01/08/2024
564. IL MEGLIO RITUALE DELLA PANDEMIA - PARTE I Non abbiamo scelto di stare senza messa di Manuel Belli
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Teologi@Internet è lieta di ospitare questo intervento (in due parti) di Manuel Belli; qui trovi la II parte, "Possiamo scegliere di non fare solo messe?"

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Durante la pandemia non abbiamo scelto di stare senza messa, eppure è successo. E siamo stati provocati a comprenderne meglio il valore, anche per rapporto ad altre forme di preghiera. Siamo tornati a messa, con un potente rischio di rimozione delle intuizioni nate. Ora che possiamo andare a messa, possiamo scegliere di non fare solo questo?



Nel maggio del 2020, quando le misure restrittive si sono attenuate, papa Francesco ha usato questa espressione, divenuta celebre in poco tempo: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla». “Non è andato tutto bene”, come avrebbe voluto il celebre slogan con cui abbiamo provato a rassicurare i più piccoli nei primi giorni in cui la tempesta pandemica ci ha colti di sorpresa: sono morte tante persone, soprattutto nei giovani le ferite sono rimaste, silenti e non facili da curare. Tante famiglie hanno perso un nonno o una nonna senza poterlo salutare. In generale ci siamo riscoperti più fragili: un piccolo e invisibile virus ha tenuto il mondo in ginocchio per alcuni anni.

Eppure i giorni drammatici della pandemia ci hanno fatto pensare che qualcosa avrebbe potuto andare diversamente. Che ci eravamo dimenticati delle cose importanti e ci eravamo ripromessi di non dimenticarcele più. Anche come chiesa. Ci siamo riusciti?


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NON ABBIAMO SCELTO DI STARE SENZA MESSA

Quando le chiese sono state chiuse in tutta Europa durante la prima fase epidemiologica, secondo la rivista SettimanaNews,

nonostante l’assoluta novità delle normative e il blocco totale (poi mitigato) delle celebrazioni, non vi sono state significative resistenze, se non da parte di alcuni ambienti tradizionalisti o da sensibilità giuridiche che vi riconoscevano un vulnus ai diritti costituzionali garantiti alle fedi. Troppo nuova la pandemia e troppo rapida la sua espansione per sollevare obiezioni significative.

Non così la seconda ondata: i vescovi francesi, a fronte di un nuovo divieto di celebrazioni pubbliche, hanno presentato un ricorso al Consiglio di Stato e diverse migliaia di fedeli hanno protestato contro la conferma del divieto da parte dell’autorità pubblica.

In Italia ha fatto molto parlare la decisione Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, che, d’intesa con la comunità valdese, decise di sospendere la celebrazione pubblica dell’eucaristia nella sua diocesi, anche se la normativa della zona rossa non lo prevedeva; in una lettera in cui spiegava le ragioni del gesto sosteneva di averlo fatto per contenere il contagio, ma anche per dare un messaggio di una chiesa non insensibile e non fuori dal tempo. Ovviamente non sono mancate le obiezioni: in Italia non è stato registrato alcun focolaio che possa essere ricondotto a una chiesa e i detrattori si domandavano se lo specifico della chiesa non sia celebrare l’eucaristia piuttosto che smettere di celebrarla in solidarietà alle tante altre chiusure. Del resto i vescovi italiani avevano usato parole molto dure nei confronti del governo: il 27 aprile si erano rivolti al presidente del consiglio con l’accusa di compromettere la libertà di culto.

Superficialmente il dibattito dunque sembrava limitato a “messa sì” contro “messa no”. E, dobbiamo ammetterlo, almeno nelle prime settimane della crisi pandemica anche a livello locale la preoccupazione di trasmettere messe sembrava essere stata la prima forma di reazione. Tuttavia si sono aperti, silenti ma non troppo, dibattiti e spazi di pratiche dove la domanda è sembrata molto più interessante: non possiamo fare messe, potrebbe essere occasione per recuperare altri spazi di preghiera? Le impressioni sono state abbastanza variegate. Dario Vitali scriveva: «Nella misura in cui cresceva il numero di quelli che si impratichivano dei mezzi tecnologici, la rete restituiva un volto di chiesa telematica, che è sembrata sempre più a suo agio sulle piazze virtuali. Ma è stata anche il rilevatore spietato di una presenza ridotta a messe e rosari» (La rivista del clero italiano 6/2020, 432). Ma non sono mancate anche osservazioni di parere diverso; Giuliano Zanchi ad esempio sosteneva che, al di là di quanto trasmesso dai media, è divenuta palese una sorprendete vitalità delle parrocchie:

Molte comunità si sono organizzate, in vista dei riti pasquali, per inventare forme di liturgie domestiche, dove la presenza garantita del Signore può sgorgare dalla coscienza della dignità battesimale, finalmente sottratta alla sua predicazione retorica, ma realizzata in modi di essere chiesa in cui, in certe circostanze, il ministero è di qualcuno ma il sacerdozio è di tutti (La rivista del clero italiano 5/2020, 353).

Non è facile comprendere in quale direzione andare: “oltre la messa niente” o “prove di sorprendente creatività”? Qui occorre navigare un po’ a vista. Certamente messa e rosario sono stati i due grandi protagonisti on line, e certamente la possibilità di celebrare l’eucaristia è stata la richiesta che anche i vescovi hanno presto esternato. Alberto Carrara scriveva:

La messa è ciò che di più alto, di più grande, di più necessario il credente possa fare. “Di più grande della messa c’è solo il paradiso”, è stato detto. Ma la cosa più alta che esista per il cristiano è diventata la più bassa: si fanno messe sempre, i giorni festivi, e va bene, ma anche i giorni feriali, e va bene; molte volte nei giorni feriali, spesso con partecipazione scarsa e in alcuni casi nulla. E questo va già meno bene. Insomma: la messa è diventata un riempitivo che si colloca dappertutto, che serve sempre, che si deve celebrare sempre, ovunque, comunque. Diciamolo in altri termini: la messa è stata banalizzata (Rivista di pastorale liturgica numero speciale 2020, 46).

La centralità della messa significa una geografia della preghiera cristiana con un centro e senza periferia? Se si prova a fare un giro in rete, non c’è praticamente parrocchia, diocesi, associazione che non abbia proposto sussidi di preghiera da scaricare, da vedere on line, da leggere su WhatsApp, da ascoltare come audio. In teoria non è venuta meno la possibilità di pregare personalmente. Molti preti anzi hanno detto che tutto sommato il lockdown ha regalato loro una preghiera personale più distesa, magari un po’ costretta in tempi angusti nell’attività frenetica solita. Abbiamo scoperto che non c’è fede senza preghiera, forse anche che con una certa facilità abbiamo sistemato la questione della preghiera con la messa e una pratica di devozione diffusissima come il rosario.

Il venir meno della possibilità di celebrare o pregare insieme può essere che abbia messo in luce una grande povertà della nostra pratica pastorale: facciamo fatica a creare scuole di preghiera. Scriveva Andrea Grillo:

Dire messa e sentire messa, rispettivamente da parte dei chierici e dei fedeli, sembra comunque l’unico orizzonte possibile. Anche in assenza di comunità in presenza, sembra che l’unico vero registro comunicativo, su cui poter lavorare, resti solo la messa. Mentre la liturgia oraria, la liturgia della parola, la liturgia penitenziale, le meditazioni, le predicazioni sembrano avere dignità solo se c’è la messa. Alla messa può stare accanto, in qualche caso, soltanto il rosario, o la adorazione eucaristica sullo schermo. Questo passaggio dal grado zero al grado cento della esperienza orante non ci fa bene. Soprattutto ora avremmo bisogno di una esperienza articolata dei livelli e delle soglie di esperienza di preghiera e di celebrazione (Rivista di pastorale liturgica numero speciale 2020, 7).

Tom Wright ha proposto una interessante riflessione: il tempo della pandemia ha richiamato l’urgenza di una delle forme più difficili della preghiera, ossia il lamento. Lamentarsi significa presentare a Dio un dramma senza risolverlo, ma allo stesso tempo senza chiudere il dialogo:

In un tempo di acuta crisi, quando la morte si intrufola nelle case e nelle botteghe, quando ci si può sentire in salute ma essere portatori del virus senza saperlo, quando ogni estraneo per strada diviene una minaccia, quando si va in giro indossando le mascherine, quando le chiese sono chiuse e le persone muoiono senza nessuno che preghi al loro capezzale, allora questo è un tempo per il lamento. Per ammettere che non abbiamo risposte facili. Per rifiutarsi di usare la crisi come un altoparlante per ciò che dovremmo dire in ogni occasione. Per piangere sulla tomba dei nostri amici. Per il gemito non articolato dello Spirito (Dio, la pandemia e noi, Chieti 2020, 60).

Questo gemito può divenire generativo nella misura in cui apre a spazi di riflessione: se abbiamo imparato che non sappiamo pregare, conviene chiederlo con fiducia al Signore come fecero gli apostoli: «Maestro, insegnaci a pregare». Provando a creare spazi e stili idonei. Ci siamo riusciti?


[qui trovi la II parte, "Possiamo scegliere di non fare solo messe?"]



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