25/01/2013
242. IL RUOLO DELLA TEOLOGIA AL CONCILIO E LO STATUTO DEI TEOLOGI E DELLE TEOLOGHE OGGI di Rosino Gibellini
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Cupola di San PietroLa storiografia di firma cattolica si pone la domanda: quale teologia ha anticipato e preparato il Vaticano II? Tra le prime fonti si evidenzia l’articolo di Yves Congar, Una conclusione teologica all’Inchiesta sulle ragioni attuali della incredulità, apparso su La vie intellectuelle (1935) a conclusione della Inchiesta promossa dalla stessa rivista nel 1933/1934, sulle ragioni dell’incredulità nei differenti ambienti della società francese. Congar parlava nel suo commento di «fede disincarnata»: «La fede si è per così dire disincarnata, svuotata del suo sangue umano». La risposta-valutazione di Congar ha incominciato a introdurre un “linguaggio incarnazionista”, per superare il “divorzio” tra chiesa e mondo. È qui posto, negli anni Trenta, con circa trent’anni di anticipo, uno dei temi maggiori del futuro concilio del XX secolo, che ha entusiasmato gli spiriti: chiesa e mondo.


In quei trent’anni – nella prima metà del secolo, e dopo la tormentata crisi modernista – la teologia cattolica (o cattolico-romana) si sviluppava su due linee: la linea ripetitiva di una neoscolastica, che procedeva in genere per tesi e per conclusioni teologiche, che Congar chiamava “teologia barocca”; e una teologia innovativa, che era squalificata come nouvelle théologie, ma che lo storico lovaniense Roger Aubert, che scrive dopo il concilio Vaticano II, così valutava: «Se si cercasse, in un breve epilogo, di fare il punto sul movimento teologico tale quale si manifestava nella sua effervescenza un po’ esuberante verso il 1950, quando l’enciclica Humani Generis rappresentava l’inizio della curva discendente che caratterizzò gli ultimi anni del pontificato di Pio XII, si potrebbe dire che questo movimento teologico, sostenuto da una duplice preoccupazione, quella del ritorno alle fonti e quella dell’apertura al mondo moderno, si situava esattamente nella linea direttiva che sempre deve essere quella della teologia e della chiesa [...]».

Si possono qui ricordare alcune opere teologiche che, pur nella congiuntura ecclesiale sfavorevole, sono edite nel decennio 1950-1959 (tra la pubblicazione dell’enciclica Humani Generis e l’annuncio del concilio Vaticano II) e che documentano come le forze del rinnovamento, sia pure in ordine sparso e con la necessaria cautela, sono al lavoro: rinnovamento dell’ecclesiologia con le opere di Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa (1950), e Punti-base per una teologia del laicato (1953), con Abbattere i bastioni (1952) di von Balthasar, e con le Meditazioni sulla Chiesa (1953) di de Lubac; teologia della storia e delle realtà terrestri con il Saggio sul mistero della storia (1953) di Daniélou, e con Per una teologia del lavoro (1955) di Chenu; svolta antropologica in teologia con gli Scritti sulla teologia di Rahner, che iniziano ad apparire a partire dal 1954; nuovo atteggiamento nei confronti del mondo con le opere di Teilhard de Chardin, che iniziano ad essere pubblicate, postume, a partire dal 1955; nuova frontiera dell’ecumenismo con La giustificazione (1957) del giovane teologo svizzero Hans Küng. Abbiamo così citato solo alcune delle opere teologiche maggiori degli anni Cinquanta.

Il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) avrebbe rapidamente mutato questa situazione. Scrive Congar nella prefazione alla seconda edizione del 1968 di Vera e falsa riforma nella Chiesa (un libro, la cui prima edizione cadeva male, essendo stato pubblicato nel novembre del 1950, solo pochi mesi dopo l’enciclica Humani Generis), ma che, secondo il teologo francese Jean-Pierre Jossua, discepolo di Congar, era stato letto e annotato dal nunzio di Parigi, mons. Roncalli, e ha avuto «una importanza decisiva per l’idea d’un concilio di riforma della vita della chiesa (il “concilio pastorale” di Giovanni XXIII)»: – «Giovanni XXIII, in meno di qualche settimana, e in seguito il concilio hanno creato un clima ecclesiale nuovo. L’apertura maggiore è venuta dall’alto. Di colpo, delle forze di rinnovamento che stentavano a manifestarsi apertamente potevano svilupparsi».

Non solo i teologi hanno anticipato con la loro riflessione e con le loro opere temi del futuro concilio, a partire dalla “germinazione degli anni Trenta” (come la chiama Chenu), ma sono stati presenti ed hanno partecipato al concilio come teologi conciliari.

Erano presenti come periti, espressione non totalmente chiara per indicare teologi, canonisti e altri esperti, o più chiaramente, teologi conciliari, ed hanno svolto “un servizio essenzialmente nascosto” (Karl Heinz Neufeld), non facilmente documentabile. Uno storico, parlando del contributo di un teologo come Karl Rahner, scrive: «Se si esplorano gli archivi cercando apporti scritti durante il concilio, non si incontra neppure un solo testo redatto da Rahner “solo”».

Come si diventava teologo del concilio? Vi era un regolamento (anche se imperfetto), ma si diventava “periti” per chiamata diretta del papa o del presidente di commissione, o anche solo per chiamata di un padre del concilio, che immetteva il teologo nella sua commissione, con la conferma del papa. In questo senso, si ricordano il cardinale di Colonia, Frings, accompagnato dal perito Joseph Ratzinger; il cardinale di Vienna, König, con il perito Karl Rahner; il cardinale di Milano, Montini, con il perito Carlo Colombo.

Quanti erano i periti? All’inizio nel 1962, erano stati chiamati 201 periti; nell’aprile 1963, prima della seconda sessione, il loro numero era arrivato fino a 348; e la lista degli Atti del concilio comprende 480 nomi.

Caprile su La Civiltà Cattolica 1/1965, in una retrospettiva sulla terza sessione, scrive: «Quest’anno ci sono 434 periti anche se non tutti sono sempre presenti nell’aula del concilio. Ci sono fra loro nomi prestigiosi, uomini che sono famosi per il loro insegnamento e la loro attività, per l’esperienza nell’impegno e per il loro inquadramento. Essi hanno dato al Concilio un contributo costante, efficace, disinteressato e senza clamore. Sulle loro spalle gravava, in gran parte il compito faticoso della redazione, revisione, correzione e rielaborazione dei testi. [...] In una parola, “gli intrepidi pionieri del Concilio”».

Può dare un’idea della informalità e della collaborazione tra padri del concilio e teologi questo ricordo scritto (del 1984) del p. Congar relativo ad un convegno del primo mese del concilio:

«Venerdì 19 ottobre 1962 alle 4 circa nella casa “Mater Dei” in via delle Mura Aurelie 10, convegno di alcuni vescovi tedeschi e francesi e di alcuni teologi tedeschi e francesi convocati dal Vescovo Volk. Erano presenti: i Vescovi Volk, Reuß, Bengsch (Berlino), Elchinger, Weber, Schmitt, Garrone, Guerry e Ancel, i padri Rahner, de Lubac, Daniélou, Grillmeier, Semmelroth, Rondet, Labourdette, Congar, Chenu, Schillebeeckx, i professori Feiner e Ratzinger, mons. Philips, padre Fransen e il professor Küng. Oggetto: Discutere e fissare una tattica per quanto concerne il comportamento da tenere di fronte agli schemi teologici. In una discussione durata quasi tre ore vengono alla luce, naturalmente, tutte le possibili sfumature…».

Si sono rivelate anche difficoltà, per la crescente influenza dei periti, come affiora da queste righe (datate 5 novembre 1964) del famoso corrispondente del giornale parigino Le Monde, H. Fesquet:

«Gli esperti del concilio Vaticano II […] sono per certi padri conciliari divenuti uomini pericolosi. Così si comprende perché questi esperti […] sono molto influenti. Elaborano le prese di posizione dei vescovi e influenzano lo sviluppo del pensiero. Chi sono? Qualche centinaio di teologi […]; per la Francia gli esperti sono, per esempio, i padri de Lubac, Daniélou, il rev. René Laurentin ed altri senza contare i teologi consiglieri privati dei vescovi come i padri Chenu, Liégé e altri».

Ma si deve anche ricordare che Paolo VI fece comunicare al concilio, il 13 novembre 1965, che «per testimoniare la sua benevolenza nei confronti degli esperti, fra i quali non pochi avevano lavorato con il più grande amore verso la chiesa e con vero zelo, a volte però nel più completo silenzio» avrebbe invitato alcuni di loro alla concelebrazione della messa in occasione della promulgazione della costituzione dogmatica sulla rivelazione divina e del decreto sull’apostolato dei laici.

Sintetizza il teologo della Gregoriana, Karl Neufeld, che ha studiato il tema, «insieme ai vescovi che, attraverso il Concilio, erano riusciti a dare alla loro missione un nuovo significato, anche i periti avevano adottato un modo di collaborare che rispondeva meglio alla complessità dei compiti fissati e alla necessità di una elaborazione teologica, competente, diligente e convincente».



Si riconosce che l’entusiasmo del concilio aveva favorito una collaborazione fattiva tra vescovi e teologi, che non ha avuto bisogno di una teorizzazione. Arriviamo qui al secondo punto sullo statuto dei teologi e delle teologhe oggi. Non si tratta qui di definire in astratto, sotto il profilo canonico e teologico, tale statuto, né di percorrere la storia delle tensioni tra magistero e teologia nel postconcilio (non esiste ancora una storia ben documentata in proposito), ma di proporre alcune riflessioni orientative nello spirito della memoria del concilio Vaticano II, che si celebra e si celebrerà in questi anni.

Nella costituzione dogmatica Dei Verbum (18 nov. 1965) si legge al n. 23 una affermazione molto ripetuta dai sostenitori di una teologia magisteriale: «Gli esegeti cattolici, poi, e gli altri cultori di Sacra Teologia, collaborando insieme con zelo, si impegnino, sotto la vigilanza del Sacro Magistero, a studiare e spiegare con gli opportuni sussidi le divine Lettere, in modo che il più gran numero possibile di ministri della divina parola possano offrire con frutto al popolo di Dio l’alimento delle Scritture, che illumini la mente, corrobori le volontà, accenda i cuori degli uomini all’amore di Dio».

Il testo sembra definire una teologia magisteriale, ma è situato in un documento del concilio, che ha avuto una complessa storia redazionale, che il teologo perito conciliare, Joseph Ratzinger, ha così sintetizzato nel suo “illuminato commento” (Otto Hermann Pesch) del 1966-1968. Scrive il teologo Ratzinger:

«Un pezzo decisivo di storia del concilio aveva così [con la promulgazione della costituzione sulla rivelazione] trovato un esito conciliante. Il testo che in quella giornata venne solennemente proclamato dal papa reca naturalmente le tracce della sua sofferta storia ed è espressione di numerosi compromessi. Eppure il compromesso di fondo che lo sostiene è più che un compromesso, è una sintesi di grande rilievo: il testo collega la fedeltà alla tradizione ecclesiale con l’assenso alla scienza critica e dischiude in tal modo in una maniera nuova la strada per la fede nel mondo d’oggi. Esso non rinuncia a Trento ed al Vaticano I, però nemmeno mummifica ciò che avvenne allora, dato che è consapevole che la fedeltà nelle cose spirituali è realizzabile solo mediante una sempre nuova assimilazione. Guardando all’insieme del risultato raggiunto si può dunque senza riserve affermare che lo sforzo di quella disputa durata quattro anni, non era stato inutile».

Qui si constata che il documento sulla Rivelazione (e in genere i documenti conciliari) sono il frutto di un compromesso, che è sintesi di tre istanze: fedeltà alla tradizione ecclesiale, riconoscimento della teologia come scienza critica, responsabilità per l’annuncio del vangelo nel mondo.

Ma il teologo Otto Hermann Pesch, che nella sua Storia del concilio Vaticano II individua e cita come rilevante il testo del commento di Ratzinger alla Dei Verbum, guardando alla situazione presente, scrive (negli anni Novanta) con una certa amarezza: «Nel “nucleo duro”, però, si rimane dell’avviso che non esiste una reale comunanza, in certi casi anche in forma di disputa, tra il magistero e la teologia, ma che vi sono qui l’annuncio e là la teologia, che è tenuta ad un’obbedienza interiore ed esteriore di fronte all’insegnamento ufficiale – seppure non ancora formalmente dogmatizzato – della chiesa. A ben guardare, con tale visione non viene nemmeno rispettato il faticoso compromesso raggiunto dalla costituzione sulla rivelazione». Così si evidenzia il passaggio dalla collaborazione nel concilio ad una giustapposizione tra Magistero e teologia nei decenni seguenti.

Cito – per concludere – un recente documento ufficiale su La teologia oggi, firmato dalla Commissione Teologica Internazionale del 2012, che si mostra consapevole dei problemi esistenti e si situa sulla linea di una auspicata collaborazione tra vescovi e teologi. Scrive il recente documento vaticano al n. 42: «Inevitabilmente nel rapporto tra teologi e vescovi possono talvolta prodursi tensioni. Nella sua profonda analisi dell’interazione dinamica, all’interno dell’organismo vivente della Chiesa, […] il beato John Henry Newman ha riconosciuto la possibilità di tali “contrasti o collisioni croniche” ed è bene ricordare che erano da lui considerati “nella norma delle cose”». E prosegue citando la Tesi 9 del documento Magistero e Teologia del 1975: «Riguardo alle tensioni tra teologi e Magistero, la Commissione Teologica Internazionale si è così espressa nel 1975: “Dovunque c’è vera vita lì c’è pure una tensione. Essa non è inimicizia né vera opposizione, ma piuttosto una forza vitale e uno stimolo a svolgere comunitariamente ed in modo dialogico l’ufficio proprio di ciascuno».

Forse si tratta di ricuperare, nel nome di una nuova evangelizzazione, quella capacità di sintesi, da cui sono nati laboriosamente, nella reale comunanza e collaborazione tra Magistero e teologia, i documenti del concilio Vaticano II.



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Editrice Queriniana, Brescia (UE)

- Intervento alla Tavola rotonda, A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, nella Aula Grande della Fondazione Bruno Kessler di Trento (22 novembre 2012)

Otto Hermann Pesch
IL CONCILIO VATICANO SECONDO
Preistoria, svolgimento, risultati,
storia post-conciliare

Biblioteca di teologia contemporanea 131
pagine 456

 

 

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