1. Oggi, il “Dio in pubblico” tende a mostrare un’espressione piuttosto affranta. La sfera pubblica, così come è stata costituita nelle emergenti società pluraliste dell’Europa moderna, è stata sempre meno ospitale nei confronti della religione come fattore della vita pubblica, proprio perché il potere della chiesa doveva essere limitato e la pluralità di “confessioni” aveva un potenziale conflittuale che era meglio neutralizzare prima che potesse diventare virulento. Nella società civile, la sfera intermedia in cui gli individui, attraverso organizzazioni istituzionali o movimenti ad hoc, possono far conoscere le proprie istanze al governo e influenzare il policy-making, le religioni occupano una posizione più o meno uguale a quelli di altre entità pubbliche. Persino nei pochi casi rimasti in cui è presente una chiesa istituzionale, anch’essa è una voce tra le tante nel dibattito pubblico. In linea di principio, questo è il caso dell’India, con la sua costituzione laica, o dell’Indonesia, che si è rifiutata di fare dell’islam una religione di stato, benché in altre società islamiche come l’Iran o l’Arabia Saudita la situazione sia molto diversa.
Quello che dobbiamo ora prevedere è l’emergere di una società civile globale con una sfera pubblica molto più complessa rispetto alle democrazie secolar-liberali dell’Occidente. Come abbiamo già indicato, non ci sono ragioni per supporre che questo spazio globale sarà laico o ideologicamente neutrale, né che esso produrrà necessariamente una condotta etica da parte di stati, imprese e altri gruppi d’interesse. Raggiungere la “globalizzazione dell’etica” o una “globalizzazione etica” è un compito la cui enormità sta solo iniziando ad affacciarsi davanti a noi. La crisi ecologica causata dall’industrializzazione incontrollata e dallo sfruttamento di risorse è ora stata completata da una crisi economica di proporzioni globali, che può essere fatta risalire direttamente al vuoto etico presente nel cuore dei mercati finanziari mondiali. A rimarcare queste due cose vi è inoltre una crisi ecumenica in cui le norme e i valori effettivi che potrebbero aiutarci a fare i conti con l’ordinamento della vita sociale e politica sono stati screditati dal comportamento delle comunità religiose che ce li hanno trasmessi. Se le religioni non impareranno ad affrontare la sfida del pluralismo globale e dell’interrelazione costruttiva, ci troveremo di fronte alla prospettiva sconfortante di una pletora di fondamentalismi rigidi, incapaci di accogliere l’alterità e di inserirsi nella sfera pubblica se non per rafforzare le loro ossessioni e dare battaglia a tutti quelli che differiscono da loro. La grande rivendicazione che viene fatta è che le religioni, nella misura in cui riescono a instaurare relazioni empatiche l’una con l’altra, possono dare un contributo non soltanto morale ma anche politico per tenere lontana la minaccia del fondamentalismo, fornendo alle relazioni internazionali dei punti d’appoggio nei tentativi dell’umanità di fissare le basi di un comportamento civilizzato nel forum pubblico globale. Le religioni possono confrontarsi con la politica per questioni importanti, per esempio in merito ai presupposti normativi delle misure economiche e politiche su cui si basa il capitalismo globale. Infatti, affermando la dignità della persona umana, l’inviolabilità della natura e del bene comune, le religioni – nella loro forma migliore – indicano su questi problemi orientamenti valoriali storicamente radicati e comunitariamente testati. Tuttavia, questo potenziale si realizzerà soltanto se le religioni si adopereranno nel dialogo, sia tra di loro che con le concezioni laiche in fatto di senso proprie delle scienze naturali e sociali.
Questa è quella che noi chiamiamo l’“alternativa ecumenica” tanto all’estremismo religioso quanto alla tolleranza liberale, con la sua ideologia della neutralità. Essa implica che le religioni si impegnino reciprocamente su una base di mutuo riconoscimento, anziché affermare ognuna la propria rivendicazione a essere l’unica “salvifica” e “vera”. Quella che noi immaginiamo è più di un’etica di sopravvivenza a cui le religioni contribuirebbero sulle tracce dell’“etica globale” di Hans Küng, per quanto importante sia stata tale iniziativa. È necessario che le religioni si prodighino per superare il patriarcalismo e l’assolutismo che sono profondamente radicati in loro. Nel procedere verso questo obiettivo, l’eredità dell’Illuminismo occidentale e l’implementazione dei diritti umani in quanto espressione dell’inalienabile dignità dell’essere umano forniscono una base indispensabile, che le religioni possono convalidare a partire dalle loro stesse tradizioni. Tuttavia, il loro peculiare contributo consisterà nella visione di speranza che guida e ispira qualsiasi idealismo morale di questo tipo. Il punto chiave dell’ecumenismo è che nessuna religione può più pensare di poter raggiungere questo traguardo da sola. A prescindere dal fatto che il compito sia davvero estremamente ambizioso, il fatto stesso della presenza delle altre costringe ogni tradizione a esprimere le sue più profonde convinzioni all’interno di un dialogo, ossia in un processo di traduzione reciproca.
Qual è lo spazio delle religioni nella nascente società globale? L’attuale crisi della globalizzazione – o meglio, il sospetto che la globalizzazione sia la crisi – rende la domanda più urgente che mai. Dobbiamo trovare i modi per impegnarci reciprocamente, ognuno con il proprio retaggio spirituale ed etico, senza presumere che le altre tradizioni siano inferiori né considerarle al tempo stesso come una minaccia alla nostra integrità e unicità. Dobbiamo imparare a concepire l’universalità come interdipendenza, affinché l’universalismo a cui aspiriamo possa essere dialogico e intersoggettivo; il pluralismo al quale tendiamo deve essere interattivo anziché statico; dobbiamo inoltre accettare il fatto che il consenso al quale stiamo lavorando sarà multidimensionale e transculturale. Se le tradizioni religiose intendono civilizzare la globalizzazione e globalizzare l’etica, dobbiamo imparare a praticare un ecumenismo politico delle religioni.
Nel corso di una conferenza sui cristiani nelle rivoluzioni tecniche e sociali del nostro tempo, tenutasi a Ginevra nel 1966, il WCC (Consiglio mondiale delle chiese) affermò che le chiese possono «sperimentare per l’intera società». Ciò che noi ora prevediamo è che siano le religioni a sperimentare per l’intera società civile globale, rapportandosi l’una all’altra e affrontando i problemi comuni all’umanità sul nostro fragile pianeta. Si tratta di mero idealismo, o di realismo elementare? È nostra convinzione che questa sia in realtà l’unica via non-violenta per il futuro, verso un’etica universalizzabile che possa umanizzare la globalizzazione e fondarla nella natura.
2. Equivoci e ambiguità continuano a caratterizzare i dialoghi inter-religiosi e inter-confessionali. I ricordi di relazioni violente e basate sullo sfruttamento continuano a riecheggiare e non possono essere ignorati, anche quando cerchiamo di prefigurare modi diversi di relazionarsi. Chi di noi è erede dell’imperialismo cristiano si trova di fronte al difficile compito di continuare a testimoniare il vangelo, affrontando senza scorciatoie la violenza che tale testimonianza ha comportato. I modelli che abbiamo adottato in passato non sono più sufficienti, ma anche se inventiamo nuovi modelli, nuove metodologie e pratiche ermeneutiche, dobbiamo stare in guardia contro la costruzione di nuovi stereotipi e nuove mitologie. Né dobbiamo aspettarci troppo da questi processi discorsivi razionali: nonostante il loro potenziale, è improbabile che la ragione da sola possa far raggiungere il consenso su questi temi fondamentali. Infatti, alla fine potrebbe non essere la nostra capacità di adoperarci nel dibattito intellettuale, quanto piuttosto la nostra abilità nel vivere con immaginazione il mondo dell’altro ad assicurarci il tipo di cultura politica comune di cui abbiamo parlato. Inoltre, molto più dei politici e dei sacerdoti, potrebbero essere i poeti e gli artisti a riuscire a cogliere la trama delle sensibilità etiche in gioco e ad articolare, mediare e tradurre le molteplici risonanze dell’appartenenza religiosa.
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