La prima traduzione italiana, a quanto mi consta, di un libro scritto da John D. Caputo può forse valere la pena di una breve presentazione che offra al lettore qualche indicazione sull’autore di questo piccolo testo, sul contesto teorico in cui esso è maturato e sul tema di cui tratta.
Caputo è un filosofo americano di formazione cattolica, tuttora vivente (è nato nel 1940), che ha insegnato per molti anni nella Villanova University e poi, da emerito, alla Syracuse University. È autore di una serie notevole di pubblicazioni che lo hanno consacrato negli Stati Uniti, e fatto conoscere in Europa, come uno dei maggiori filosofi continentali della religione e come il rappresentante della cosiddetta “teologia debole” (weak theology). Il carattere “continentale” della filosofia della religione di Caputo si deve al fatto che gli autori che hanno ispirato la sua riflessione sono per lo più europei, e si tratta di autori come Kierkegaard, Heidegger, Derrida – ai quali, in particolare al secondo, Caputo ha dedicato opere significative – e più recentemente della costellazione di pensatori che hanno operato la cosiddetta “svolta teologica della fenomenologia francese”, fra tutti Jean-Luc Marion. Un particolare influsso dal punto di vista teologico su Caputo lo ha invece esercitato Paul Tillich, che in effetti è un autore a lui particolarmente congeniale, soprattutto in virtù, come dirò tra breve, del modo in cui tratta del rapporto tra filosofia e teologia.
“Continentale” Caputo lo è come filosofo della religione anche per altri due aspetti: in primo luogo per essersi ben ambientato nel clima antimetafisico o postmetafisico in cui in Europa spesso si fa filosofia della religione. In questo senso la differenza con la filosofia “analitica” della religione, cioè con la corrente di studi prevalente in ambito anglo-americano, è netta: quest’ultima ha promosso nell’ultimo quarantennio una vera e propria rinascita della teologia naturale, con i suoi classici argomenti a favore dell’esistenza di Dio e la sua articolata riflessione sulla natura di Dio, e di solito guarda con sospetto alla critica della metafisica, in particolare a quella heideggeriana, considerata quasi sempre come il cavallo di Troia che ha fatto entrare nel dominio della filosofia continentale l’arbitrio concettuale e la confusione terminologica.
In secondo luogo il carattere “continentale” della filosofia della religione di Caputo si evince dalla sua chiara opzione per lo stile postmoderno di fare filosofia, in particolare per quello suggerito da Derrida. Poiché il pensiero postmoderno rifiuta in genere di offrire rigide definizioni, è difficile dire in che cosa consista propriamente questo stile, ma, come Caputo stesso afferma, esso sembra caratterizzato da una spiccata sensibilità per le differenze e quindi per la pluralità delle visioni del mondo, una sensibilità che sorge principalmente dalla critica di visioni onnicomprensive, totalizzanti, che sono state tipiche della filosofia moderna. La metafora dell’indebolimento, molto nota al lettore italiano per essere stata coniata e largamente impiegata da Gianni Vattimo, è utilizzata anche da Caputo non soltanto per descrivere il processo storico-culturale che segna appunto la transizione da modelli interpretativi della realtà univoci e impositivi verso modelli plurali e tolleranti, ma più ancora come una metafora originariamente religiosa, la paolina scelta di Dio per ciò che è debole (1 Cor 1,27), in grado di guidare una riconfigurazione radicale dell’interpretazione del cristianesimo in epoca postmoderna. Quella che è forse la sua maggiore opera di impegno teoretico, e che non a caso porta il titolo La debolezza di Dio, è infatti un tentativo di interpretare il cristianesimo sulla falsariga della critica dell’attributo classico dell’onnipotenza, e della correlata dottrina della creatio ex nihilo, che conduce a concepire Dio come “una forza debole”. Questa interpretazione consente, secondo Caputo, di sviluppare una visione teologica che accoglie in sé l’incertezza e l’instabilità che caratterizzano la vita umana, ma anche di rideterminare il concetto centrale del messaggio di Gesù, quello dell’avvento del Regno di Dio, in un senso immanente che può ancora oggi orientare l’etica e la politica.
L’interesse precipuo che Caputo possiede verso la religione e il cristianesimo lo differenzia dunque da molti altri filosofi postmoderni. Alcuni di questi, come appunto Derrida e Vattimo, hanno dimostrato un interesse per la religione in genere e per il cristianesimo in specie, ma esso sembra rientrare in un interesse filosofico generale per tutte quelle forme di “alterità” che potenzialmente appaiono in grado di decostruire la volontà di potenza di una metafisica oggettivante e dei suoi correlati etico-politici. Si tratta quindi di un interesse derivato, spesso occasionale, dettato da coincidenze, per quanto significative, come nel caso del parallelo tra Derrida e sant’Agostino che Caputo riprende da Derrida stesso e sviluppa nella conclusione del presente testo e in altri scritti. L’interesse di Caputo per la religione e il cristianesimo è invece originario, e questo è appunto quello che fa di lui un filosofo della religione in senso proprio e anche un teologo, dal momento che per lui la dimensione filosofica, per quanto diversa da quella teologica, si sovrappone inestricabilmente a quest’ultima. Come per Tillich, anche per Caputo la riflessione sul cristianesimo è qualcosa che si sviluppa sul confine tra filosofia e teologia, un confine che certamente esiste, ma che è aperto e che si può e si deve oltrepassare in un continuo andirivieni. Questo spiega anche l’interesse e la grande considerazione che Caputo ha nei confronti di Kierkegaard, un autore che di solito non appartiene (come invece Nietzsche e Heidegger) alla genealogia del pensiero postmoderno.
La stessa motivazione del connubio tra religione, cristianesimo e postmodernità che Caputo tenta di operare sembra più teologica che filosofica, e ancora una volta appare dettata dall’impostazione di Tillich e in particolare dal metodo della correlazione, che ha ispirato anche molta teologia cattolica postconciliare. Secondo quest’ultimo, il teologo non muove soltanto dall’alto, dalla rivelazione e dalla parola di Dio, ma anche dal basso, dalle domande che sono tipiche dell’uomo in un certo contesto culturale e storico. Se noi viviamo nell’epoca postmoderna, e quindi in una determinata condizione culturale, allora la teologia non può ignorare questo fatto, bensì deve piuttosto assumerlo nella sua riflessione e, per quanto possibile, farlo divenire parte integrante delle risposte che offre all’uomo dei giorni nostri.
Questa impostazione, che è del tutto condivisibile in linea teorica, può risultare discutibile nella sua realizzazione pratica, dal momento che soltanto essa dà la misura di che cosa si intenda di fatto con “correlazione”, ovvero se si intenda, come a volte accade, una mera apertura dialogica che si limita a riprendere slogan e formule, ma non la sostanza dell’elemento a cui ci si correla, oppure se, come nel caso di Caputo, si intenda realmente partire da quest’ultimo e assumerlo nella propria visione. In questo caso si tratta di capire fino a che punto riconfigurare il messaggio cristiano sulla base della condizione culturale attualmente esistente e secondo quale direttrice.
La direttrice scelta da Caputo, l’ho detto in precedenza, è quella di un indebolimento dell’immagine tradizionale di Dio, che rende scarsamente significative rigide distinzioni concettuali come quelle fra teismo e ateismo, e si orienta a favore di una visione anarchica, adogmatica, del cristianesimo in cui suggestioni spiccatamente postmoderne (la khora di Derrida o un vago messianismo che capita di trovare spesso negli odierni orfani del sogno marxista di una palingenesi sociale) si sovrappongono a influssi che provengono direttamente dalla tradizione cristiana (la staurologia di Paolo e di Lutero), dalla mistica e dal dibattito teologico contemporaneo (dalla teologia della morte di Dio e dalle teologie kenotiche, alla teologia del processo fino all’open theism di alcuni pensatori evangelici). L’esito finale è invero del tutto ambiguo: da una parte dà l’impressione di trovarsi di fronte all’ennesimo episodio in cui la correlazione della teologia cristiana con l’elemento culturale esistente, e in specie con quello filosofico, dà luogo a un vero e proprio trasferimento, armi e bagagli, dentro quest’ultimo da parte di chi oramai non sa più di avere una casa propria. Ma, dall’altra, esso sembra postulare una meravigliosa armonia tra cristianesimo e milieu postmoderno, il che diviene un modo astuto, o incredibilmente ingenuo, per rivendicare un primato del cristianesimo proprio all’interno di una concezione che difende strenuamente il pluralismo religioso.
L’insostenibile ambiguità di questo esito tocca però soltanto in parte il testo di Caputo che qui viene presentato e non pregiudica del tutto il valore delle riflessioni che in esso si trovano. Il pensiero postmoderno è essenzialmente una reazione alla filosofia moderna e quindi dà il meglio di sé – o forse l’unica cosa buona di sé – nell’esercitare una critica della modernità e del suo pretenzioso razionalismo. Un aspetto condivisibile della posizione di Caputo è che questa critica deve essere intesa in un senso socratico-kierkegaardiano, cioè come una critica che mira a sgombrare il campo da certezze irriflesse e accomodanti, e offre così le condizioni per un’autentica ricerca della verità; in questo senso essa appare guidata non da un intento nihilistico (o sofistico), ma da quello di aprire nuove piste di interpretazione, in particolare riguardo al rapporto tra filosofia e teologia che è appunto l’oggetto di questo libro. Il programma è del tutto condivisibile, anche se la sua esecuzione non riesce finché si rimane sul terreno del prospettivismo postmoderno, che, nonostante l’impegno profuso anche recentemente da Caputo, non si distingue da un puro e semplice relativismo e in cui il tema della verità, appena emerso, torna immediatamente a sprofondare. Per questo motivo, apprezzare e condividere le intenzioni che muovono questo piccolo testo non significa apprezzare e condividere l’interpretazione del rapporto tra filosofia e teologia che Caputo propone negli ultimi due capitoli di esso, un’interpretazione che, come il lettore avrà modo di constatare, ha più un valore retorico che argomentativo.
Il lettore rimarrà in ogni caso colpito dallo stile chiaro, brillante e diretto, certamente inusuale per un accademico e per un postmodernista, con cui Caputo, pur al prezzo di qualche inevitabile semplificazione, tratteggia il rapporto fra filosofia e teologia nella storia occidentale, mettendo in luce la collaborazione in epoca antica, le tensioni sorte con la modernità e il tentativo fallito della filosofia in epoca moderna di ridurre o liquidare la teologia. E sarà quasi naturalmente portato a condividere la conclusione che Caputo trae da questa vicenda storica, ovvero che nella nostra epoca – quella postmoderna, cioè postsecolare – si è aperto un nuovo spazio di plausibilità per la religione e per la teologia. L’idea che la religione (e con essa la fede e la teologia) sia un “gioco linguistico” che vale pena di essere giocato, perché non contrasta di principio con la ragione e perché è in grado di dare un senso, o come dice Caputo, di trasmettere una passione alla vita dell’uomo, è una conclusione alla quale è possibile arrivare anche senza passare per le tortuosità e i sentieri interrotti del postmodernismo; ma se il senso del postmodernismo è anche questo (e per Caputo è essenzialmente questo), tanto meglio. Si tratta di una conclusione che in realtà è un nuovo inizio, un nuovo inizio al quale, nello spirito del postmodernismo stesso, ognuno darà seguito nel modo che ritiene teoricamente e praticamente più adeguato.
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