07/12/2001
4. L’elefante cattolico Per una Chiesa della compassione per chi soffre Intervista a Johann Baptist Metz
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Johann Baptist Metz è uno dei teologi cattolici più noti internazionalmente. Discepolo di Karl Rahner, è andato oltre la teologia antropologico-trascendentale del suo maestro e ha proposto la nuova teologia politica, e cioè una riflessione teologica attenta alla dimensione pubblica, sociale e pratica del cristianesimo.
In questa intervista il teologo di Münster assume la categoria della compassione come più originaria nella caratterizzazione del messaggio e della pratica cristiana. Nella celebre prolusione viennese (inserita in Cammino e visione, Queriniana 1996) aveva scritto: «Il cristianesimo si è trasformato da una morale della sofferenza in una morale del peccato. Un cristianesimo sensibile al dolore è diventato un cristianesimo sensibile – in misura troppo esclusiva – al peccato. L’attenzione prioritaria è stata prestata non alla sofferenza della creatura, bensì alla sua colpa. L’annuncio cristiano è diventato soprattutto una euristica dei sentimenti di colpa e della paura di peccare. Questo ha paralizzato la sensibilità del cristianesimo per la sofferenza dei giusti e ha offuscato la visione biblica della grande giustizia di Dio».
Questa analisi e questo giro di pensieri è ora assunto sotto la categoria di compassione.



Michael Jacquemain: Professor Metz, come percepisce Lei la chiesa oggi?
J.B. Metz: Oggi non è, in ogni caso, il tempo di un nuovo grande concilio, non è il tempo di un’apertura sinodale come 25 anni fa. Oggi è tempo di pausa per i grandi eventi. I malintesi da una parte e le delusioni dall’altra si accumulano. Le crisi, così sembra, sono sempre più ricorrenti. Non si tratta più di trovare vie “d’uscita” dalla crisi, bensì vie dentro la crisi.

– Come potrebbero essere queste vie?
Metz: Non conosco alcuna risposta passabile. Ho però un’immagine, una metafora a me familiare da tempo: è la metafora dell’elefante, dell’elefante cattolico, che ha pur sempre già attraversato pesantemente molte soglie epocali, anche se alquanto faticosamente. Mi lasci chiarire un poco questa metafora, applicandola alla nostra situazione. La chiesa cattolica, con un miliardo di cattolici sparsi per le chiese del mondo, è pur sempre così grande e grossa come un elefante, dotata di una memoria da elefante nella quale, cosa difficile altrove, sono conservate storia del mondo e storia dello spirito, storia delle civiltà e storia delle religioni, aspetti liberanti e aspetti pesanti, luci e tenebre. La chiesa cattolica, insensibile e testarda come un elefante, e questo ormai assolutamente in una duplice prospettiva: insensibile in primo luogo nei confronti delle seduzioni e delle suggestioni del cosiddetto spirito del tempo, una specie di produttiva inattualità. In secondo luogo, però, insensibile anche e sempre più verso quelli che stanno seduti in alto e indicano la strada agli elefanti.

– Quali strade dovrebbe dunque percorrere l’elefante?
Metz: Nella chiesa cattolica in realtà molte cose cambiano, ma appunto piuttosto senza forma, per così dire in modo passivo, sotto la spinta anonima di condizioni indefinite, indeterminate. Occorre il cambiamento che abbia una sua forma, in questo senso l’autentica riforma. Altrimenti si profila un pericolo per il cristianesimo di chiesa. Un pericolo invero che può sembrare non drammatico, che però, a mio avviso, possiede una forza elementare. Si giungerà allora ad un consolidamento della cosiddetta chiesa-di-servizi borghese, ad una stabilizzazione di quella chiesa di servizi che nei nostri sogni sulla chiesa già una volta abbiamo creduto alle nostre spalle. Le uscite dalla chiesa presumibilmente continueranno a diminuire, ma l’indifferenza dentro la chiesa continuerà invece ad aumentare. In un mondo confuso e complicato aumentano sempre più i bisogni che fanno da cornice alla vita. Quale rappresentante di un ambito di vita la chiesa, perciò, troverà in questo mondo attenzione anche in futuro. Ma che ne è delle sue opportunità in quanto rappresentante di una possibilità di dar forma alla vita? Mi permetta allora di ricorrere ancora una volta alla metafora dell’elefante per mettermi in ricerca della proverbiale sensibilità di questo bestione: ci interroghiamo sull’ “anima sensibile” dell’elefante cattolico, della quale potrebbe alimentarsi la forza dell’orientamento.

– Quale potrebbe essere la bussola per questo orientamento?
Metz: Questa anima sensibile dell’elefante sarebbe, ai miei occhi, una chiesa della compassione, una chiesa della assunzione partecipante del dolore altrui, una chiesa del coinvolgimento quale espressione della sua passione per Dio. Poichè il messaggio biblico su Dio è, nel suo nucleo, un messaggio sensibile alla sofferenza: sensibile al dolore altrui in definitiva fino al dolore dei nemici. Sottolineo molto questo perchè la chiesa, come il cristianesimo, ha avuto fin dall’inizio grandi difficoltà soprattutto con questa elementare sensibilità alla sofferenza, propria del messaggio biblico. La questione della giustizia per chi soffre innocente, questione che inquieta le tradizioni bibliche, fu infatti molto presto e molto velocemente, troppo velocemente, trasformata e riformulata come questione della redenzione dei colpevoli. La dottrina cristiana della redenzione ha drammatizzato troppo la questione della colpa e ha relativizzato troppo la questione della sofferenza. Il cristianesimo si è trasformato da religione primariamente sensibile alla sofferenza in una religione primariamente attenta alla colpa. Sembra che la chiesa abbia avuto sempre mano più leggera con i colpevoli che con le vittime innocenti.

– Sono ancora disponibili i cristiani, oggi soprattutto, a comprendere ciò che Lei intende con ‘compassione’?
Metz: Dapprima devo ammettere che non conosco alcuna parola tedesca che vada bene per indicare ciò che io intendo con percezione partecipante del dolore altrui. ‘Patire-con’ (Mitleid) suona in modo troppo non-politico, è parola sospettata di mascherare col sentimentalismo le dominanti sofferenze ingiuste e innocenti. Così mi sono deciso per ‘compassione’ (Compassion). Può essere che molti ritengano questo cristianesimo della compassione un vago romanticismo pastorale. Certo, questa compassione è una grande provocazione, proprio come tutto il cristianesimo, come la sequela, come Dio. Ma in definitiva il primo sguardo di Gesù non andava al peccato degli altri, bensì al dolore degli altri. Nel linguaggio di una religione borghese irrigidita in se stessa, che davanti a niente ha tanta paura quanto di fronte al proprio naufragio e che perciò continua a preferire l’uovo oggi alla gallina domani, questo è difficile da spiegare. Dobbiamo invece metterci sulle tracce di una durevole simpatia, impegnarci in una disponibilità coraggiosa a non eludere il dolore degli altri, in alleanze e progetti-base della compassione che si sottraggano all’attuale corrente della raffinata indifferenza e della coltivata apatia, e che rifiutino di vivere e celebrare felicità e amore esclusivamente come messe in scena narcisistiche di apparato. Mi sia permesso, infine, tornare ancora una volta brevemente all’immagine dell’elefante cattolico, a questo miliardo di cattolici. Se essi veramente, nei loro differenti mondi di vita, osassero questo esperimento della compassione e se alla fine si arrivasse ad un ecumenismo della compassione tra tutti i cristiani, non potrebbe questo gettare una nuova luce sul nostro mondo globalizzato e al tempo stesso così dolorosamente lacerato?

© 2001 by KNA, Katholische Nachrichten Agentur
Traduzione italiana dell'Editrice Queriniana, Brescia

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