponte potrebbe essere la tolleranza del preservativo nella lotta contro l’AIDS. Un altro ponte, il ritorno alla dissertazione dogmatica per il dottorato, del 1971, presentata dal cardinale Levada, attualmente al vertice della Congregazione per la dottrina della fede, nella quale viene contestata la possibilità di una infallibilità in questioni concrete di diritto naturale. Costituirebbe un terzo ponte il rafforzamento della dottrina della coscienza e un quarto ponte sarebbe l’inclusione chiaramente visibile di convinzioni cristianamente vissute nei témoignages richiesti. Ciò a Roma è stato finora decisamente trascurato. Ci sono qui molti ponti per uno che è chiamato costruttore di ponti, per un pontifex maximus. Molti di questi ponti sono stati proposti nella discussione della enciclica Veritatis splendor.

Su questo un breve racconto: nell’anno 1989, dopo che in tutto il mondo teologi e teologhe, in seguito alla Dichiarazione di Colonia, avevano protestato anche a causa dei problemi tra magistero e teologia morale, io e altri abbiamo avuto l’occasione di discutere con ottanta preti polacchi riuniti a Kattowitz sulla norma della contraccezione. Io li invitai a confrontarsi con il caso di un prelato romano che, in una situazione estrema, nel corso di un colloquio in confessione, aveva permesso la pillola. (Il “caso estremo” era caratterizzato dai seguenti fattori: tre bambini erano già nati, la prossima gravidanza minacciava la salute, il metodo naturale legato ai cicli naturali non era praticabile). I preti, però, non erano interessati a concessione o rifiuto nel singolo caso, e per nulla affatto a questa interpretazione del potere del confessore: essi volevano tutti una regola generale.

Così vengo al mio punto di vista: la commissione per l’AIDS, insediata dal papa per l’esame della dottrina della chiesa, dovrebbe ampliare il proprio compito (su questo, vedi sotto). Oppure le nuove sfide dell’impiego di embrioni dovrebbero far prendere coscienza dove va tirata la linea di confine: la conservazione della vita umana generata. È una situazione schizofrenica che questa linea venga dalla chiesa difesa sotto l’influenza politica (per esempio in Italia), ma i teologi e le teologhe morali, molto dietro questa linea, vengano poi dalla chiesa attaccati.

Quarant’anni di mancata ricezione di una proibizione che entrava molto in dettaglio dovrebbero bastare per prendere in considerazione una revisione. Si può senz’altro salvare ciò che, tra l’altro, alcuni teologi della liberazione hanno chiamato l’«elemento profetico» in HV: il totale (e non soltanto parziale) dominio della ragione pianificante nella relazione d’amore e la crescente tecnologizzazione della riproduzione.

Si può naturalmente anche pensare che HV, alla fin fine, assomiglia a un’isola sui cui scogli si sono infranti onde e battelli coraggiosi che volevano costruire questa isola in modo diverso, ma ora le si naviga intorno secondo i soliti schemi. Ciò che non ci tocca più, viene dimenticato. Da parte di cristiani e cristiane giovani, teologhe incluse, l’agitazione si è calmata. HV non riguarda più esistenzialmente né loro e neppure il loro comportamento. Con ciò non cessa di essere oggetto di ulteriori considerazioni teologico-morali, ma la cerchia degli ascoltatori diventa sempre più piccola.

Dal punto di vista teologico-morale occorre però ben ammettere che una morale razionale filosoficamente fondata oggi mostra de facto limiti che essa de jure non dovrebbe necessariamente avere, se non si imponesse, proprio nell’etica stessa, la rinuncia a questioni continue sul senso della nostra esistenza. La morale filosofica, nel suo confronto sulla giustizia e sui diritti umani, ha prodotto molti giardini e fiori, ma anche alcuni scarti. Si usa però separare questa “filosofia politica” dalla “filosofia morale”. Quest’ultima forma meandri con molte ramificazioni di fiumi che sfociano per lo più in un grande mare di indifferenza secolare e pluralistica. Le grandi questioni circa la contingenza dell’uomo, sulla colpa e il dolore qui vengono meno. Esse non fanno parte del terreno, secolarmente delimitato, della verifica della giustezza analitica nei laboratori del pensiero, che con la realtà hanno poco a che fare, e tantomeno con le questioni circa il senso della vita e la felicità donata senza averne merito. La morale filosofica si presenta spesso come liberale, ma “spietata”. I filosofi popolari, i letterati e gli esoterici gestiscono questo deficit a modo loro. Ma questi, a loro volta, non coltivano il campo della responsabilità morale, da parte loro lo lasciano incolto. L’etica teologica ha un’opportunità a motivo della sua antropologia più completa.

Il magistero cattolico vuole spesso ammettere la ragione soltanto se “battezzata” ed emana perciò prescrizioni su chi, come e quando può “battezzare”. Naturalmente la teologia è in un certo senso anche “ragione battezzata”. Con la morale, però, le cose stanno come con il battesimo, il quale può essere amministrato da tutti i cristiani e le cristiane. La ragione è, dal punto di vista teologico, una «liberata della creazione», una ragione in cammino e soggetta ad errore, ma, soprattutto come ragione riflettente in senso moderno, è al tempo stesso una ragione autocritica – non esiste ragione senza «critica della ragione». Questa ragione critica, sostenuta da esperienza articolata in molte discipline, va errando anche nella chiesa, dentro e fuori. I coinquilini possono stringere con lei amicizia e contare sul suo aiuto – essa non si lascia schiavizzare senza pervertirsi. Chi ha paura della sua libertà non può fare teologia perché smarrisce il lógos. Ma si illude anche chi spera tutto dalla sua libertà. In questo, a mio parere, i teologi della liberazione hanno ragione: La situazione di non-libertà, contraria alla storia della salvezza, raggiunge anche la ragione e chiama alla sua liberazione. Grandi temi filosofici e grandi temi morali nella storia si devono spesso a impulsi teologici, non esclusivamente, ma tuttavia spesso impulsi buoni.

Molte cose che riguardano l’umano illuminato ha radici cristologiche, soprattutto nella fede nell’incarnazione, nella presenza cristologica nei poveri, nella rinuncia alla violenza e perciò nel cambiare modo di esercitare il potere. Questa concezione va però distinta da un cristomonismo normativo. Si può mostrare agli uomini che Cristo non è eteronomo, se egli determina l’identità religiosa dei cristiani dall’interno. E ancor meno della ragione, che fa saltare i laboratori filosofici, Cristo non appartiene esclusivamente al sistema dottrinale allestito dalla chiesa.

Così, uno sguardo ai quarant’anni di HV conduce a molteplici questioni della teologia (morale) odierna.

Ma anche a questioni molto concrete. Perciò occorre ricordare ancora una volta l’evidente risultato morale: preservativo nel caso di AIDS e chiara protezione della vita procreata!


* [Secondo la leggenda, Guglielmo Tell si rifiutò di inchinarsi davanti al cappello che il duca Gessler aveva fatto issare su un alto palo al centro della piazza di Altdorf, perché tutti coloro che passavano di lì gli rendessero omaggio (N.d.T.)].


Dietmar Mieth, è docente di etica teologica nella Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Tubinga, Germania. Presso la Queriniana ha pubblicato: Che cosa vogliamo potere? Etica nell’epoca della biotecnica; – La dittatura dei geni. La biotecnica tra fattibilità e dignità umana ; – Scuola di etica.


© 2008 by Teologi@Internet
© 2008 by Concilium. Rivista internazionale di teologia 1/2008
traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini