12/06/2009
137. Jürgen Moltmann – una teologia amante della vita di Rosino Gibellini
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Firmata il giorno di Pasqua del 2006, in occasione del suo 80° compleanno, è uscita in questi mesi con il titolo Vasto spazio. Storia di una vita (Queriniana 2009), nella traduzione di Daria Dibitonto, l’autobiografia del teologo Jürgen Moltmann, noto in tutto il mondo come il teologo della speranza.


Nato in aperta campagna in un casolare rustico presso Amburgo, la grande città anseatica della Germania, nel 1926, ha fatto in tempo ad essere arruolato nella Wehrmacht a 17 anni, e a trascorrere dopo la guerra sul fronte olandese tre anni di internamento, 1945-1948, in campi di prigionia, come prigioniero di guerra (POW = Prisoner of War) degli inglesi, prima in Belgio, poi in Scozia, e successivamente nell’Inghilterra centrale, nel Norton Camp presso Mansfield nel Nottinghamshire.

Proveniente da una famiglia protestante laica, proprio dietro il filo spinato del campo di prigionia ha scoperto la fede in Cristo, leggendo i Salmi di lamentazione dell’Antico Testamento, in particolare il Salmo 39, e poi il vangelo di Marco, in particolare il racconto della passione (un cappellano del campo aveva distribuito ai prigionieri di guerra la Bibbia). Scrive nell’Autobiografia, in riferimento a questa esperienza di prigionia: «Ho ripreso il coraggio di vivere, e lentamente ma con sicurezza mi ha preso una grande esperienza di risurrezione nel “vasto spazio” di Dio» (40).

Ritornato dalla prigionia nel 1948 – «avevo passato più di cinque anni in caserme, campi, trincee e bunker, ma avevo vissuto qualcosa che avrebbe deciso della mia vita» (45) – opta per la teologia (invece che per matematica e fisica), che studia a Gottinga. Suoi docenti sono, tra gli altri, von Rad per l’Antico Testamento; Bornkamm per i Vangeli; Jeremias per il problema del Gesù storico; per le esercitazioni di omiletica Gogarten, che il giovane Moltmann trova «cinico» (53). Ma il suo maestro, che l’ha introdotto alla Dogmatica di Barth è stato Otto Weber, che del resto ha introdotto molti altri studenti alla grande opera barthiana con la sua Guida alla Dogmatica di Karl Barth, che lo stesso Barth definiva «mappa di orientamento e rimorchiatore di transatlantici» (come ricordo nel capitolo dedicato a Barth in La teologia del XX secolo, Queriniana 1992, 20076). Scrive Moltmann: «Dopo la venerazione di Barth, che avevo ricevuto a Göttingen [...] pensavo che dopo Barth non potesse più esistere altra teologia, perché lui aveva detto tutto e l’aveva fatto al meglio, esattamente come nel XIX secolo si diceva che dopo Hegel non poteva più esserci filosofia. Da questo errore mi ha liberato il teologo olandese Arnold van Ruler nel 1956» (59-60). E sarà proprio Moltmann, con Pannenberg, ad operare una svolta epocale nell’ambito della teologia evangelica, introducendo con grande respiro teoretico la categoria di “regno di Dio”. Gli studi a Gottinga si concludono con la laurea nel 1952. A Gottinga Jürgen incontra Elisabeth: «Lentamente la mia prigionia interiore, che avevo nascosto dietro al motto di Kierkegaard “disperato, e tuttavia fiducioso”, si dissolse e la mia anima tornò di nuovo a essere vasta e gioiosa. A fine febbraio 1950 ci siamo dati il nostro primo bacio, godendo l’uno dell’altra» (60).

Dopo la laurea in teologia a Gottinga (1953), seguono gli anni del pastorato, l’abilitazione all’insegnamento universitario (1956) con Jeremias, che era decano della facoltà di Gottinga, e la prima docenza alla Scuola superiore ecclesiastica di Wuppertal (1958-1964), cui seguiranno le università di Bonn e Tubinga. Decisivo è stato l’incontro con van Ruler: «Tornai alla teologia contemporanea nel 1956 [dopo l’abilitazione sulla storia della teologia riformata], grazie all’incontro con il teologo olandese Arnold van Ruler di Utrecht. Lo incontrai a una conferenza di teologi riformati nella Frisia orientale. Portava avanti una “teologia dell’apostolato”, una teologia dell’esodo e del regno di Dio. Iniziò la sua conferenza con la frase: “Sento il profumo di una rosa e sento il profumo del regno di Dio”. Non avevo mai sentito qualcosa del genere, nemmeno a Karl Barth avrebbe potuto venire in mente. Van Ruler mi convinse che Karl Barth non aveva detto tutto quel che la teologia aveva da dire a quel tempo, e nemmeno aveva detto così bene. Mi portò sulle tracce della speranza, rivolta in avanti, nell’escatologia del regno di Dio e della sua giustizia su questa terra» (80-81). Inizia il suo insegnamento a Wuppertal, dove ha come collega il giovane Pannenberg, con un corso sul tema del “regno di Dio”: «Mi lanciai sul “regno di Dio”, senza sapere che questo tema del futuro mi avrebbe tenuto con il fiato sospeso per una vita intera» (83).

Un altro incontro decisivo è con il filosofo Ernst Bloch, di cui legge con avidità nell’aprile 1960 la sua vasta opera Il principio speranza (1959), e con il quale resterà poi in lunga consuetudine di discussione e di dialogo: «Bloch è, dopo secoli, l’unico filosofo tedesco che cita la Bibbia in dettaglio e con perizia, e che si dimostra essere, a modo suo, un buon teologo della “religione dell’esodo e del regno”, come egli la chiama» (98). Il punto di divergenza tra il filosofo della speranza e il teologo della speranza è così puntualmente formulato: «Solo quando “la morte è inghiottita dalla vittoria” il “principio speranza” raggiunge il suo obiettivo» (100).

Dopo le prime tre sezioni (gioventù, tirocinio, inizi), la sezione quarta dell’autobiografia entra nel vivo della sua opera teologica: si sviluppa per circa 100 pagine (121-227) ed è dedicata alla pubblicazione e alle reazioni a quella che resta l’opera maggiore di Moltmann, Teologia della speranza. Sono pagine che appartengono non solo alla «storia di una vita», ma anche alla storia della teologia del XX secolo. Il libro esce nell’ottobre 1964 e ricordo di averlo intercettato alla sua uscita alla Buchmesse di Francoforte di quell’anno, pubblicato dal Christian Kaiser Verlag di Monaco di Baviera, l’editore di Bonhoeffer, e mi fu presentato dal direttore della Casa editrice Fritz Bissinger, che qui viene citato. L’opera sarà pubblicata in traduzione italiana, condotta sulla terza edizione tedesca (1965), aumentata di una importante Appendice, e inserita nella «Biblioteca di teologia contemporanea», nel 1970, in una puntuale traduzione del teologo valdese Aldo Comba. Ricorda Moltmann: «Il libro “esplose”, come si usa dire» (124) in Germania e negli Stati Uniti; «Era un gran periodo» (174); «Con la Teologia della speranza era mia intenzione restituire alla cristianità la sua speranza autentica per il mondo. Così ho accolto criticamente le speranze in un “mondo senza Dio” raccolte da Ernst Bloch, per metterle in relazione con il “Dio della speranza” (Rm 15,13) della tradizione ebraica e cristiana» (127-128).

La sezione quinta (181-227) ricostruisce e narra «gli irrequieti anni dal 1968 al 1972 a Tubinga sotto l’insegna della teologia politica» (183). Qui Moltmann fa una interessante puntualizzazione sul collega cattolico Joseph Ratzinger. Aveva scritto Ratzinger in La mia vita (1998): «Quasi contemporaneamente al mio arrivo, nella facoltà evangelica di teologia fu chiamato Jürgen Moltmann, che nel suo affascinante libro Teologia della speranza ripensava completamente la teologia a partire da Bloch», e notava il passaggio culturale nelle università da una atmosfera esistenzialistica (Heidegger / Bultmann) ad un clima turbolento di stampo rivoluzionario-marxista, anche per la presenza di Bloch. Puntualizza Moltmann: «Ratzinger non capì che allora con Bloch e me non era l’idea marxista, ma la speranza messianica a diventare l’alternativa anti-esistenzialistica» (200-201). Sono gli anni, in cui si affermano in campo internazionale i «teologi della speranza»: Moltmann, Pannenberg e Metz, chiamati anche gli Hope-boys (208).

A Teologia della speranza (1964) segue nel 1972 Il Dio crocifisso (arrivato prontamente in edizione italiana nel 1973 nella traduzione del teologo friulano don Dino Pezzetta, che ha tradotto per l’Editrice Queriniana quasi tutta l’opera di Moltmann). Il libro svolge una teologia della croce, cui è dedicata la parte sesta. Nella testimonianza del teologo anglicano Richard Bauckmann, citato (231): «È un libro appassionato, scritto per così dire “con il cuore e il sangue”, come Moltmann ha detto in seguito». È una teologia della croce, che svolge il tema della sofferenza di Dio, che ha suscitato una grande disputa. Confessa Moltmann: «Più importanti per me sono le dimensioni di conforto offerte da questa teologia della croce. “Solo il Dio sofferente può aiutare”, scriveva Dietrich Bonhoeffer nella sua cella di prigione, e con ciò intendeva il Cristo crocifisso. La sua croce sta tra le croci delle vittime dell’ingiustizia e della violenza come segno del fatto che Dio stesso partecipa al nostro dolore, lo rende parte del propri e condivide la nostra preoccupazione» (240). La tesi è stata discussa e criticata da Rahner, Metz, Küng, in modo violento da Dorothee Sölle, ma ha trovato anche consensi: «Ricevetti molto presto un vigoroso appoggio da parte della teologia anglicana. [...] Trovai consenso tra le file della teologia della liberazione in Jon Sobrino e Leonardo Boff e tra quelle della teologia minjung di Ahn Byung-Mu, ma con mia sorpresa anche in Romania da parte del saggio professore di teologia ortodossa e spiritualità Dumitru Stăniloae, che riteneva il dolore di Dio incluso nel concetto di Dio misericordioso. Con Hans Urs von Balthasar legai così a fondo che la sua teologia della croce fu definita “un pendant cattolico della riflessione di Moltmann” (U. Ruh)» (246).

La fase della teologia della speranza (1964-1975) si conclude con la terza opera La Chiesa nella forza dello Spirito del 1975, che non ha l’organicità delle due grandi opere precedenti: «Il libro sulla chiesa affronta una serie di temi e non solo un tema centrale come fanno Teologia della speranza o Il Dio crocifisso» (251). Non mancano nel libro riflessioni e proposte innovative, come quella, già avanzata (203), che destina la celebrazione della Santa Cena a tutti e alla quale sono invitati gli umili e gli oppressi, mentre il battesimo dovrebbe essere riservato ai credenti. La proposta ha suscitato una dura critica da parte cattolica (Kasper; ricostruisco la disputa in La teologia di Jürgen Moltmann, Queriniana 1975). Ora Moltmann confessa: «Forse però questa proposta non era particolarmente saggia» (251).

Nella parte settima (345-425) Moltmann continua il suo racconto, concentrandosi in particolare sugli ultimi 15 anni della sua docenza a Tubinga, dal 1980 al 1994, in cui realizza una serie di Contributi sistematici di teologia in sei volumi, che non si presentano come una “teologia sistematica”, ma come una teologia dialogica e processuale, ma che non rinuncia a «proposte proprie» (348) come «teologia in cammino per le strade del mondo e nel tempo» (348-349). Questo modo di far teologia «in termini di reti e di relazioni» (356) va sotto il nome, coniato da Pannenberg (356) di «nuovo pensiero trinitario». In questo itinerario spiccano due opere, Dio nella creazione, che deriva dalle Gifford Lectures a Edimburgo nel 1985, e dove svolge una teologia ecologica della creazione; e Lo Spirito della vita del 1991, dove svolge una pneumatologia integrale, «dal quale sono scaturiti un nuovo amore per la vita, una cultura della vita e, non da ultimo, una nuova spiritualità dei sensi, del corpo e della terra» (358).

E così, il percorso della teologia di Jürgen Moltmann, parte da una teologia della speranza per dilatarsi in una teologia della vita, che trova espressione anche nella preghiera, con cui si conchiude l’Autobiografia, che nel titolo del libro si ispira al Salmo 31,9: «Hai guidato i miei passi nel vasto spazio».


Si domanda il teologo:

«Che cosa amo quando amo Dio?

Una sera lessi nelle Confessioni di Agostino, libro X, 6, 8:

«Ma cosa amo quando amo te? Non la bellezza di un corpo, né le attrazioni della vita, né lo splendore della luce, amica di questi miei occhi, non le dolci melodie di un’infinita varietà di canti, né l’odore soave di fiori, unguenti e aromi; non la manna e il miele, né le membra gradevoli agli amplessi della carne: non è questo che amo quando amo il mio Dio. Esiste però una certa luce e una certa voce, un certo profumo e un certo cibo e un certo amplesso che amo quando amo il mio Dio: la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove la mia anima è inondata dalla luce che lo spazio non contiene, dove c’è una musica che il tempo non afferra, dove c’è un profumo che il vento non disperde, dove c’è un sapore che la voracità non estingue, dove c’è un’unione che la sazietà non allenta. Questo io amo quando amo il mio Dio».


E quella notte gli risposi:

Quando amo Dio amo la bellezza dei corpi, il ritmo dei movimenti, lo splendore degli occhi, gli abbracci, i sentimenti, i profumi, i toni di questa colorata creazione. Tutto vorrei abbracciare, quando amo te, mio Dio, perché ti amo con tutti i miei sensi nelle creature del tuo amore. Tu mi attendi in tutte le cose che io incontro.
A lungo ti ho cercato dentro di me, mi sono nascosto nel guscio della mia anima e mi sono difeso con la corazza dell’inavvicinabilità; ma tu eri fuori di me e mi hai attratto dalla ristrettezza del mio cuore nel vasto spazio dell’amore per la vita. Così sono uscito da me stesso, ho trovato la mia anima nei miei sensi e ho scoperto quel che più mi appartiene negli altri.


L’esperienza di Dio approfondisce le esperienze della vita e non le riduce, perché risveglia la forza di dire incondizionatamente sì alla vita. Più amo Dio, più sono felice di esistere; più esisto pienamente e direttamente, più percepisco il Dio vivente, la fonte inesauribile della vita e la vitalità eterna» (422-423).




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