29/04/2016
344. IL SINODO DIVISO GIUNGE ZOPPO AL TRAGUARDO Di Thomas Reese (gesuita, già direttore dell’autorevole rivista "America", e attualmente analista del "National Catholic Reporter"
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Fin dall’inizio, le sfide che il sinodo sulla famiglia del 2015 doveva affrontare erano enormi.

In primo luogo, il tema è smisurato. Tutto tocca le famiglie e le famiglie hanno un impatto su tutto. Le questioni che riguardano la vita della famiglia sono complicate e ci accompagnano da molto tempo. Nessuna meraviglia che molte questioni affrontate al recente sinodo fossero già state sollevate anche nel 1980, al precedente sinodo sulla famiglia: divorzio, convivenza, matrimoni irregolari, aborto, controllo delle nascite, povertà, poligamia in Africa, matrimoni misti, nullità del matrimonio, rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, educazione dei figli ecc. Non si trovarono facili soluzioni nel 1980 e non si sono trovate facili soluzioni neppure in questo sinodo.
In secondo luogo, i delegati al sinodo sono arrivati a Roma con esperienze culturali e pastorali della vita familiare molto diverse fra loro. I delegati occidentali (e i media occidentali) pensavano ai cattolici divorziati risposati e agli omosessuali, mentre i vescovi dell’Africa e dell’Asia venivano da paesi con atteggiamenti culturali molto diversi nei riguardi degli omosessuali e delle donne e avevano in mente, inoltre, molte famiglie che affrontano situazioni di guerra, di emigrazione forzata e di povertà. Fuori dai confini del cosiddetto Primo Mondo, le questioni familiari includono temi come il traffico di esseri umani, i matrimoni combinati, i matrimoni misti, le mogli bambine, la poligamia, le mutilazioni genitali femminili e quelle tradizioni culturali nelle quali è previsto che il matrimonio si realizzi gradualmente nel corso del tempo, non nel momento in cui la coppia pronuncia il suo fatidico sì.

In terzo luogo, i delegati avevano concezioni teologiche e pratiche pastorali diverse sulle questioni relative alla famiglia. Per alcuni il matrimonio è un contratto che può essere sciolto solo dalla morte, mentre altri vedono milioni di brave persone in seconde nozze alle quali viene negato l’accesso ai sacramenti.

In quarto luogo, pochi vescovi fornivano una qualche giustificazione teologica raffinata a sostegno dei loro argomenti. I conservatori continuavano semplicemente a ripetere che il matrimonio è indissolubile: ciò che Dio ha unito, l’uomo non separi. I progressisti affermavano di non aver alcuna intenzione di cambiare la dottrina della chiesa, ma unicamente la pratica pastorale. Mancava da entrambe le parti un’esegesi approfondita e argomentata dei passi della Scrittura sul matrimonio, per non parlare di una spiegazione dello sviluppo della dottrina. La mancanza di una qualsiasi coscienza storica risultava evidente quando i vescovi affermavano che dottrina e prassi della chiesa sul matrimonio non erano mai cambiate.

Papa Francesco sapeva che il sinodo sulla famiglia non sarebbe stato un cammino facile. Perciò decise di celebrarlo in due sessioni: anzitutto come sinodo straordinario nell’ottobre del 2014 e poi come sinodo ordinario nell’ottobre del 2015. Purtroppo sembra che questo non sia servito: alla fine della seconda sessione i vescovi erano divisi esattamente come alla fine della prima. Si poteva sperare che fra le due sessioni i vescovi commissionassero ricerche o consultassero esperti in teologia, ma a quanto pare non l’hanno fatto. E nemmeno hanno portato al sinodo dei teologi al proprio seguito.

I padri sinodali sembrano aver dimenticato che l’unica ragione del successo del concilio Vaticano II era stata l’alleanza, nel corso dei suoi lavori, fra vescovi e teologi (i cosiddetti periti). Molti vescovi non erano arrivati a Roma con idee chiare in materia di riforma della chiesa, per cui i primi due anni del concilio furono piuttosto un corso di formazione permanente, che alla fine permise loro di sostenere il cambiamento. Quella alleanza fra teologi e vescovi fu abbastanza solida da sconfiggere la curia romana, che cercò di imporre le sue concezioni ai vescovi, senza riuscirvi.

Purtroppo l’alleanza fra teologi e vescovi si infranse dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, quando la fedeltà verso il Vaticano divenne la prova del nove per le nomine dei vescovi e si utilizzò la Congregazione per la dottrina della fede per perseguire i teologi: e quelli etichettati come dissidenti sarebbero stati evitati dai vescovi “fedeli alla linea”. I teologi, irritati dagli attacchi della gerarchia, si ritirarono nelle loro università, ritenendo che parlare con i vescovi fosse una perdita di tempo. Per la chiesa le conseguenze di questa “frattura” sono state disastrose. È come se la direzione di una grande multinazionale non parlasse con il suo reparto ricerca e sviluppo. Una multinazionale del genere non è in grado di proporre nuove idee o di rispondere a nuove situazioni.

Papa Francesco ha cercato di uscire da questa stagnazione aprendo la finestra che era stata chiusa dopo il concilio Vaticano II. All’apertura del sinodo del 2015, ha chiesto ai vescovi di parlare con franchezza, anche a costo di mostrarsi in disaccordo con lui. È impossibile sopravvalutare il carattere rivoluzionario di un tale atto: costituiva un cambiamento straordinario rispetto ai sinodi del passato che erano accuratamente orchestrati e controllati dal Vaticano. Lo stesso Bergoglio aveva lamentato il fatto che a un sinodo precedente un cardinale di curia gli avesse detto quali argomenti non dovevano essere toccati. Risultava dunque ridicola l’accusa sollevata dai conservatori di una manipolazione del sinodo da parte dei progressisti, quando ogni sinodo celebrato dopo il concilio Vaticano II era stato manipolato proprio da loro. Ciò che i conservatori lamentavano era, in realtà, la loro perdita del controllo della situazione.


Alla fine, il sinodo è riuscito a raggiungere un accordo sulla questione più controversa: il trattamento da riservare ai cattolici divorziati risposati, quando il primo matrimonio (canonico) non sia stato annullato. La proposta originaria del card. Walter Kasper, quella di seguire l’esempio delle chiese ortodosse, è stata accantonata. Il gruppo di lingua tedesca proponeva dal canto suo di ricorrere al foro interno, nel quale il sacerdote aiuta la singola persona a riconciliarsi con la chiesa. Il gruppo tedesco ha svolto in effetti un ruolo cruciale proprio per il fatto di comprendere al proprio interno alcuni fra i membri del sinodo teologicamente più preparati, persone come lo stesso Kasper e il card. Christoph Schönborn. Cosa più importante, il gruppo comprendeva anche il card. Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, notoriamente contrario alla proposta kasperiana di seguire la prassi delle chiese ortodosse. Quando il gruppo tedesco approvò all’unanimità la sua relazione, anche altri vescovi ne tennero conto. Circa un terzo dei padri sinodali voleva ammettere i cattolici divorziati alla comunione, un terzo era contrario e il restante terzo era indeciso. Quest’ultimo terzo voleva dare risposte ai divorziati a livello pastorale, ma temeva di infrangere la dottrina e la tradizione della chiesa. Per questo gruppo, il sostegno offerto da Müller alla procedura del foro interno fu decisivo. «Se il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede dice che è ok, dev’essere corretto così».

Di conseguenza, come il gruppo tedesco, il documento finale ha optato per il foro interno, nel quale i sacerdoti possono aiutare i cattolici risposati «alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio» e a decidere come procedere. La relazione finale afferma al n. 86: «Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere». E continua: «Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa».

Nei tre paragrafi che trattano dei cattolici divorziati e risposati le parole “comunione” ed “eucaristia” non compaiono; ma questo era l’unico modo di far passare i paragrafi con i due terzi dei voti richiesti. Quanto è avvenuto non è diverso dai compromessi e dalle ambiguità introdotti nei documenti del concilio Vaticano II per raggiungere il consenso richiesto da Paolo VI. I conservatori affermano già che il testo non permette la comunione perché non la nomina; per difendere quest’interpretazione, però, devono spiegare la ragione per cui erano risolutamente contrari ai paragrafi prima della votazione. I progressisti sostengono il contrario: poiché non si menziona il divieto della comunione, resta aperta la strada ad essa. Dopo tutto, qual è lo scopo del processo del foro interno, se non quello di ricondurre le persone alla comunione?
Comunque i paragrafi lasciano a papa Francesco la libertà di fare ciò che vuole [nell’annunciata esortazione apostolica post-sinodale]. Molti osservatori ritengono che egli voglia permettere la comunione ai divorziati. Infatti, ha affermato varie volte che la comunione non è un premio per i perfetti, ma un alimento per le persone ferite.

Papa Francesco ha migliorato il processo sinodale, incoraggiando una discussione aperta e concedendo più tempo alle discussioni nei gruppi; ma occorre fare di più. Membri del sinodo dovrebbero essere solo i vescovi diocesani. Bisognerebbe che i cardinali e i vescovi di curia vi possano partecipare come “personale di servizio”, ma non come membri con diritto di voto. È un errore nominare vescovi e creare cardinali gli ufficiali di curia. La curia opera ancora come una corte regale, anziché come un servizio “pubblico”. Coloro che vi lavorano non dovrebbero essere membri del collegio dei vescovi, ma persone al servizio del papa e del collegio.
Il papa dovrebbe anche trovare un modo per reintrodurre la competenza teologica nel processo sinodale. Forse il sinodo potrebbe imitare il concilio di Trento, nel quale i teologi discutevano fra loro davanti ai vescovi. La Commissione teologica internazionale dovrebbe fornire un maggior contributo al processo sinodale, come fanno le associazioni teologiche professionali. Occorre eliminare la frattura fra i due magisteria, quello dei vescovi e quello dei teologi, creando ponti.

Il sinodo per papa Francesco non è semplicemente un singolo evento, ma è un modus operandi che vorrebbe vedere applicato in tutta la chiesa. I vescovi imiteranno Francesco e diranno ai loro preti e ai loro fedeli di parlare con franchezza e ascoltare con umiltà? Vogliamo continuare a vivere cercando compromessi o dobbiamo avere sempre la meglio sugli altri? Il sinodo, in definitiva, non ha riguardato solo la famiglia: ha avuto a che fare anche con il tipo di chiesa che vogliamo essere.






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