Nel preparare per la stampa su Parole di Vita 6/2024 questo articolo del prof. Pitta, mai avremmo immaginato di pubblicarlo senza di lui.
Mons. Antonio Pitta, fine interprete del pensiero paolino di fama internazionale, pro-rettore e docente di Nuovo Testamento della Pontificia Università Lateranense, attuale presidente dell’Associazione Biblica Italiana nonché grande sostenitore del lavoro della nostra redazione e amico personale di tanti di noi, è tornato alla casa del Padre lo scorso 1 ottobre dopo una fulminante malattia. Restiamo in comunione con lui e con il suo intelligente insegnamento, certi, come ancora ribadiva in queste pagine con le parole del suo interlocutore prediletto, che «Cristo è la nostra speranza» (1 Tm 1,1) e che il «grado zero dell’evangelo» è racchiuso nel paradosso della croce, parola potente di salvezza per ogni essere umano.
– La Redazione e l’Editore di Parole di Vita.
Il profeta Isaia svolge un ruolo di grande rilievo per Paolo di Tarso, soprattutto nelle sue quattro grandi lettere (1-2 Corinzi, Galati e Romani). Di fatto, Isaia è il profeta più chiamato in causa per nome da Paolo, che lo menziona in Rm 9,27.29; 10,16.20; 15,12 a motivo delle citazioni dirette ivi presenti. Se il ventaglio dei riferimenti si estende, si possono calcolare nelle lettere di Paolo circa quaranta richiami al profeta, tra citazioni dirette, indirette, echi e allusioni. Ci soffermeremo qui in particolare sull’importanza di Isaia nella Lettera ai Romani focalizzando l’attenzione su tre questioni capitali: la messianicità di Gesù, la salvezza d’Israele e la missione verso i gentili.
La messianicità di Gesù
La Lettera ai Romani inizia con il Figlio di Dio «nato dal seme di Davide» (Rm 1,3) e termina con la promessa di Is 11,10 in Rm 15,12: «Di nuovo Isaia dice: “Sarà la radice di Iesse e colui che sorgerà per governare le genti, in lui spereranno le genti”». Qual è il senso dell’espressione «nato dal seme di Davide»? Si tratta di un semplice dato storico sull’origine giudaica di Gesù? Oppure il frammento veicola contenuti decisivi per la salvezza di chi crede in Cristo?
Anzitutto Gesù di Nàzaret è nato dal seme di Davide e appartiene alla radice di Iesse e non ad altri popoli. I contributi della Terza Ricerca del Gesù storicostanno ben evidenziando la sua nascita e l’appartenenza al popolo ebraico. Qual è dunque la relazione tra l’origine giudaica di Gesù e l’umanità intera?
A prima vista le due prospettive sembrano conflittuali e, per secoli, Gesù è stato ritratto come un filantropo senza radicamento storico. In realtà i due orizzonti del particolarismo (origine giudaica di Gesù) e dell’universalità della salvezza (costituito o intronizzato come Figlio di Dio dalla risurrezione dei morti) sono interdipendenti. Gesù era già Figlio di Dio (Rm 1,2), ma doveva essere «costituito» come tale con la risurrezione, passando per la sua umanità. L’umanità giudaica di Gesù non è un semplice dato storico, ma è la via obbligata senza cui la salvezza del genere umano rischia di smarrire la sua storicità e d’ignorare gli eventi che la scandiscono. In questione è non soltanto l’incarnazione di Gesù, ma la sua condizione «secondo la carne» o la sua umanità, fino alla morte di croce (cfr. Fil 2,6-8).
La citazione di Is 11,10 in Rm 15,12 serve a confermare, con l’autorità della Scrittura, l’universalità della salvezza che passa per la particolarità della vicenda storica di Gesù. Approdo dell’umanità di Gesù è la sua signoria universale per tutte le genti che porranno la speranza in lui. La speranza a cui accenna l’oracolo di Is 11,10 in Rm 15,12 è fondata sull’evento della salvezza realizzato in/per mezzo di Cristo. Poiché «nella speranza siamo stati salvati» (Rm 8,24), non è la speranza umana che attende la salvezza, bensì il contrario. La salvezza compiuta con la morte e risurrezione di Cristo è evento realizzato che apre alla speranza per il popolo giudaico e per tutte le genti, senza distinzione.
Pertanto, l’origine giudaica di Gesù è la via obbligata perché la salvezza raggiunga l’intera umanità. Quanto più si approfondisce l’umanità di Gesù (dalla nascita alla sua morte di croce), tanto più la salvezza e la speranza si riconoscono come eventi e non come desideri o illusioni. «Cristo è la nostra speranza» (1 Tm 1,1) poiché in lui qualsiasi speranza umana trova la fonte e la ragion d’essere.
La salvezza d’Israele
Uno dei capitoli più complessi del pensiero di Paolo riguarda la salvezza del popolo giudaico. La salvezza d’Israele passa per la fede in Cristo o segue un percorso autonomo e parallelo rispetto a quello dei credenti in Cristo? Con la seconda opportunità, è possibile una salvezza alternativa anche per coloro che non credono in Cristo e non appartengono al popolo ebraico? Lasciamoci guidare dalle due citazioni di Is 59,20-21 e di Is 27,9a poste in sequenza in Rm 11,26-27:
Così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Da Sion verrà il liberatore, rimuoverà le empietà di Giacobbe. Questa sarà la mia alleanza con loro, quando condonerò i loro peccati».
I due passi di Isaia sono di nuovo tratti dalla versione greca del libro, ma c’è un dettaglio che s’impone. Mentre secondo l’originale ebraico l’inizio di Is 59,20 profetizza che «per Sion verrà il liberatore» e nella versione greca si dice che «a causa di Sion verrà il liberatore…» (LXX), il passo di Rm 11,26 sostiene che «da Sion verrà il liberatore». Il dettaglio non è secondario e, a nostro parere, deve intendersi come intenzionale. Per sostenere che tutto Israele sarà salvato quando entreranno tutti i gentili, Paolo asserisce che «da Sion verrà il liberatore». Il liberatore in questione è Gesù Cristo (cfr. Rm 7,25), ma non verrà a causa né per né tanto meno contro Sion, come se si trattasse di un liberatore che prescinda da Sion, bensì da Sion, la dimora eletta del Signore.
Di nuovo un passo di Isaia permette di affrontare e chiarire il radicamento storico della salvezza universale partendo da Israele e non a prescindere da esso. In pratica, poiché Gesù è nato da Israele, dal suo centro religioso, egli è venuto e verrà per la salvezza non soltanto di quanti credono in lui, ma anche per la maggioranza d’Israele che non ha creduto in Gesù Cristo. Se da una parte la fede in Cristo è condizione permanente per la salvezza (cfr. Rm 10,9), dall’altra la sua azione liberatrice per la salvezza d’Israele è fondata sulla sua appartenenza a Israele.
La missione presso i gentili
Qual è il rapporto tra Israele e i gentili? E perché Paolo ha fatto della predicazione ai gentili il cuore della sua missione? Is 52 svolge un ruolo centrale nella missione dell’apostolo e, non a caso, è ripreso a proposito della catena dell’evangelizzazione.
Forse non c’è paragrafo più importante di Is 52,7-15 nelle lettere di Paolo. Anzitutto l’evangelizzazione dei gentili è nuova nel prospetto del giudaismo da cui Paolo proviene. Coloro che erano considerati «peccatori» (Gal 2,15) dal versante semplicemente etnico, a cui era precluso l’ingresso nel tempio di Gerusalemme, diventano destinatari della predicazione di Paolo. Sostenuto dal profeta Isaia, Paolo è convinto che l’evangelo della salvezza non riguardi soltanto Israele, ma si estenda a tutte le nazioni, con un impeto insopprimibile: «Guai a me se non evangelizzassi» (1 Cor 9,16). Le parole di Paolo esprimono l’urgenza della sua missione per l’evangelo, sino a farsi tutto a tutti pur di salvare a ogni costo qualcuno (cfr. 1 Cor 9,22). E tale missione senza confini non è stata scelta da lui contro Israele, ma per salvare «qualcuno di loro» o del suo popolo (Rm 11,14). La salvezza contenuta nell’evangelo non è esclusiva ma inclusiva perché l’elezione di una parte dell’umanità è funzionale a quella dell’intera umanità. Dio non salva alcuni per condannare altri né elegge alcuni per escludere altri. Piuttosto, coloro che Dio ha preconosciuto li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito di molto fratelli (cfr. Rm 8,29-30). Contro qualsiasi prospettiva per una doppia predestinazione al bene e al male, l’unica predestinazione concepibile è che tutti diventino conformi all’immagine del Figlio di Dio: dalla preconoscenza alla santificazione.
Ancora una volta, Isaia è il profeta a cui Paolo si è ispirato per annunciare la salvezza a tutte le genti, senza escludere alcuno. Se negli Atti degli apostoli Luca sceglie Paolo come testimone del Risorto sino agli estremi confini della terra (At 1,8; 28,30-31) è perché la missione per l’evangelo non ha conosciuto barriere tra giudei e gentili, schiavi e liberi, maschi e femmine (cfr. Gal 3,28).
Conclusione
Spesso Paolo è letto con i pregiudizi dell’integralismo e di una morale passata di moda per le donne e gli uomini del nostro tempo. Al contrario, ispirato da Isaia, Paolo evidenzia come l’evangelo sia bello e buono quando diventa veicolo di salvezza per chiunque creda e non soltanto per una parte del genere umano.
A scanso di qualsiasi forma elitaria dell’evangelo, di chi preferisce alcuni escludendo altri, l’umanità di Cristo fino alla morte di croce è il grado zero dell’evangelo che può dire e dare molto a ogni persona, compresi coloro che sembrano, a prima vista, esclusi. I «piedi di coloro che annunciano cose buone» previsti da Isaia sono quelli di ogni missionario che, sospinto dallo Spirito, diventa testimone del Risorto.
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