Nel suo Mistica degli occhi aperti (Queriniana, Brescia 2013), uscito in lingua originale per i tipi di Herder nel 2011, il teologo tedesco recentemente scomparso dedicava un capitolo al tema del tempo e della temporalità in teologia, a motivo all’importanza che la dimensione storica e temporale riveste nel contesto dell’apocalittica biblica. Riproponiamo un estratto di quel testo, per avviarci a vivere con una consapevolezza più acuta e più critica il tempo del nuovo anno che si è da poco dischiuso davanti a noi. Davanti a noi sta un tempo che non è in(de)finito, ma a termine, ci ricorda Metz: sembra infatti che per noi cristiani del XXI secolo il tempo stesso sia diventato una vuota infinità, priva di sorprese, sicché abbiamo bandito nell’ambito del mito l’attesa di una fine universale. Ma allora è come se dicessimo a noi stessi: non può più esserci tempo per... la fine del tempo! E di conseguenza cadremmo in una drastica privatizzazione del tempo, che ignora la storia passata e la proiezione futura degli altri. Mentre la matrice pericolosamente liberante della speranza cristiana non è il tempo della propria vita privata, ma è anche sempre e inevitabilmente il tempo degli altri.
Prendo qui avvio dalla concezione, fondata nella scienza della religione, che la temporalizzazione del tempo è entrata nella storia della religione e della cultura dell’umanità soltanto attraverso l’apocalittica biblica, con la storia di passione che è in essa articolata. A mio avviso questa entrata tardiva del pensiero della temporalità nell’apocalittica biblica, questa svolta (rilevante per la teoria del tempo) del “tempo eterno” nella sua temporalizzazione, cioè nella sua delimitazione, può essere considerata come una caratteristica che posiziona in modo unico la religione ebraico-cristiana nella storia delle religioni. Questo pensiero biblico della temporalità era sconosciuto nell’ambito religioso e culturale dell’Asia anteriore, ma anche in ambito greco e mediterraneo: questo vale sia per il “tempo eterno” dei presocratici (ripreso da Nietzsche in modo quasi postmoderno), come pure per il “cosmo eterno” della classicità greca.
I / Platonismo e aristotelismo come detemporalizzazione?
La storia di Gesù è senza dubbio una storia apocalittica nella quale l’universalità astratta della ragione (greca) viene definitivamente girata nel tempo e nella storia. Tuttavia questa svolta non venne attuata nella cultura del lógos di Atene, ma nella cultura anamnestica di Israele. Lì si aveva una consapevolezza della temporalizzazione che ai greci poteva sembrare “stoltezza” (1 Cor 1,23). Il discorso biblico su Dio fece saltare il concetto di “tempo eterno”.
Ora, la domanda che mi inquieta è la seguente: il cristianesimo, nel suo trasformarsi in teologia, non ha abbandonato troppo rapidamente questo pensiero apocalittico della temporalità? La teologia cristiana non ha forse tentato di superare il problema del cosiddetto ritardo della parusía (ovvero la crisi della cosiddetta attesa a breve termine del cristianesimo delle origini), detemporalizzando completamente i comportamenti di attesa del cristianesimo delle origini e idealizzandoli (e quindi generalizzandoli in termini atemporali), ricorrendo soprattutto alle categorie del medio-platonismo? Non comincia già lì una funesta detemporalizzazione di tutto il mondo concettuale della teologia? Non soltanto i platonici cristiani, ma anche i teologi aristotelici – come Tommaso d’Aquino – ebbero delle grandissime difficoltà a usare questa temporalizzazione del loro mondo, per non cadere nel dualismo gnostico di un tempo senza salvezza e di una salvezza senza tempo, quel dualismo che ha minacciato fin dall’inizio (e minaccia fino ad oggi) la storia della teologia del cristianesimo. In questo contesto si ricordi anche l’osservazione di H. Blumenberg, secondo cui neppure la grande teologia medievale riuscì a superare il dualismo gnostico con la sua dottrina dell’analogia.
II / Il nominalismo come recupero teologico del tempo?
Il capovolgimento storico-concettuale nel cosiddetto nominalismo (teologico) non ha introdotto per primo una svolta – sebbene resa fortemente insicura sul piano categoriale – verso la temporalizzazione, per scansare il pericolo di un errore semantico nel linguaggio della teologia cristiana? Per la teologia cristiana questo capovolgimento nominalistico è visto (spesso ancora oggi) in modo completamente adialettico, come inizio di una storia di decadimento della ragione e del pensiero in genere. Questa teologia è riuscita difficilmente a riconoscere questo nominalismo come un’impostazione di pensiero, ispirata anche alla Bibbia, nell’orizzonte del tempo temporalizzato e come entrata – ancora immatura sul piano categoriale – nei primi processi storici di apprendimento dell’epoca moderna. Non si sarebbe dovuto dire della teologia cristiana: Hic lógos, hic salta?
Tuttavia, di fronte a questa corrente valutazione teologica del nominalismo, si deve ricavare l’impressione che la teologia cristiana sia entrata con il piede sbagliato nell’aurora della prima epoca moderna. Perciò, a mio giudizio, il recupero teologico del nucleo del tempo e della storia nel cristianesimo non può nemmeno avvenire attraverso un’escatologia purificata – sul piano logico dell’identità – da tutte le esperienze di interruzione, ma soltanto attraverso un pensiero della non identità, stimolato dall’apocalittica biblica e dalla sua teodicea, attraverso un pensiero che mantiene una memoria del grido degli uomini e conserva la temporalità della fine per il tempo dell’umanità.
III / C'è tempo per la fine del tempo?
Con il tentativo di una totale detemporalizzazione e idealizzazione del mondo concettuale della nostra teologia non abbiamo forse buttato via anche il bambino con l’acqua sporca? Che cosa significa ancora per noi “vegliare”, che cosa significa “attendere” e “aspettare”? Che cosa vuol dire alla fine “sperare” e “rimpiangere” nell’orizzonte di un tempo rigorosamente detemporalizzato? Che speranza celebriamo nelle nostre liturgie (… «finché egli venga» nella gloria)? Nel mondo non diamo ormai forma, noi cristiani, allo spettacolo di uomini e donne che sicuramente parlano di speranza in Dio e del suo “regno”, ma che non attendono più nulla? Aspettiamo ancora la fine, una fine per tutta l’umanità, non solo per il singolo nella situazione “disperatamente” isolata della morte individuale? Che cosa significano tutti questi concetti di fronte alla fondamentale detemporalizzazione della concettualità teologica? Non abbiamo forse da molto tempo bandito nel regno del mito l’attesa di una fine universale, perché per noi il tempo stesso è diventato una vuota infinità, priva di sorprese, e perché, proprio per questo, non può esserci più tempo per la fine del tempo?
Nella questione della temporalità del tempo non si tratta soltanto del mio tempo, ma anche del tuo tempo, si tratta in definitiva del tempo di tutti gli altri; e nella questione della “fine del tempo” non si tratta soltanto della mia morte, ma anche della tua morte, della morte di tutti gli altri. Di conseguenza, la matrice della speranza cristiana non è il tempo isolato della propria vita, ma è anche sempre e inevitabilmente il tempo degli altri. Non soltanto il nostro tramonto nella morte, ma anche il tramonto degli altri, la morte degli altri mantiene desta l’inquietudine escatologica nel nostro cuore.
La detemporalizzazione qui richiesta del lógos della teo-logia cristiana è soltanto per colui che sostiene una “relativizzazione” contraria alla verità, per chi ha un rapporto con la verità che è senza tempo e idealizzante, un rapporto che rimane inadeguato per il carattere di evento del messaggio cristiano. Una chiesa che afferma di credere nell’incarnazione di Dio nella storia dovrebbe istruire i fedeli non solo sulla volontà di questo Dio incarnato, ma dovrebbe anche “studiare” questa volontà divina nelle esperienze storiche. Per esempio, non sarebbe stato un primo passo di insegnamento della chiesa rendere indimenticabile in ogni approccio il fatto che, in Gesù Cristo, Dio non si è fatto solo uomo, ma anche ebreo? Oggi la nostra teologia non fa spesso capire che avrebbe preferito che Dio fosse diventato un “greco”?
«In Svevia si dice di qualcosa che è avvenuto molto tempo fa: c’è già da così tanto, che quasi non è più vero». Non possiamo sottrarci teologicamente alla conseguenza di questo aforisma svevo riferito da Hegel in risposta alla questione del rapporto tra verità e tempo con l’idealizzazione senza tempo della verità (Atene), ma prestando attenzione agli spunti di temporalizzazione della visione della verità (“fedeltà”) che si trovano nelle tradizioni bibliche (Gerusalemme) e ponendo quindi noi stessi e la nostra condotta cristiana sotto la pressione del tempo. In questa temporalizzazione lavora la dialettica di una ragione anamnestica (dotata di memoria): nella figura di una coscienza che sente la mancanza per produrre passati aperti, e nella figura di ricordi pericolosamente liberanti per il futuro dell’umanità.
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