25/01/2021
477. L'AVVINCENTE "TEOLOGIA DEBOLE" DI JOHN D. CAPUTO di Gennaro Diana
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Mentre attendiamo l’arrivo nelle librerie (dal 25 gennaio) del nuovo lavoro di John D. Caputo, La follia di Dio, vi proponiamo una rilettura critica del volume precedente, già pubblicato in «Giornale di teologia» (n. 382). Qui lo statunitense John D. Caputo ci ricorda che filosofia e teologia, chiamate a perlustrare all’incirca lo stesso (sconfinato) territorio, spessissimo sovrappongono le loro piste di riflessione, intrecciano i loro pensieri e comunicano reciprocamente i risultati raggiunti, dando vita a una collaborazione secolare. Da sempre teologi e filosofi – «tipi un po’ instabili» – si occupano esattamente di «cose supreme», degli interrogativi più profondi che ci agitano e incombono su di noi, trascinati in un’esplorazione dello spazio esterno e interno delle nostre vite. Proprio l’articolarsi di queste riflessioni di Caputo recensisce Gennaro Diana nel testo che segue.

 

 

Filosofia e teologia possono camminare mano nella mano? Il titolo del libro di John D. Caputo, Filosofia e teologia, trova nella congiunzione "e" la possibilità di un incontro felice di due cose che si appartengono, come nei matrimoni, ma è anche causa di sfida e di separazione davanti ai tribunali (cf. p. 5).

La Nota editoriale ci ricorda che siamo di fronte alla prima traduzione in italiano, dall'inglese-americano, di un filosofo di formazione cattolica tutt'ora vivente, consacrato negli Stati Uniti, e fatto sempre più conoscere in Europa come uno dei maggiori filosofi continentali della religione e come il rappresentante della cosiddetta "teologia debole" (weak theology), di cui è il fondatore. Studioso di Kierkegaard, Heidegger, Derrida, Caputo segue un approccio alla religione di tipo de-costruttivo, come si vede anche dalle "tesi" proposte nel volume, articolato in otto brevi e densi capitoli.

Proponendosi una sorta di sintesi tra il personalismo di sant'Agostino e l'agnosticismo ateo di Jacques Derrida, l'autore introduce alla relazione vitale che la filosofia e la teologia intrattengono nell'orizzonte della postmodernità, là dove inaspettatamente si aprirebbe un nuovo spazio di plausibilità per la fede e la teologia. Da un lato, «la tendenza al conflitto tra teologi e filosofi si è esacerbata nella modernità» (p. 27), nel corso della quale la ragione autonoma ha raggiunto la maggiore età; dall'altro lato, oggi, però, non si va più alla ricerca di una costellazione ignota, sperduta nell'immenso universo, ma si esplora meglio una terra già nota, affinché la ragione sia pienamente appagata. Caputo fa sua un'ermeneutica, che fu già illuministica, ma ne trae conseguenze nuove, fino a ipotizzare un superamento del processo di secolarizzazione, offrendo un'apertura teologica a ciò che è postsecolare.

Continuando il dualismo tra Agostino e Derrida – ecco la terza tesi del volume – sarebbe possibile tracciare in modo diverso la linea divisoria tra fede e ragione. Con la conseguenza che la differenza tra l’Ipponate e il filosofo non sarebbe quella tra un credente e un ateo, ma tra due tipi di fede: l'una determinata e inserita in una comunità, l'altra «indeterminata, assai più smarrita e inquieta, ma non per questo meno radicata e risoluta, forse perfino, alla sua maniera, una fede più pura, una fede nella fede stessa. Quello che vediamo trasparire in Agostino e Derrida non è una semplice opposizione tra fede e incredulità, tra speranza e disperazione, bensì due tipi di dispiegamento di quello che l'autore della Lettera agli Ebrei ha chiamato "fondamento (hypostasis) di ciò che si spera, prova di ciò che non si vede"» (Eb 11,1) (p. 111).

Teologia e filosofia sono, in questo eccentrico senso, delle alleate, sono il grido di una coscienza che si riconosce smarrita e, per questo, si mette di nuovo alla ricerca. Entrambe elevano al di sopra della "monotonia dell'indifferenza e della mediocrità", aprendoci a un amore che va al di là di noi stessi. Lo stesso linguaggio della fede acquista rispettabilità.

Tesi finale di Caputo è che filosofia e teologia sono modi diversi, ma comuni, di nutrire la passione della vita. La passione ci dà qualcosa di più grande da amare oltre noi stessi, ci spinge a superare il consumismo. Cosa amo quando amo il mio Dio? Amare Dio è tutto. È la passione per la vita che indirizza alla filosofia e alla teologia. Ferito dai dardi dell'amore, Agostino (Confessioni 1,1,1) descrive i tremori, la patologia cardiaca, la malattia di un cuore in pena, un cuore reso inquieto dalla ricerca di qualcosa che filosofia e teologia oggi non conoscono più. Unica strada è quella di andare avanti con fede, ma con una più radicale soggettivazione del teologico, colto "derridianamente" come messianismo puro.

Il libro, seppur eccentrico rispetto a testi sul medesimo tema, è avvincente e conciso, districandosi agilmente nelle grandi questioni.

 





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