Il 17 febbraio 1600 moriva a Roma il pensatore Giordano Bruno. Giudicato dagli uomini del suo tempo come un eretico, appare oggi – in questa bella ricostruzione della sua vita e del suo pensiero, firmata da Jürgen Moltmann – quasi come un profeta, un antesignano del ‘paradigma’ post-moderno e pan-en-teista, quasi un annunciatore precoce di una nuova visione del mondo post-cristiana.
La rivoluzione del cielo
In Europa il modo di pensare e di vivere restò condizionato dalla visione aristotelico-tolemaica del mondo fino al 1543, cioè fino a quando si rimase convinti che le sfere celesti ruotassero attorno alla terra, centro immobile dell’universo, e che dietro la sfera delle stelle fisse si estendesse quella del primum mobile, motore immoto dell’universo.
Il 1543 è l’anno in cui viene alla luce l’opera di Copernico De revolutionibus orbium coelestium, dove in base a nuovi computi matematici effettuati sulle orbite astrali si metteva in questione la visione geocentrica del mondo. Fu però Giordano Bruno a capire per primo – ed a trarne le conseguenze in campo cosmologico – la portata della scoperta copernicana. Fu lui a «portare la rivoluzione nel cielo». Egli non si limitò ad opporre la visione eliocentrica del mondo alla vecchia prospettiva geocentrica, ma superò ogni centrismo e coraggiosamente propose l’infinitudine stessa dell’universo e la relatività del suo centro e dei suoi confini: «L’universo non ha né centro né circonferenze, ma, se vuoi, in tutto v’è un centro e ciascun punto può essere considerato centro di una qualche circonferenza» (De l’infinito, 5,2).
L’universo non si struttura come la cipolla con i suoi tegumenti, ma tutti i mondi stellari attraversano uno spazio che è incommensurabile. Unico è soltanto il cielo, spazio che sfugge ad ogni misurazione, «grembo universale», «ciò che tutto comprende», e da questo spazio e dai corpi che in esso si trovano risulta poi l’universo, un Tutto coeso. Se nello spazio c’è questo mondo, nello stesso spazio possono esserci anche altri mondi, e in altri spazi altri mondi senza numero. Per ‘mondo’ Bruno intendeva innanzitutto un sistema planetario, ma l’idea di relatività che stava alla base di una impostazione del genere rendeva ormai incompatibile l’idea metafisica dell’unità del mondo unico. E ciò comportava una rivoluzione all’interno dello stesso concetto di Dio.
In che rapporto sta l’infinitudine assoluta di Dio con l’infinitudine, appena scoperta, dell’universo incommensurabile? Come si rapporta l’unità di Dio con la pluralità dei mondi di cui ora si parla? Bruno è evidentemente interessato a chiarire le differenze tra Dio e l’universo. Dio è colui che limita, il mondo è ciò che viene limitato. Il mondo è infinito, Dio lo contiene come Totalità perfetta ed Essere presente in pienezza in ogni cosa. L’universo gode di una infinitudine non assoluta, ma dimensionale.
Io considero Dio assoluto e pienamente infinito perché presente interamente ovunque nel mondo intero e presente infinitamente e pienamente in ciascuna delle sue parti.
L’infinitudine divina e quella umana non sono in contraddizione tra di loro. Se ‘Dio’ altro non fosse che un termine diverso per designare l’universo – come si denunciava nell’accusa mossagli di panteismo – allora si tratterebbe di un termine di cui potremmo anche fare a meno, e la logica conseguenza sarebbe quella dell’ateismo. Per Bruno, invece, Dio deve esistere, ché altrimenti l’universo non avrebbe nemmeno senso. Naturalmente se Dio fosse soltanto un’infinitudine astratta, non esisterebbe un universo. In tal caso l’Infinito esisterebbe al di fuori di Dio e l’infinitudine sarebbe quella del Nulla, come sosterrà più tardi Spinoza. Il concetto di un Dio infinito e onnipresente non consente di concepire poi l’universo ‘al di fuori’ di Dio e Dio ‘al di fuori’ dell’universo. Un Dio che avesse un ‘al di fuori’ di sé non sarebbe nemmeno Dio. L’universo, quindi, può essere correttamente concepito soltanto ‘in Dio’.
Bruno non introduce affatto Dio nel mondo, ma fa capire la realtà del mondo in Dio. Se questo mondo è incommensurabile e dimensionalmente infinito, la divinità, proprio perché tale, sarà semper major. Per Bruno, dunque, il concetto di Dio rimane insopprimibile.
Per lui, comunque, la Divinità non è soltanto Onnicomprensività, bensì Essere in pienezza in ogni singola realtà. Dio è maximum e minimum allo stesso tempo. Se il minimum geometrico è il punto e il minimum fisico è l’atomo, il minimum metafisico è la monade. Tutte le cose sono costruite secondo queste unità originarie e formano l’unità reale del mondo, essendo la Divinità la Monas monadum. Bruno può dunque sostenere che «Deus est monas omnium numerum fons». Come il centro si dilata nel cerchio, allo stesso modo la divina Monade si moltiplica in innumerevoli creature.
Il mondo pluriforme va inteso come una multiplicatio Dei. Nella realtà più piccola è compresa la più grande, nell’infinitamente piccolo si riflette la Totalità del mondo. Il germe di tutte le cose sta in ciascuna di esse e il bisogno di explicatio e di multiplicatio costringe ogni singolo essere a trascendersi: una vera coincidentia oppositorum secondo il modello di Nicolò Cusano.
Ma l’universo di Bruno è concepito non in termini matematici, come con Newton, bensì organologici. E ciò spiega perché egli riprenda la vecchia dottrina stoica dell’anima mundi, presente anche nel pensiero dei Padri della chiesa: quest’anima del mondo, che dà vita e movimento a tutte le creature, è il dinamismo divino dell’universo.
In ogni cosa c’è anima, e non c’è corpo, per quanto piccolo, che non conosca questa partecipazione e non ne venga vivificato.
Come già gli stoici e i Padri della chiesa, anche Bruno poteva qualificare quest’anima del mondo come Spirito divino: la vera realtà e forma di tutte le cose. Egli riconosceva dunqueall’universo una straordinaria soggettività e poteva immaginarsi il mondo come un organismo vivente. Tutte le cose vivono l’una insieme alle altre, l’una nelle altre e per le altre, nella comunione di un mondo animato, organicamente articolato e dinamicamente azionato. L’unità ovunque presente è Dio, quella forza vitale che tutto compenetra è una forza divina: «Physis optima deitas».
Posto di fronte a questo universo incommensurabile, l’essere umano, ovviamente, si sente disorientato. In uno spazio che non siamo in grado di misurare, noi non possiamo nemmeno distinguere tra un alto ed un basso, fra ciò che sta alla destra e ciò che sta alla sinistra, tra l’avanti e l’indietro. Spesso, da Pascal fino a Nietzsche, questo shock è stato descritto come la situazione metafisica di un uomo privo di patria, che ha perso la terra sotto i piedi.
Differente l’impostazione di Giordano Bruno, secondo il quale l’uomo non è più, sicuramente, il centro di un mondo per lui creato, ma proprio per questo egli potrà e dovrà farsi centro del mondo e darsi il proprio orientamento. Posto di fronte ad un universo incommensurabile, l’essere umano non si sente allora perduto, ma anzi proprio da questa esperienza egli riscopre la propria dignità e grandezza.
Bruno qui si muove nell’alveo culturale del Rinascimento e vede l’uomo nuovo, piazzato in un universo incommensurabile, come un ‘eroe appassionato’. L’eroe cui egli si riferisce è il libero pensatore, l’intrepido cercatore della verità dell’universo, ma anche il campione della giustizia e della verità. E la passione di cui egli parla è una ‘divina trazione’, l’amore per il Divino che c’è in tutte le cose. In questi eroi vive ed opera lo stesso Spirito di Dio. E l’esperienza che essi fanno è quella dell’Originario: «Se Dio ti tocca, allora diventi bragia ardente». È il rapimento mistico, ma per l’Universo divino, non per un Dio al di fuori dell’Universo. L’‘eroe appassionato’ è dunque colui che avverte la profonda coincidenza con l’Universo: nel finito egli si identifica con l’infinito, diventa tutt’uno con ciò che mantiene coesa la realtà del mondo nell’interiorità più profonda.
«A Lui s’addice muovere il mondo dall’interno»
Nell’illuminismo incipiente, le tesi cosmologiche di Bruno trovarono ampio spazio di discussione. I suoi scritti circolavano nei grandi dibattiti cosmologici animati da Newton, Leibniz, Chr. Wolff ed altri ancora. Ma soltanto con John Toland, in Inghilterra, e Friedrich Heinrich Jacobi, in Germania, si avvertirono pure le conseguenze che la sua visione del mondo comportava sul piano metafisico. Lo scritto di Jacobi, Sulla dottrina di Spinoza nelle lettere al signor Mendelsohn (Über die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Mendelsohn), del 1789 con in appendice la traduzione del De la causa di Bruno, infiammò a Berlino la disputa sul panteismo e influenzò profondamente il pensiero teologico al tempo di Goethe.
Goethe stesso non era solo un estimatore, ma anche, a modo suo, un seguace di quest’«uomo faustiano» e della sua
Weltanschauung religiosa. Goethe ha sviluppato non soltanto la dottrina metafisica delle monadi di Bruno, ma anche la sua concezione di un mondo inteso come organismo. Ovunque, quando all’inizio dell’Ottocento nella poetica e filosofia tedesche c’è Spinoza, presente è sempre anche Bruno. Anzi Bruno sarà ancor più importante di Spinoza quando, già ai tempi della prima industrializzazione, si tenterà di superare la visione meccanicistica del mondo che ne stava alla base, per impostare il rapporto con la natura in modo più umano e organico.
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Oggi, sotto la spinta di una crisi ecologica che viene proprio da quella visione meccanicistica del mondo e da un processo di civiltà che la scienza e la tecnica hanno sviluppato proprio su quelle basi, dovremmo riprendere il dialogo teologico con Bruno. Il presupposto metafisico per lo sviluppo della visione meccanicistica era che il mondo fosse privo di anima. La vecchia idea di anima mundi veniva rigettata perché considerata retaggio di antiche superstizioni e obsoleti animismi. Il mondo è quella macchina che Dio, il Signore, ha impostato secondo le leggi che regolano la natura. «Dio non governa le cose da Anima del mondo, ma da Signore dell’universo», sosteneva Newton.
L’idea tutta mascolina di dominio soppiantava così la vecchia immagine femminile di un mondo organicamente animato. Muta anche la collocazione dell’uomo nella natura. L’ideale non è più quello dell’‘eroe appassionato’ che nell’universo s’identifica con lo Spirito divino, bensì l’essere umano che attraverso la scienza e la tecnica si fa signore e padrone della natura. Ma quando si sacrifica l’immanenza di Dio-Spirito-nel mondo a favore della trascendenza di Dio-Signore-sul mondo si apre anche la porta ad una concezione della natura in cui non c’è più posto né per lo Spirito né per Dio. Ed allora è lo stesso essere umano a venir espulso dal contesto della natura e dalla comunione con il creato. Ora la sua opera di civiltà assume un tratto ostile nei riguardi della natura.
Se vogliono sopravvivere su questa terra, la natura e l’umanità devono trovare nuove forme di convivenza. Gli esseri umani dovranno integrarsi nuovamente, insieme alle proprie culture, nelle condizioni cosmiche in cui la terra vive, pena la perdita della loro stessa umanità. È importante allora sviluppare nuovi modi di concepire l’organismo ‘terra’, sul tipo dell’‘ipotesi Gaja’ di James Lovelock: gli uomini non vivono ‘sulla’ terra o ‘di fronte’ alla natura, ma ‘nella’ terra, all’interno di quell’organismo globale che accumula ed elabora incessantemente energia ed assicura la vita umana.
La base metafisica che dovrebbe sorreggere questa concezione organologica e ‘post-moderna’ della natura della terra è senza dubbio un nuovo modo d’intendere la presenza e l’opera dello Spirito di Dio in tutte le cose, o meglio in tutti i sistemi complessi ed aperti della materia e della vita. Bisognerà superare la visione cartesiana che riduce lo spirito al pensiero, perché il pensiero umano diventi, rispetto alla natura, un pensiero di tipo comunicativo e non serva più esclusivamente ad un uomo interessato ad esercitare il proprio dominio sulla natura.
E la base teologica che consente di superare una visione religiosa funzionale al potere dell’uomo nella società moderna è senza alcun dubbio la riscoperta immanenza di Dio nello Spirito della creazione, dello Spirito che chiama tutte le cose all’esistenza e costituisce la ragione di vita di tutto ciò che esiste. Sostenere che la ‘distinzione di Dio e mondo’ si sarebbe resa possibile con la dottrina ebraico-cristiana della creazione è piuttosto banale, troppo unilaterale, frutto del bisogno di adattamento del pensiero teologico al mondo moderno.
Creazione significa ben più di produzione di un’opera da Dio distinta. Come l’artista mette nella sua creazione l’intera propria anima, allo stesso modo il Creatore mette tutta la sua anima in ciascuna delle creature ed a tutte egli si comunica con un amore che non conosce limiti. Questo Creatore che si comunica è presente in tutte le creature in forza del suo Spirito (Sap 12,1), così che esse sono tutte in grado di amarlo e di glorificarlo. Naturalmente Dio e il mondo non si confondono tra di loro. Vero è però che Dio è presente nella propria creazione da Creatore, per cui, se vogliamo capire il mistero del creato, con Goethe dovremo vedere Dio nella natura e la natura in Dio.
La legittima paura di sconfinare nel panteismo, che Schopenhauer considerava niente più che una versione ingentilita dell’ateismo, non deve portarci a sconfessare quel vero ‘pan-en-teismo’ che troviamo presente tanto in Bruno come in Goethe. Soltanto se Dio rimane Dio, la sua immanenza nel mondo opera quell’autotrascendenza che riscontriamo in tutti i sistemi vitali aperti, la loro evoluzione, la loro sempre più complessa interdipendenza, in ragione di quel ‘di più’ che li costringe continuamente a superare la propria attuale condizione.
Così, ad es., se dicessimo, con l’astrofisico Erich Jantsch nell’interessantissimo suo libro del 1979, L’autoorganizzazione dell’universo (Die Selbstorganisation des Universums), che «Dio è l’evoluzione», scadremmo sotto il livello di Bruno e Goethe, riducendo l’evoluzione a dinamismo del mondo e non precisando in che cosa poi consiste il dinamismo della stessa evoluzione. Le negazioni portano soltanto a riduzioni. Nessuna reale acquisizione se con Jantsch riconosciamo che «Dio non è il Creatore, ma pur sempre lo Spirito dell’universo».
La prospettiva si apre invece all’infinito se si afferma: proprio perché Creatore, Dio è anche lo Spirito dell’universo. Lo ‘Spirito’, concepito come ‘Dinamismo dell’autoorganizzazione’ dell’universo nei suoi diversi livelli, è divino non perché gli si attribuisce un concetto di Dio di tipo dinamico – e per tale dinamismo s’intende Dio stesso – ma perché il concetto di Dio cui si ricorre si ricava dalla differenziazione trinitaria. Soltanto entro questo orizzonte, infatti, è possibile sostenere che tutto è ‘da Dio’, tutto è ‘per mezzo di Dio’, tutto è ‘in Dio’.
All’interno di questi più ampi nessi trinitari trova la propria legittima collocazione anche la visione bruniana di un universo incommensurabile nel Dio infinito, un Dio che dall’interno del mondo opera attraverso le monadi, un Dio che anima e permea del proprio Spirito l’universo intero. Bruno intendeva parlare da filosofo, per cui intenzionalmente non ricorreva a idee cristiane quali la creazione del mondo, l’incarnazione di Dio, il dono dello Spirito. Né possiamo muovergli un qualche rimprovero, perché al suo tempo quelle dottrine teologiche non erano sufficientemente elaborate per consentire a scienziati e filosofi di farne un uso proficuo.
Spesso si dice che Giordano Bruno si pone sulla soglia dell’età moderna da profeta che preannunzia le prossime scoperte e da antesignano di una folta schiera di uomini nuovi. A me pare che, giunti alla fine di questa nostra età, Bruno si ponga anche come precursore di un ‘paradigma’ post-moderno per un mondo umano, che riuscirà a sopravvivere soltanto se entrerà in consonanza organica con lo Spirito dell’universo.
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